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La VOCE 2101 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XXIII N°5 | gennaio 2021 | PAGINA 1 - 21 |
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in questo numero:
* interrogazione della senatrice paola nugnes sul perché l’italia non ha ancora aderito alla messa al bando delle armi nucleari.
* c. cernigoi: recensione de “la stanza di piera”, di stefania conte.
* c. greppi: recensione di "perché l’italia amò mussolini", di bruno vespa.
* slovenia: armi e nato anziché protezione sociale.
* nuovo indirizzario jugoinfo.
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il partito della rifondazione comunista, attraverso una interrogazione depositata in parlamento dalla senatrice paola nugnes, chiede chiarezza in merito alle ragioni per cui l’italia non ha ancora aderito alla messa al bando delle armi nucleari e se non ritenga doveroso uscire dal programma “nuclear sharing” della nato e interrompere l’acquisto degli f35.
fonte: http://www.
il testo dell’interrogazione della senatrice paola nugnes:
al ministro della difesa.
al ministro degli esteri.
premesso che
• lo scorso 24 ottobre, con la ratifica dell’honduras, il trattato onu di proibizione delle armi nucleari (tpan) ha raggiunto le 50 adesioni indispensabili per l’entrata in vigore che vincolerà legalmente i paesi firmatari e finalmente anche le armi nucleari potranno essere bandite al pari di quelle chimiche e batteriologiche;
• prima dell’entrata in vigore di questo trattato le armi nucleari erano di fatto escluse dalla lista delle armi di distruzione di massa proibite dal diritto internazionale;
• sono 50 i paesi che hanno sottoscritto il tpan ma tra loro non c’è l’italia nonostante l’articolo 11 della nostra costituzione – “l’italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali” – e nonostante 246 deputati e senatori (tra cui il ministro degli esteri) abbiano firmato l’ican pledge impegnandosi così a sostenere il percorso di ratifica del trattato in questione da parte del nostro paese;
• lo scorso 6 agosto, in occasione del 75mo anniversario del bombardamento atomico di hiroshima e nagasaki da parte degli stati uniti, il presidente mattarella ha dichiarato che: “l’italia sostiene con forza l’obiettivo di un mondo libero da armi nucleari, attraverso un approccio progressivo al disarmo che preveda il responsabile coinvolgimento di ogni stato. l’agenda internazionale non può prescindere da questo traguardo”;
• purtroppo invece il nostro paese partecipa al programma “nuclear sharing” della nato ospitando decine di testate nucleari statunitensi a ghedi ed aviano ed addestrando i piloti dei cacciabombardieri tornado al bombardamento nucleare e ha confermato recentemente l’acquisto degli f-35 che sostituiranno i tornado in questa funzione ed ha avviato l’ammodernamento della base aerea di ghedi a questo scopo;
• il nostro paese ospita testate nucleari e questo ne fa un bersaglio in caso di conflitto e quindi dopo l’entrata in vigore del trattato l’italia diviene paese che ospita sul suo territorio armi di distruzione di massa proibite;
• non risultano iniziative ufficiali dell’italia volte a sollecitare l’adesione al trattato da parte dei paesi aderenti alla nato e delle altre nazioni dotate di arsenali atomici;
tutto ciò premesso
si chiede di sapere
- se i ministri interrogati ritengano che l’italia debba aderire al trattato in questione e quali siano le ragioni per le quali il governo non ha proceduto in tal senso;
- se non ritengano doveroso uscire dal programma nuclear sharing della nato e interrompere il programma f-35 (2247 milioni di euro previsti dal ministero della difesa per il triennio 2020-2022);
- quali iniziative ha intrapreso l’italia a livello internazionale nella direzione prospettata dal presidente della repubblica.
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http://www.diecifebbraio.info/.
non entrate in quella stanza!
24 dicembre 2020.
(recensione de “la stanza di piera”, di stefania conte, morganti 2020).
il romanzo la stanza di piera di stefania conte, autrice che finora si è cimentata in racconti di magia, gatti e osterie, rappresenta la smentita concreta di quel noto aforisma (nonché regola di scrittura) che recita (più o meno) che la realtà, al contrario della narrativa, non necessita di essere credibile.ma ci ha fatto venire in mente anche una massima di daniel cohn-bendit: la cultura è come la marmellata, meno se ne ha più se ne spalma.
vediamo quindi di fare un’analisi di questo romanzo, nel quale l’autrice non scrive nulla che possa essere credibile, gli eventi sembrano stare insieme per miracolo,i dialoghi dei protagonisti sono sproloqui belli e buoni che nessun essere umano dotato di raziocinio oserebbe recitare, lo stile è sgrammaticato e la sintassi penosa; ed infine l’editing sembra essere stato un optional in cui si è giocato al ribasso. oltre a ciò segnaliamo l’uso spropositato ed improprio di termini desueti: citiamo quali esempi il «cadavere imbolsito», la «stolida che le sta appiccicata alle gonne», il «vetusto isaia depase»; e soprattutto il fiume quieto che «si liberava dall’onfalo utero della generosa sorgente zampillante”. ci è poi rimasta particolarmente impressa l’espressione:«civettuoli fazzoletti al collo del medesimo colore del sangue», perché l’uso dell’attributo “civettuolo”in tale contesto ci fa pensare ai termini impiegati da certa psichiatria, ormai fortunatamente sorpassata, per poter internare in manicomio donne e uomini non allineati.
ma prendiamo anche atto degli incisi (decisamente di cattivo gusto) che fanno riferimento alla sfera sessuale, come la spiegazione che la madre di piera «a trieste aveva raccolto (…) anche il seme di quell’uomo che si accingeva a sposare: aspettava un bambino», oppure la “ostentazione” (termine particolarmente amato dalla scrittrice, dato che i partigiani non fanno che “ostentare” fazzoletti rossi, mostrine, ed altro) fatta da una partigiana croata «di una luger sull’inguine, (…) segno inequivocabile della propensione all’odio e all’invidia del pene».
l’autrice inoltre non fa mistero delle sue simpatie pagane nell’attribuire ruoli da protagonista a fenomeni atmosferici (il vento, la bora…), umanizzando la storia (maiuscolo nel testo) che «consona al principale ruolo di sobillatrice (…) avrebbe suggerito alle forze titine di prendere il controllo sulle altre forze partigiane slovene, croate e italiane che si opponevano a un più vasto progetto di instaurazione del regime totalitario comunista jugoslavo» (inconsueta lezione di mitologia applicata alla storia diplomatica, per ottenere comunque un’interpretazione del tutto errata, storicamente innanzitutto, ma anche per l’assoluzione degli essere umani da qualunque responsabilità, come se non esistesse il libero arbitrio ed i fatti storici non dipendessero da chi li compie, inventando una divinità mai esistita prima, la storia) o evocando il dio perùn, il cui culto peraltro non era praticato in istria ma nei territori dell’antica russia.
tutto ciò comunque non sarebbe importante, perché finché si tratta di “letteratura” ciascuno è padrone di scrivere male quanto gli pare, poi saranno i lettori a giudicare (ed eventualmente agire come nero wolfe, cioè gettando nel caminetto o nel cestino della carta le pagine insulse): il problema è un altro. è che questo è presentato come un romanzo storico in cui l’autrice pretende di trattare (per citare la legge sul giorno del ricordo) le “più complesse vicende del confine orientale”, ed è stato avallato, definendolo «scritto bene e avvincente», ma soprattutto «onesto» nella narrazione, da un intellettuale che ricopre un ruolo importante nella cultura regionale, lo scrittore friulano angelo floramo, che ne ha scritto la postfazione e conclude affermando che stefania conte «ha capito» (il corsivo è nel testo).
ci si chiede se floramo, che ha un curriculum di tutto rispetto, abbia letto lo stesso libro che abbiamo letto noi, perché si possono ritenere “oneste” le descrizioni di stefania conte solo riconoscendole semplicemente un’ignoranza abissale in più di una materia: ma a questo punto non si comprende perché un lavoro pieno di scemenze e falsità, ancorché dette in buona fede (sulla quale non abbiamo motivo di dubitare), debba essere ritenuto degno di una presentazione positiva.
si diceva che conte dimostra di non conoscere affatto gli argomenti che si sforza di trattare, perciò di seguito andiamo ad analizzare quantomeno le fandonie più colossali che abbiamo trovato nel romanzo, iniziando dalle scarsissime conoscenze storiche dell’autrice, così scarse da non permetterle di fare una ricostruzione coerente degli eventi. dato che gli svarioni sono colossali, ne citiamo solo i più clamorosi.
così apprendiamo che «la grande guerra ebbe termine con la disfatta di germania, austria e (sottolineatura nostra, n.d.r.) ungheria, le nazioni della triplice alleanza»: dato che l’italia se n’era uscita dalla triplice alleanza nel 1915 tradendo gli alleati e passando a combattere contro di loro, probabilmente alla scrittrice di romanzi storici mancava uno dei tre alleati ed ha quindi pensato bene di scindere in due l’impero austroungarico per reperire l’alleato mancante.
ma proseguiamo: zara fu annessa nel 1920, non dopo l’occupazione della jugoslavia del 1941; le scuole croate furono chiuse definitivamente (a seguito della riforma gentile) alla fine dell’anno scolastico 1928/29, quindi nel 1935 la maestra andreina non poteva essere stata «licenziata» dall’insegnamento in lingua croata (che poi non si capisce perché mai insegnasse in croato se aveva fatto le scuole magistrali a trieste, dove la lingua di insegnamento era italiana; mentre se era croata non si comprende perché non abbia invece studiato in istria in qualche istituto con lingua d’insegnamento croata, che all’epoca dei suoi studi esistevano) per lasciare la scuola «ad un’insegnante venuta da roma, incapace a gestire una classe di bambini metà dei quali parlava solo il dialetto istroveneto». in diversi punti della narrazione abbiamo notato che conte non deve avere bene chiaro quali lingue o dialetti si parlassero al tempo (e si parlano tuttora) nelle zone in cui ha ambientato la sua fiction, dato che il dialetto “istroveneto” è, come si dovrebbe evincere dallo stesso nome, un dialetto di ceppo veneto, quindi neolatino: di conseguenza, pur venendo da roma (e ammettendo per assurdo che fosse abituata ad esprimersi solo in romanesco), la maestra avrebbe dovuto essere in grado di gestire bambini che parlavano in un dialetto derivato dal latino. il problema avrebbe potuto porsi con i bambini che parlavano in croato, ma di questo la scrittrice non sembra tenere conto. o forse si confonde con l’“istroromeno”, la lingua parlata nella ciceria, zona nel nord dell’istria (piuttosto distante da fianona)? non ci stupirebbe, dato che tutto il libro è impregnato di confusione ed ignoranza di quelli che possiamo definire i fondamentali; del resto anche più avanti leggiamo che in un sogno piera vede «uomini e donne in divisa» entrare ed uscire dalla caserma del suo «paese natale» che «borbottavano in una lingua incomprensibile» (incomprensibile per lei che parlava «italiano, croato, istriano, greco, latino e tedesco dialetto»?) e che altri «proclamavano in slavo (quale “slavo”, russo? polacco?), in italiano e in dialetto istroveneto morte al fascismo libertà ai popoli» (la differenza dello slogan tra le due versioni sarebbe morte al fascismo libertà ai popoli in italiano e morte al fassismo libertà ai popoli in istroveneto, lo diciamo per rendere l’idea a chi non ha confidenza con il “dialetto istroveneto”).
ma che l’autrice avrebbe bisogno di un ripasso generale è definitivamente chiaro nel punto in cui un “partigiano” «fazzoletto al collo e stella rossa sul berretto» (l’autrice sembra ritenere necessario ribadire, ad ogni “partigiano” che compare in scena, la presenza di fazzoletto e stella rossa, tanto per mantenere viva l’immagine macchiettistica dei partigiani che si vuole perpetuare) si mette ad inveire contro andreina (la maestra che era stata “licenziata” dall’insegnamento nelle scuole croate): «lei non capiva la sua lingua e gli si rivolse prima in dialetto poi in croato. lui si mise a urlare, frustrato dal parlare alieno»; quale lingua parlava questo partigiano “titino”, forse sanscrito o addirittura papuasio?
del resto conte (come moltissimi altri pretesi intellettuali, peraltro) non sembra avere chiaro il concetto di “slavi”, dato che scrive che l’impero bizantino «riconobbe agli slavi la loro indispensabile presenza-cuscinetto sui balcani contro i bulgari e i daci» (come se i bulgari non fossero slavi), né della componente etnica dell’istria, dato che vi segnala serbi che non l’hanno mai popolata storicamente e situa sloveni anche nelle zone esclusivamente croate.
altro punto critico è che l’autrice usa a sproposito in tutto il testo il termine “regnicoli” per gli istriani di lingua italiana, mentre tale termine era usato, in senso spregiativo tra l’altro, a trieste per definire gli immigrati dal regno d’italia venuti a cercare lavoro nelle città dell’impero austro ungarico (un po’ come oggi si usa il termine “extracomunitari” quando si parla di stranieri).
ciò che stupisce molto è però che floramo spieghi nella sua postfazione che «l’autrice butta subito un asso capace di conquistarmi e di farmi capire che il tenore del narrare sarà tutt’altro che banale», e tale “asso” sarebbe la descrizione dell’incendio del narodni dom di trieste (13/7/20), dato che proprio in questo “asso” sta una delle peggiori mistificazioni del testo. il narodni dom, che fu assaltato da squadristi nazionalisti e fascisti (evento che aprì di fatto la stagione del “fascismo di confine”) viene definito da conte come «copia carbone» dell’incendio alla redazione del piccolo del 25/5/15, che era stato invece operato da triestini fedeli al proprio governo dopo l’entrata in guerra dell’italia a tradimento degli ex alleati (e notiamo anche l’inaccettabile rovescismo ante litteram), è cosa che a noi sfugge, ma può rientrare in quell’operazione di appiattimento dei fatti storici in corso da diversi anni che porta a ritenere “colpevoli” tutti coloro che hanno fatto una scelta di campo, gli aggressori (cioè i fascisti) come gli aggrediti (cioè i partigiani), con l’assoluzione della sola “zona grigia” (quelli che dante avrebbe definito “ignavi”, per intenderci). pensiamo che questo romanzo sia del tutto inseribile in questa operazione e pertanto ci stupisce, ripetiamo, che proprio in base all’interpretazione data da conte dei fatti del narodni dom, una persona di cultura come floramo decida di avallare tutto il romanzo.
il racconto è poi pieno di anacronismi e di situazioni assurde per epoca e luoghi in cui viene ambientata la vicenda (in istria tra fianona e pisino nel periodo agosto/settembre 1943, con alcuni tuffi nel passato). come prima cosa ci sembra difficile che sotto il fascismo qualcuno potesse (come viene attribuito al dottor leoni) «leggere tutti i quotidiani, di qualunque schieramento politico», così come ci sembra impossibile che nello stesso periodo «innumerevoli liberi pensatori istriani, ostili o meno al pensiero egèmone (l’accento è nel testo: non se ne comprende il motivo ma l’autrice abbonda in accenti, a volte anche assurdamente, dato che porre l’accento sulla “o” di “infòibati” trasforma la parola da un participio passato ad una esortazione a gettare se stesso in una foiba, n.d.r.)» offrissero «con foga» al dottore, che non li rifiutava mai, «volantini reazionari (sic)». stefania conte lo sa che sotto il fascismo (ma anche nei pochi mesi tra la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre) era molto difficile che chicchessia si dedicasse (con o senza foga) a diffondere volantini, anche se reazionari (o forse lei intendeva “reazionari” nel senso che “reagivano” al fascismo? forse sarebbe stato meglio quindi scrivere “antifascisti”)? e sa che se qualcuno veniva trovato con tali volantini in mano difficilmente l’avrebbe passata liscia? forse un ripassino sulle sentenze del tribunale speciale per la difesa dello stato, che comminava pene molto pesanti anche per il solo possesso di volantini antifascisti, non farebbe male alla nostra, fantasiosa ancorché “onesta”, scrittrice. la quale inoltre, nonostante in altra pagina scriva che dopo la caduta del fascismo «pola e il resto dell’istria sono ora sotto il ferreo controllo dell’esercito» non si rende conto dell’assurdità di porre una «brigata partigiana» «di stanza» a pisino ben prima dell’armistizio dell’8 settembre, armistizio che secondo conte «aveva gettato nel caos l’europa» (veramente l’europa era nel caos già da quattro anni…).
ma già nel ’22, secondo l’autrice, il medico non solo leggeva i giornali ma anche informava la moglie «su ciò che raccontavano la radio di regime e le molte radio illegali». consideriamo che le prime trasmissioni della radio “di regime” iniziarono nel 1924, e che ai tempi non esisteva, come oggi, la possibilità di trasmettere per conto proprio, neppure “illegalmente” (radio londra era ancora lontana nel tempo) ma è simpatica anche la definizione dell’apparecchio radiofonico che esce da questi squinternati dialoghi: «una scatola di legno con manopola», alla quale noi aggiungeremmo anche qualche valvola e magari un altoparlante, altrimenti potrebbe sembrare qualunque altra cosa.
prendiamo atto anche di ulteriori pesanti gaffes storiografiche: «iniziò così l’operazione litorale adriatico», leggiamo ad un certo punto: veramente l’operazione era la wolkenbruch (nubifragio), che causò (secondo le cronache naziste dell’epoca) migliaia di morti tra la popolazione civile, mentre “litorale adriatico” era il nome della zona d’operazione (operations zone adriatisches küstenland, ozak che comprendeva le allora province italiane di trieste, gorizia, udine, pola, carnaro e la provincia “italiana” di lubiana), in base alla quale il confine orientale italiano fu fatto arretrare al veneto; ed infine, quando leggiamo dell’«esodo biblico» (avvenuto nel 1945) «degli italiani dall’istria, da pola e da trieste», non possiamo che pensare che la signora si confonda con la massiccia emigrazione in australia avvenuta da trieste dopo il 1954, al momento del ritorno dell’amministrazione italiana. e sorvoliamo sulla «millenaria presenza italica e latina», che non è altro che uno slogan usato dai nazionalisti per negare l’identità slovena e croata di buona parte di certi territori.
inoltre non è mai esistita alcuna «brigata triestina dell’istria», né si capisce cosa fosse il «movimento popolare di liberazione jugoslavo che subordinava a sé partigiani croati, sloveni e italiani», dato che i partigiani sloveni, croati ed italiani facevano tutti parte, a pari diritti del movimento di liberazione jugoslavo; né poteva trovarsi in istria all’epoca dei fatti narrati un «partigiano con la mostrina tricolore (qui nel senso di bianco rosso e verde, anche se è tricolore pure la bandiera jugoslava, n.d.r.) con la stella rossa ».
ma per continuare nel gioco enigmistico di trova gli evidenti anacronismi possiamo ancora evidenziare la presenza dell’ozna (che fu costituita nel 1944) e del cln italiano (in istria furono costituiti cln solo alla fine del 1944, e non nella zona dell’albonese); «caserme repubblichine» e «militi della rsi» presenti in zona già mesi prima che fosse costituita la repubblica sociale (che peraltro non aveva giurisdizione sull’istria, incorporata nell’ozak); e la guardia del popolo, che fu costituita a trieste nel maggio 1945; grottesco l’accenno ai «carabinieri di etnia slava» che sarebbero stati «sostituiti» nei primi anni del regime fascista: fino al 1918 non vi erano carabinieri in zona, dato che l’impero austroungarico aveva altre forze di polizia.
..segue ./.
In questo numero: * Interrogazione della senatrice Paola Nugnes sul perché l’Italia non ha ancora aderito alla messa al bando delle armi nucleari
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C. Cernigoi: Recensione de “La stanza di Piera”, di Stefania
Conte
* Slovenia:
armi e NATO anziché protezione sociale
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Il Partito della Rifondazione Comunista, attraverso una interrogazione depositata in parlamento dalla senatrice Paola Nugnes, chiede chiarezza in merito alle ragioni per cui l’Italia non ha ancora aderito alla messa al bando delle armi nucleari e se non ritenga doveroso uscire dal programma “nuclear sharing” della Nato e interrompere l’acquisto degli F35.
Fonte: http://www.
IL TESTO DELL’INTERROGAZIONE DELLA SENATRICE PAOLA NUGNES:
Al
ministro della Difesa
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http://www.diecifebbraio.info/
NON ENTRATE IN QUELLA STANZA!
24 Dicembre 2020
Il romanzo La stanza di Piera di Stefania Conte, autrice che finora si è cimentata in racconti di magia, gatti e osterie, rappresenta la smentita concreta di quel noto aforisma (nonché regola di scrittura) che recita (più o meno) che la realtà, al contrario della narrativa, non necessita di essere credibile.Ma ci ha fatto venire in mente anche una massima di Daniel Cohn-Bendit: la cultura è come la marmellata, meno se ne ha più se ne spalma. Vediamo quindi di fare un’analisi di questo romanzo, nel quale l’autrice non scrive nulla che possa essere credibile, gli eventi sembrano stare insieme per miracolo,i dialoghi dei protagonisti sono sproloqui belli e buoni che nessun essere umano dotato di raziocinio oserebbe recitare, lo stile è sgrammaticato e la sintassi penosa; ed infine l’editing sembra essere stato un optional in cui si è giocato al ribasso. Oltre a ciò segnaliamo l’uso spropositato ed improprio di termini desueti: citiamo quali esempi il «cadavere imbolsito», la «stolida che le sta appiccicata alle gonne», il «vetusto Isaia Depase»; e soprattutto il fiume Quieto che «si liberava dall’onfalo utero della generosa sorgente zampillante”. Ci è poi rimasta particolarmente impressa l’espressione:«civettuoli fazzoletti al collo del medesimo colore del sangue», perché l’uso dell’attributo “civettuolo”in tale contesto ci fa pensare ai termini impiegati da certa psichiatria, ormai fortunatamente sorpassata, per poter internare in manicomio donne e uomini non allineati. Ma prendiamo anche atto degli incisi (decisamente di cattivo gusto) che fanno riferimento alla sfera sessuale, come la spiegazione che la madre di Piera «a Trieste aveva raccolto (…) anche il seme di quell’uomo che si accingeva a sposare: aspettava un bambino», oppure la “ostentazione” (termine particolarmente amato dalla scrittrice, dato che i partigiani non fanno che “ostentare” fazzoletti rossi, mostrine, ed altro) fatta da una partigiana croata «di una Luger sull’inguine, (…) segno inequivocabile della propensione all’odio e all’invidia del pene». L’autrice inoltre non fa mistero delle sue simpatie pagane nell’attribuire ruoli da protagonista a fenomeni atmosferici (il Vento, la Bora…), umanizzando la Storia (maiuscolo nel testo) che «consona al principale ruolo di sobillatrice (…) avrebbe suggerito alle forze titine di prendere il controllo sulle altre forze partigiane slovene, croate e italiane che si opponevano a un più vasto progetto di instaurazione del Regime totalitario comunista jugoslavo» (inconsueta lezione di mitologia applicata alla storia diplomatica, per ottenere comunque un’interpretazione del tutto errata, storicamente innanzitutto, ma anche per l’assoluzione degli essere umani da qualunque responsabilità, come se non esistesse il libero arbitrio ed i fatti storici non dipendessero da chi li compie, inventando una divinità mai esistita prima, la Storia) o evocando il dio Perùn, il cui culto peraltro non era praticato in Istria ma nei territori dell’antica Russia. Tutto ciò comunque non sarebbe importante, perché finché si tratta di “letteratura” ciascuno è padrone di scrivere male quanto gli pare, poi saranno i lettori a giudicare (ed eventualmente agire come Nero Wolfe, cioè gettando nel caminetto o nel cestino della carta le pagine insulse): il problema è un altro. È che questo è presentato come un romanzo storico in cui l’autrice pretende di trattare (per citare la legge sul Giorno del ricordo) le “più complesse vicende del confine orientale”, ed è stato avallato, definendolo «scritto bene e avvincente», ma soprattutto «onesto» nella narrazione, da un intellettuale che ricopre un ruolo importante nella cultura regionale, lo scrittore friulano Angelo Floramo, che ne ha scritto la postfazione e conclude affermando che Stefania Conte «ha capito» (il corsivo è nel testo). |
Ci si chiede se Floramo, che ha un curriculum di tutto rispetto, abbia letto lo stesso libro che abbiamo letto noi, perché si possono ritenere “oneste” le descrizioni di Stefania Conte solo riconoscendole semplicemente un’ignoranza abissale in più di una materia: ma a questo punto non si comprende perché un lavoro pieno di scemenze e falsità, ancorché dette in buona fede (sulla quale non abbiamo motivo di dubitare), debba essere ritenuto degno di una presentazione positiva. Si diceva che Conte dimostra di non conoscere affatto gli argomenti che si sforza di trattare, perciò di seguito andiamo ad analizzare quantomeno le fandonie più colossali che abbiamo trovato nel romanzo, iniziando dalle scarsissime conoscenze storiche dell’autrice, così scarse da non permetterle di fare una ricostruzione coerente degli eventi. Dato che gli svarioni sono colossali, ne citiamo solo i più clamorosi. Così apprendiamo che «La Grande Guerra ebbe termine con la disfatta di Germania, Austria e (sottolineatura nostra, n.d.r.) Ungheria, le nazioni della Triplice Alleanza»: dato che l’Italia se n’era uscita dalla Triplice Alleanza nel 1915 tradendo gli alleati e passando a combattere contro di loro, probabilmente alla scrittrice di romanzi storici mancava uno dei tre alleati ed ha quindi pensato bene di scindere in due l’impero austroungarico per reperire l’alleato mancante. Ma proseguiamo: Zara fu annessa nel 1920, non dopo l’occupazione della Jugoslavia del 1941; le scuole croate furono chiuse definitivamente (a seguito della riforma Gentile) alla fine dell’anno scolastico 1928/29, quindi nel 1935 la maestra Andreina non poteva essere stata «licenziata» dall’insegnamento in lingua croata (che poi non si capisce perché mai insegnasse in croato se aveva fatto le scuole magistrali a Trieste, dove la lingua di insegnamento era italiana; mentre se era croata non si comprende perché non abbia invece studiato in Istria in qualche istituto con lingua d’insegnamento croata, che all’epoca dei suoi studi esistevano) per lasciare la scuola «ad un’insegnante venuta da Roma, incapace a gestire una classe di bambini metà dei quali parlava solo il dialetto istroveneto». In diversi punti della narrazione abbiamo notato che Conte non deve avere bene chiaro quali lingue o dialetti si parlassero al tempo (e si parlano tuttora) nelle zone in cui ha ambientato la sua fiction, dato che il dialetto “istroveneto” è, come si dovrebbe evincere dallo stesso nome, un dialetto di ceppo veneto, quindi neolatino: di conseguenza, pur venendo da Roma (e ammettendo per assurdo che fosse abituata ad esprimersi solo in romanesco), la maestra avrebbe dovuto essere in grado di gestire bambini che parlavano in un dialetto derivato dal latino. Il problema avrebbe potuto porsi con i bambini che parlavano in croato, ma di questo la scrittrice non sembra tenere conto. O forse si confonde con l’“istroromeno”, la lingua parlata nella Ciceria, zona nel nord dell’Istria (piuttosto distante da Fianona)? Non ci stupirebbe, dato che tutto il libro è impregnato di confusione ed ignoranza di quelli che possiamo definire i fondamentali; del resto anche più avanti leggiamo che in un sogno Piera vede «uomini e donne in divisa» entrare ed uscire dalla caserma del suo «paese natale» che «borbottavano in una lingua incomprensibile» (incomprensibile per lei che parlava «italiano, croato, istriano, greco, latino e tedesco dialetto»?) e che altri «proclamavano in slavo (quale “slavo”, russo? polacco?), in italiano e in dialetto istroveneto Morte al fascismo libertà ai popoli» (la differenza dello slogan tra le due versioni sarebbe Morte al fascismo libertà ai popoli in italiano e Morte al fassismo libertà ai popoli in istroveneto, lo diciamo per rendere l’idea a chi non ha confidenza con il “dialetto istroveneto”). Ma che l’autrice avrebbe bisogno di un ripasso generale è definitivamente chiaro nel punto in cui un “partigiano” «fazzoletto al collo e stella rossa sul berretto» (l’autrice sembra ritenere necessario ribadire, ad ogni “partigiano” che compare in scena, la presenza di fazzoletto e stella rossa, tanto per mantenere viva l’immagine macchiettistica dei partigiani che si vuole perpetuare) si mette ad inveire contro Andreina (la maestra che era stata “licenziata” dall’insegnamento nelle scuole croate): «lei non capiva la sua lingua e gli si rivolse prima in dialetto poi in croato. Lui si mise a urlare, frustrato dal parlare alieno»; quale lingua parlava questo partigiano “titino”, forse sanscrito o addirittura papuasio? Del resto Conte (come moltissimi altri pretesi intellettuali, peraltro) non sembra avere chiaro il concetto di “slavi”, dato che scrive che l’Impero Bizantino «riconobbe agli slavi la loro indispensabile presenza-cuscinetto sui Balcani contro i Bulgari e i Daci» (come se i Bulgari non fossero slavi), né della componente etnica dell’Istria, dato che vi segnala serbi che non l’hanno mai popolata storicamente e situa sloveni anche nelle zone esclusivamente croate. Altro punto critico è che l’autrice usa a sproposito in tutto il testo il termine “regnicoli” per gli istriani di lingua italiana, mentre tale termine era usato, in senso spregiativo tra l’altro, a Trieste per definire gli immigrati dal Regno d’Italia venuti a cercare lavoro nelle città dell’Impero austro ungarico (un po’ come oggi si usa il termine “extracomunitari” quando si parla di stranieri). Ciò che stupisce molto è però che Floramo spieghi nella sua postfazione che «l’Autrice butta subito un asso capace di conquistarmi e di farmi capire che il tenore del narrare sarà tutt’altro che banale», e tale “asso” sarebbe la descrizione dell’incendio del Narodni Dom di Trieste (13/7/20), dato che proprio in questo “asso” sta una delle peggiori mistificazioni del testo. Il Narodni Dom, che fu assaltato da squadristi nazionalisti e fascisti (evento che aprì di fatto la stagione del “fascismo di confine”) viene definito da Conte come «copia carbone» dell’incendio alla redazione del Piccolo del 25/5/15, che era stato invece operato da triestini fedeli al proprio governo dopo l’entrata in guerra dell’Italia a tradimento degli ex alleati (e notiamo anche l’inaccettabile rovescismo ante litteram), è cosa che a noi sfugge, ma può rientrare in quell’operazione di appiattimento dei fatti storici in corso da diversi anni che porta a ritenere “colpevoli” tutti coloro che hanno fatto una scelta di campo, gli aggressori (cioè i fascisti) come gli aggrediti (cioè i partigiani), con l’assoluzione della sola “zona grigia” (quelli che Dante avrebbe definito “ignavi”, per intenderci). Pensiamo che questo romanzo sia del tutto inseribile in questa operazione e pertanto ci stupisce, ripetiamo, che proprio in base all’interpretazione data da Conte dei fatti del Narodni Dom, una persona di cultura come Floramo decida di avallare tutto il romanzo. Il racconto è poi pieno di anacronismi e di situazioni assurde per epoca e luoghi in cui viene ambientata la vicenda (in Istria tra Fianona e Pisino nel periodo agosto/settembre 1943, con alcuni tuffi nel passato). Come prima cosa ci sembra difficile che sotto il fascismo qualcuno potesse (come viene attribuito al dottor Leoni) «leggere tutti i quotidiani, di qualunque schieramento politico», così come ci sembra impossibile che nello stesso periodo «innumerevoli liberi pensatori istriani, ostili o meno al pensiero egèmone (l’accento è nel testo: non se ne comprende il motivo ma l’autrice abbonda in accenti, a volte anche assurdamente, dato che porre l’accento sulla “o” di “infòibati” trasforma la parola da un participio passato ad una esortazione a gettare se stesso in una foiba, n.d.r.)» offrissero «con foga» al dottore, che non li rifiutava mai, «volantini reazionari (sic)». Stefania Conte lo sa che sotto il fascismo (ma anche nei pochi mesi tra la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre) era molto difficile che chicchessia si dedicasse (con o senza foga) a diffondere volantini, anche se reazionari (o forse lei intendeva “reazionari” nel senso che “reagivano” al fascismo? forse sarebbe stato meglio quindi scrivere “antifascisti”)? e sa che se qualcuno veniva trovato con tali volantini in mano difficilmente l’avrebbe passata liscia? Forse un ripassino sulle sentenze del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che comminava pene molto pesanti anche per il solo possesso di volantini antifascisti, non farebbe male alla Nostra, fantasiosa ancorché “onesta”, scrittrice. La quale inoltre, nonostante in altra pagina scriva che dopo la caduta del fascismo «Pola e il resto dell’Istria sono ora sotto il ferreo controllo dell’esercito» non si rende conto dell’assurdità di porre una «brigata partigiana» «di stanza» a Pisino ben prima dell’armistizio dell’8 settembre, armistizio che secondo Conte «aveva gettato nel caos l’Europa» (veramente l’Europa era nel caos già da quattro anni…). Ma già nel ’22, secondo l’autrice, il medico non solo leggeva i giornali ma anche informava la moglie «su ciò che raccontavano la radio di regime e le molte radio illegali». Consideriamo che le prime trasmissioni della radio “di regime” iniziarono nel 1924, e che ai tempi non esisteva, come oggi, la possibilità di trasmettere per conto proprio, neppure “illegalmente” (Radio Londra era ancora lontana nel tempo) ma è simpatica anche la definizione dell’apparecchio radiofonico che esce da questi squinternati dialoghi: «una scatola di legno con manopola», alla quale noi aggiungeremmo anche qualche valvola e magari un altoparlante, altrimenti potrebbe sembrare qualunque altra cosa. Prendiamo atto anche di ulteriori pesanti gaffes storiografiche: «iniziò così l’Operazione Litorale Adriatico», leggiamo ad un certo punto: veramente l’operazione era la Wolkenbruch (Nubifragio), che causò (secondo le cronache naziste dell’epoca) migliaia di morti tra la popolazione civile, mentre “Litorale Adriatico” era il nome della Zona d’operazione (Operations Zone Adriatisches Küstenland, OZAK che comprendeva le allora province italiane di Trieste, Gorizia, Udine, Pola, Carnaro e la provincia “italiana” di Lubiana), in base alla quale il confine orientale italiano fu fatto arretrare al Veneto; ed infine, quando leggiamo dell’«esodo biblico» (avvenuto nel 1945) «degli italiani dall’Istria, da Pola e da Trieste», non possiamo che pensare che la signora si confonda con la massiccia emigrazione in Australia avvenuta da Trieste dopo il 1954, al momento del ritorno dell’amministrazione italiana. E sorvoliamo sulla «millenaria presenza italica e latina», che non è altro che uno slogan usato dai nazionalisti per negare l’identità slovena e croata di buona parte di certi territori. Inoltre non è mai esistita alcuna «Brigata Triestina dell’Istria», né si capisce cosa fosse il «Movimento popolare di liberazione jugoslavo che subordinava a sé partigiani croati, sloveni e italiani», dato che i partigiani sloveni, croati ed italiani facevano tutti parte, a pari diritti del movimento di liberazione jugoslavo; né poteva trovarsi in Istria all’epoca dei fatti narrati un «partigiano con la mostrina tricolore (qui nel senso di bianco rosso e verde, anche se è tricolore pure la bandiera jugoslava, n.d.r.) con la stella rossa ». Ma per continuare nel gioco enigmistico di trova gli evidenti anacronismi possiamo ancora evidenziare la presenza dell’OZNA (che fu costituita nel 1944) e del CLN italiano (in Istria furono costituiti CLN solo alla fine del 1944, e non nella zona dell’albonese); «caserme repubblichine» e «militi della RSI» presenti in zona già mesi prima che fosse costituita la Repubblica Sociale (che peraltro non aveva giurisdizione sull’Istria, incorporata nell’OZAK); e la Guardia del Popolo, che fu costituita a Trieste nel maggio 1945; grottesco l’accenno ai «carabinieri di etnia slava» che sarebbero stati «sostituiti» nei primi anni del regime fascista: fino al 1918 non vi erano carabinieri in zona, dato che l’Impero austroungarico aveva altre forze di polizia. ..segue ./.
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