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La VOCE ANNO XXX N°6 | febbraio 2025 | PAGINA c - 27 |
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Segue da Pag.26: La politica del tradimento: Jenin, Abbas e il paesaggio infernale di Gaza
morale agisce come una strategia calcolata per proteggersi dalla critica. Ciò che si maschera come disarmante onestà è, in realtà, un’astuta coreografia, che allinea le parole senza soluzione di continuità con le politiche e le azioni: un tradimento mascherato da coerenza, uno spettacolo di confessione eseguito per disarmare il dissenso. Abu Mazen non è ipocrita, è esattamente ciò che dice di essere. L’onestà, se usata come strumento politico, apre un mondo di inversioni e bugie. Essere onesti, nel senso di Abu Mazen, significa destabilizzare il terreno stesso su cui poggia il significato. È invertire i valori con la precisione di un bisturi, trasformando il coraggio in criminalità, la solidarietà in sedizione e la resistenza in una minaccia contro la collettività. Questa “onestà” non serve a illuminare ma a oscurare, creando un paesaggio caleidoscopico in cui ogni verità si trasforma nel suo contrario. Una simile strategia arma il candore;e qui, il candore di Abu Mazen svolge una funzione curiosa. Invece di essere un leader nazionalista che in futuro potrebbe deludere o tradire la causa, il suo candido tradimento fin dall’inizio riscrive la narrazione stessa della leadership e della responsabilità. Abbracciando apertamente una politica di complicità, Abu Mazen crea uno scudo paradossale: il tradimento, confessato e riconosciuto, diventa una strategia per evitare del tutto le responsabilità. Eppure, per molti palestinesi, questa franchezza è stranamente benvenuta: un amaro sollievo in un panorama in cui la ciclica frantumazione delle speranze è diventata una norma insopportabile. Forse è meglio sopportare un leader che ammette apertamente la sua capitolazione piuttosto che uno che ammanta il tradimento con la retorica della liberazione o, più tragicamente, un leader che cerca davvero la liberazione, è disposto a morire per essa, ma alla fine viene accolto con la stessa cocente delusione. Questa trasparenza, tuttavia, non è priva di complici. Trova il suo primo alleato nel discorso sul “realismo” e sulla “realtà”, dove la realtà di un Israele feroce e mostruoso, protetto dall’imperialismo, viene usata per liquidare come ingenue le questioni di etica o di resistenza. Il secondo alleato è un’infrastruttura economica finemente sintonizzata sul consumismo, che opera come logica materiale e simbolica. Questa infrastruttura non si limita a plasmare i desideri di una popolazione, ma impone attivamente condizioni in cui la sottomissione appare come l’unica linea d’azione “razionale”, ma anche quella che soddisfa il desiderio di seguire le tendenze di TikTok, di innamorarsi in un moderno centro commerciale o di aprire le porte di una vita in cui il paradiso dei prodotti di consumo è facilmente disponibile. In questo senso, il tradimento non è solo una scelta politica, ma diventa una modalità di esistenza, ammantata dal linguaggio della necessità e dell’inevitabilità. Ma soprattutto, con Abu Mazen non ci sono momenti di pura potenzialità politica, nessun Tufan al-Aqsa, nessuna breccia o trasgressione che rompa lo status quo e apra orizzonti di liberazione. C’è invece un ritmo ricorrente di complicità che, pur essendo costoso, rimane costante e stabile, offrendo una cupa prevedibilità al posto della possibilità di trasformazione. Già nei primissimi giorni della campagna aerea di distruzione di Israele su Gaza, i video dei discorsi e delle diatribe di Abu Mazen contro l’irrealismo e la follia della resistenza hanno fatto il giro di TikTok. Col tempo, la logica di Abu Mazen sostituirà la violazione dell’involucro di Gaza da parte di Sinwar, un gesto che ha lacerato il tessuto di controllo, provocando la guerra che ne è seguita. Il quietismo di Abu Mazen si allinea non solo alla macchina dell’occupazione, ma anche a una paura profondamente radicata, in sintonia con la disperazione sommessa dei palestinesi in Cisgiordania, a Gerusalemme e all’interno di Israele. È una politica che dichiarala propria onestà attraverso l’atto stesso della capitolazione, una dialettica in cui la paralisi e il tradimento si mascherano come le uniche alternative possibili al caos e all’annientamento. |
La logica di Abu Mazen, martellata sulle macerie dalle bombe, inizia a tessersi nel tessuto intellettuale, guadagnando trazione con il riemergere di ritornelli familiari.
Gli intellettuali palestinesi tornano a criticare l’Asse della Resistenza, mettendone in dubbio l’autenticità, denunciando l’interesse personale che guida le politiche iraniane e lamentando la presunta inutilità della lotta armata nel generare possibilità politiche. Molti di questi intellettuali sostengono “forme di resistenza” alternative o, più insidiosamente, il quietismo della sottomissione. Nel frattempo, altri mormorano di una Nakba più devastante di quella del 1948, una catastrofe silenziosa che si svolge a ritmo inesorabile. Le argomentazioni si accumulano come detriti: l’invincibilità delle forze armate israeliane, forti del sostegno incondizionato delle classi dirigenti occidentali; l’inevitabilità della sottomissione incorniciata come realismo. La retorica si ripiega su se stessa, disarmando la resistenza non con la sola forza bruta ma con l’erosione del suo terreno intellettuale e morale, lasciando che il silenzio non sia un consenso ma l’eco di un abbandono deliberato. A sorprendere non è stato solo il fatto che le FSP hanno lanciato una nuova operazione contro ciò che resta della resistenza organizzata nel nord della Cisgiordania, ma l’ampiezza della complicità intellettuale, mediatica e politica che l’ha accompagnata. L’operazione non è stata solo tollerata, ma attivamente legittimata, spesso attraverso la critica dei fondamenti e delle logiche della resistenza stessa. Da molti palestinesi l’operazione è stata accolta con il silenzio, una quiete collettiva che tradisce l’assenza di una protesta o di un’azione diffusa, con la sola esclusione dei circoli sociali intorno al movimento armato a Jenin. Le bombe, le aggressioni intellettuali e l’incessante guerra psicologica, unite alla mostruosità di Israele e al suo successo nel contenere l’asse della resistenza, hanno svuotato l’appello alla resistenza. I suoi valori, la sua architettura affettiva e la risonanza emotiva che un tempo unificavano una lotta collettiva ora sono diminuiti, lasciando dietro di sé un terreno segnato dalla disillusione e dal dubbio. In questo contesto, la stabilità e la brutale chiarezza del tradimento sembrano preferibili all’incertezza della resistenza. Rompere il tabù L’inferno di Gaza è giunto in un momento in cui la rottura delle norme sembra quasi naturale. Il tabù, un tempo solido, del confronto diretto tra le FSP e le fazioni della resistenza nel nord della Cisgiordania si è disintegrato. Forte del suo immediato successo nel dimostrare ai palestinesi che la cooperazione garantisce la sopravvivenza, per ora, l’Autorità palestinese osa far marciare le sue forze nel cuore del campo profughi di Jenin. Lì uccide un leader chiave della resistenza, versando nel frattempo il sangue di un bambino palestinese, e giura di rimanere fino a quando il controllo su Jenin e sul suo campo non sarà totale. Per anni, tra i palestinesi – soprattutto tra quelli impegnati nella resistenza – è prevalsa una regola non scritta: evitare le lotte intestine, soprattutto lo spargimento di sangue palestinese. Questo principio, più che una semplice astrazione, è stata un’etica guida, anche nei momenti di pressione insopportabile. Quando le FSP hanno circondato Bassel al-Araj e i suoi compagni, egli avrebbe potuto reagire, ingaggiando uno scontro a fuoco che avrebbe potuto trasformarsi nell’ennesima tragedia di palestinesi contro palestinesi. Invece, Bassel ha scelto la resa, sopportando l’arresto e la tortura piuttosto che violare il fragile confine che tiene insieme una società in frantumi e in crisi. Ciò riflette il momento attuale, in cui la “resistenza”, sia come concetto sia come pratica, si è piegata sotto il peso schiacciante della mostruosità implacabile di Israele e della sua disponibilità a dispiegare tutta la forza del suo arsenale di fabbricazione americana. L’ANP, sempre desiderosa di soddisfare le richieste di Israele e degli Stati Uniti, sembra sempre più disposta a giocare d’azzardo con lo spettro di una sanguinosa guerra civile. ..segue ./.
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