La VOCE   COREA   CUBA   PALESTINA   RUSSIA   SCIENZA 

Stampa pagina

 Stampa inserto 

La VOCE

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  

GIÙ

SU

La VOCE ANNO XXX N°6

febbraio 2025

PAGINA b         - 26

Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
"La VOCE" è un sito web di informazione indipendente e non rappresenta una testata giornalistica ai sensi della legge 62/2011.
Qualora le notizie o le immagini pubblicate violassero eventuali diritti d’autore, basta che ci scriviate e saranno immediatamente rimosse.
Segue da Pag.25: La politica del tradimento: Jenin, Abbas e il paesaggio infernale di Gaza

Lamento e vergogna, echeggiando nel grido angosciato di “Ya Ḥayif” nelle battaglie di Jenin oggi o nella critica accanita di Aseel Suliman alle vuote dichiarazioni di vittoria dell’élite dominante della Cisgiordania, sono saturi di emozioni stratificate e di politica.

Essi incarnano non solo l’indignazione, ma un più profondo computo della perdita, il tradimento e una brama collettiva di responsabilità.

È in questi spazi di crudo confronto che emergono figure, come Nizar Banat, che sfoggiano una penetrante analisi politica e prodezze retoriche nel lanciare feroci invettive contro l’Autorità palestinese.

Sono momenti di introspezione collettiva, colmi di angoscia nel chiedere: “Cosa siamo diventati?” e il difficile riconoscimento di un corpo nazionale frammentato, l’incapacità di reagire e il complicato posto della resistenza nel paesaggio contemporaneo della Palestina.

Da un lato, questi lamenti contengono una speranza persistente: la convinzione, per quanto fragile, che gli agenti delle FSP siano redimibili, che possano ancora vergognarsi riconoscendo la complicità, che possano essere cambiati.

Dall’altro lato, sottolineano le scelte difficilissime che i combattenti palestinesi devono affrontare a Jenin oltre al duro promemoria che resistere all’ANP significa, a volte, resistere ai propri parenti.

Reagire significa confrontarsi con se stessi e questo confronto mette a nudo la capacità insidiosa del regime dell’ANP di reclutare i corpi dei giovani come strumenti della sua volontà. Come un palestinese di Jenin ha osservato, “Si appropriano indebitamente della nostra stessa carne”.

Questa è una politica di intimo tradimento, in cui le linee di battaglia si confondono e i combattenti emergono dalle stesse strade, parlano lo stesso dialetto, ma combattono una guerra per un futuro che non potrebbe essere più diverso.

La forza delle FSP non risiede nella sua capacità operativa o nell’addestramento americano impartito in Giordania e a Gerico. Il suo vero potere sta nella lenta e metodica erosione nella fede e nella fiducia nella resistenza, un processo tanto deliberato quanto implacabile.

Inviando giovani palestinesi a scontrarsi contro giovani palestinesi, le FSP orchestrano un tragico teatro di sangue palestinese versato in battaglie dove non ci sono vincitori.

Ciò che si svolge non è semplicemente uno scontro di armi, ma un duello di resistenza, una gara a chi cederà per primo, a chi farà un passo indietro e si rifiuterà di andare oltre. A chi dirà: “Il sangue palestinese non vale la pena”.

Per molti palestinesi, lo spettro di una lotta intestina su larga scala è troppo devastante da giustificare, per quanto nobile sia la causa,per quanto urgente sia la necessità o per quanto ciniche possano essere le motivazioni.

Tuttavia, la capacità dell’Autorità palestinese di comandare dei giovani in battaglia – e che questi giovani si confrontino volentieri con i loro coetanei – rivela il potere inquietante della cooperazione in questo difficile frangente.

A Jenin, molti dei bersagli della campagna dell’ANP sono figli o parenti di membri della sicurezza delle FSP, essi stessi prodotti dello stesso tessuto sociale.

Molti provengono dalle stesse comunità che si identificano con Fatah, il partito al potere dell’ANP, confondendo i confini tra lealtà, resistenza e tradimento in modi che rendono il confronto non solo politico ma profondamente personale.

L’inflessibile campagna di Israele contro Gaza, la trasformazione della Striscia in una rovina apocalittica, non è solo un’operazione militare: è una performance, un deliberato spettacolo di crudeltà.

Sostenuta senza ritegno dall’Europa e dagli Stati Uniti, questa devastazione trasmette una serie di messaggi agghiaccianti: al mondo arabo, un triste promemoria della sua impotenza; ai palestinesi, l’insistenza sul fatto che la resistenza incontrerà un’inesorabile distruzione; al cosiddetto Sud globale, un velato avvertimento che quando la posta in gioco si alzerà, le norme e le regole internazionali saranno scartate, sostituite dalla forza sfrenata dell’impero.

Per i palestinesi al di fuori di Gaza, la violenza non è solo sopportata, ma è assorbita, pressata nelle loro vite come se fosse una verità immutabile. Ogni bambino sepolto, ogni famiglia cancellata, ogni casa ridotta in macerie diventa un promemoria del loro posto in un mondo che si rifiuta di fermare il massacro e spesso lo permette.

Per ogni grido da Gaza che cade nel vuoto, ogni proiettile che colpisce un medico o un’infermiera e ogni post sui social media che annuncia un altro martire, i palestinesi interiorizzano una narrazione crudele: che sono usa e getta, le loro vite scartate molto prima della loro morte.

I palestinesi sono proiettati, senza volerlo, in una tragedia che si ripete, come se la loro sofferenza fosse inevitabile ed eterna, e a ogni massacro da coloro che cercano di sradicare l’idea e le pratiche di resistenza viene ricordato: “Perché avete osato e vi siete ribellati?”.

Man mano che la normalizzazione dell’incapacità di fermare il genocidio prende piede, inizia ad alimentarsi un perverso spostamento della rabbia. La rabbia che dovrebbe essere diretta contro gli architetti della mostruosità – Israele – si rivolge sempre più all’interno, verso la resistenza stessa, sia come idea sia come pratica.

Tufan al-Aqsa, l’operazione “Alluvione di Al-Aqsa” del 7 ottobre, viene presentata come un momento di follia non calcolata, Israele consolida la sua narrazione di vittoria e l’Autorità palestinese coglie l’opportunità di esercitare il suo potere contro la resistenza che ha osato sfidare lo status quo.

L’affievolirsi della fiducia nella resistenza, l’erosione della fiducia nelle sue possibilità, si sono manifestate fino al punto in cui la resistenza stessa diventa il capro espiatorio e la precedente scommessa dell’Autorità palestinese di rimanere in disparte inizia a dare i suoi frutti.

Per oltre quattordici mesi, il mondo ha assistito alla distruzione di Gaza, seguita dal successo di Israele nel neutralizzare la capacità militare e politica di Hezbollah di fornire sostegno. Questo apre la strada a coloro che hanno scommesso a lungo sulla paralisi, come l’ANP, per agire finalmente e dirigere i loro muscoli verso ciò che rimane della resistenza palestinese in Cisgiordania.

Il paesaggio infernale di Gaza – il dolore, il trauma di un mondo sfatto – è stato accolto da una straordinaria protesta globale. Forti voci si sono levate, milioni di studenti, attivisti e persone comuni hanno alzato la posta in gioco, le organizzazioni mediatiche hanno instancabilmente denunciato i crimini di Israele e la barbarie dei sadici soldati israeliani è stata messa a nudo per tutti. Eppure, nulla di tutto ciò ha fermato la macchina.

La macinante inevitabilità della distruzione è continuata, indifferente alla resistenza, indifferente all’umanità che annienta.

Ma mentre il mondo guardava, lo stesso facevano i palestinesi che vivevano all’interno del dominio israeliano, la cui sopravvivenza si è basata su un calcolo difficile, scommettendo segretamente sulla cooperazione come mezzo per sopravvivere.

Per loro, sopravvivere significa navigare negli ingranaggi implacabili della macchina, sperando di sopravvivere al suo peso schiacciante, anche a prezzo di tale cooperazione.

La trasparenza del tradimento
Tempo fa, una delle ingiunzioni più ripetute per giustificare il sostegno a Mahmoud Abbas (Abu Mazen) era l’affermazione che egli è “sincero”. Coloro che portavano avanti questa linea sottolineavano una virtù peculiare: a differenza dei suoi predecessori, Abu Mazen non traffica in fantasie o gesti politici performativi.

Si impegna senza mezzi termini a cooperare con Israele, ma è onesto, diretto e senza alcuna pretesa di un approccio unidimensionale. Con Abu Mazen, ciò che si vede è ciò che si ottiene. Ma qui sta il paradosso, questa “veridicità” non è una virtù in senso convenzionale, ma un’onestà nel tradimento.

È come se il disarmante candore di Abu Mazen nell’allinearsi agli interessi di Israele funzionasse da peculiare lubrificante ideologico, in grado di smussare le profonde contraddizioni al centro della sua leadership.

In questo caso, la “veridicità” – una veridicità intesa non come integrità ma come cinica trasparenza – emerge non come virtù morale ma come strumento per nascondere l’origine di un surplus finanziario per la famiglia e i compari.

In questa economia contorta, la stessa trasparenza del regime diventa il suo occultamento: l’aperta ammissione di carenze, fallimenti e bancarotta
..segue ./.

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  

Stampa pagina

 Stampa inserto 

La VOCE

 La VOCE   COREA   CUBA   PALESTINA   RUSSIA   SCIENZA 

Visite complessive:
Copyright - Tutti gli articoli possono essere liberamente riprodotti con obbligo di citazione della fonte.