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La VOCE 2102

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La VOCE ANNO XXIII N°6

febbraio 2021

PAGINA 4         - 24

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segue da pag.23: il dramma delle foibe il 1° maggio arrivano gli jugoslavi: l’esercito entra a trieste e a gorizia ed arriva praticamente in tutta la valle dell’ison- zo. gli alleati arrivano il giorno dopo, il 2 maggio 1945, e in quel momento si danno la mano. la differenza è che l’eser- cito arrivato prima a trieste e a gorizia ha la responsabilità di quello che succede, e si tratta di un esercito questa volta, non di un’insurrezione. c’è stata anche l’insurrezione di par- tigiani locali – a trieste, italiani, comunisti, non comunisti – mentre il ix corpus, invece, faceva parte della quarta armata. però è l’esercito a controllare le città e quindi la responsabilità di ciò che avviene è dell’esercito jugoslavo. cosa succede immediatamente? come in tutti i luoghi dove arriva un esercito, tutti gli avversari vengono uccisi nei combattimenti oppure arrestati: quindi, in questo caso, sia tedeschi, sia collaborazionisti italiani in divisa della repub- blica sociale italiana. di questi ultimi lungo la valle dell’i- sonzo ve ne sono moltissimi, e verranno trasferiti al campo di borovnica dove tanti di loro moriranno. reparti militari ita- liani erano schierati e combattevano al fianco dei tedeschi sul litorale adriatico e lungo le coste istriane, in valle della baccia e così via: x mas, milizia di difesa territoriale, bersaglieri del- la rsi che si trovavano in quelle zone furono dunque colpiti abbastanza duramente. rispetto a trieste, nelle zone più a nord, da basovizza a opicina e anche più lontano, i combat- timenti proseguono fino al 3 maggio. quel giorno avviene la resa dei tedeschi ed esistono molte fotografie di file e file di militari portati in prigionia. tra i quali, anche in questo caso, soldati italiani in divisa della rsi e altre. quello che stupisce – o non stupisce – è che viene arrestato chiunque indossa un’uniforme: un poliziotto della questura, o con la divisa dell’ispettorato speciale di pubblica sicurezza, oppu- re della guardia civica, tutti corpi istituiti durante il periodo tedesco e quindi in qualche modo collaborazionisti. volenti o nolenti, visto che far parte della guardia civica era anche un modo per tenersi al riparo. è capitato di essere arrestato persino a qualche bidello con la divisa della sua scuola. i risultati di questi rastrellamenti sono anche uccisioni: il momento nel quale i partigiani jugoslavi arrivano a trieste non si risolve in una tranquilla passeggiata, vi sono scontri in città, qualcuno resiste, qualche caserma di questurini cerca di resistere. subito dopo inizia un flusso enorme di depor- tazione: si calcola che da 15.000 a 18.000 persone sono state condotte verso la jugoslavia, in campi di concentramento o prigionia. come riporta raoul pupo nei suoi testi, gli scontri a trieste lasciano sul campo 401 morti, ritrovati in varie parti della città nelle settimane successive ai combattimenti. sono invece circa 480 le salme recuperate da 48 foibe situate attor- no alla città di trieste. a queste cifre vanno aggiunti quanti sono scomparsi e non sono mai più stati trovati – quindi non morti nelle foibe – oppure morti e sepolti in altre in altre lo- calità. il numero totale resta dunque incerto, ma nei libri di pupo e spazzali la stima non va mai oltre le 4-5.000 perso- ne. l’unico elenco dettagliato è quello stilato da un sindaco di trieste, gianni bartoli, che contempla 4.200 nominativi. ovviamente, quando si tratta di tanti nomi c’è sempre il ri- schio di qualche duplicazione, per esempio donne inserite sia col nome da nubili che da coniugate. in ogni caso, questo è l’ordine di grandezza delle uccisioni e della tragedia avvenuta in venezia giulia alla fine della guerra. va detto che hanno fatto ritorno molti tra i 15-18.000 deportati e utilizzati come lavoratori coatti in diverse località della jugoslavia, in dalma- zia o altrove. quelli scomparsi per sempre sono compresi nel calcolo totale delle 4-5.000 vittime. i campi dove vennero deportati sono ormai abbastanza noti: il più conosciuto è quello di borovnica, ma ve ne sono numerosi altri, dove molti sono morti per malattie o fame. alla fine della guerra la situazione era terribile, specialmente in jugoslavia, dove erano passati eserciti, erano avvenute de- portazioni, dove l’economia era completamente collassata e sfamare le persone nei campi di concentramento costituiva un’impresa. oggi altri elenchi sono stati messi a punto: sia da ricerca- tori sloveni, sia dalla società studi fiumani che, in collabora- zione con un istituto di ricerca croato, ha curato un ponde- roso volume nel quale è possibile scorrere i nomi delle vitti- me a fiume dopo la liberazione del 3 maggio e l’occupazione da parte dell’esercito jugoslavo, al quale sono addebitabili 350 morti. questo è il panorama di quanto accaduto in due mo- menti diversi, uno nel 1943 caratterizzato dall’insurrezione popolare in istria, l’altro nel 1945 segnato dalla presenza di un esercito regolare, che quindi avrebbe dovuto tenere mag- giormente sotto controllo la situazione. tutto finisce con il 12 giugno 1945 quando, con un accordo militare tra l’eserci- to jugoslavo di tito e l’esercito anglo-americano, si stabilisce una linea di separazione tra i due eserciti alleati tra loro – la linea morgan – e gli jugoslavi si ritirano al di là di questa linea. recentemente è stato pubblicato il vademecum per il giorno del ricordo, strumento abbastanza valido, come enne- simo tentativo di stimolare l’attenzione da parte dei giornali- sti, ma anche dei politici, per non dire e scrivere sciocchezze in occasione della ricorrenza. se studenti e insegnanti han- no fatto tesoro della storiografia, non si può dire altrettanto dei politici che sono quelli che lasciano più a desiderare. a trieste, davanti a un luogo che meriterebbe grande rispetto come la foiba di basovizza, non si possono più sentire poli- tici, anche di livello europeo, che dicono sciocchezze e falsità creando disagi, tensioni e contrasti diplomatici con croazia e slovenia. a mio modo di vedere la gran parte delle per- sone non sa niente, non perché non esistono gli strumenti per informarsi, bensì perché colgono solo il dibattito politi- co. allora sono i politici che devono dare l’esempio, creare le condizioni per comprendere le cose. e non, invece, utilizzare la ricorrenza per scopi altri, quelli propri della politica, come ottenere consenso e voti. resto sempre stupito dall’idea, come abbiamo sentito spesso ripetere, che “gli italiani erano buoni”. gli italiani era- no buoni e cattivi come tutti. non si può girare la testa di fronte all’azione dell’esercito italiano in africa, in russia, nei balcani, in francia. tra l’altro, perché ora esiste questo con- fine? perché i francesi erano arrabbiati con gli italiani a causa dell’attacco alla loro nazione e nelle trattative di pace hanno fatto di tutto per punirci il più possibile: metà dell’istria è stata persa per questo. a tal proposito, per concludere vorrei leggere una frase di raoul pupo: “zara, fiume e l’istria erano state annesse all’italia a seguito della vittoria nella prima guerra mondia- le; le sono state tolte a seguito dell’esito della seconda guerra mondiale, voluta e perduta dal regime fascista. è al fascismo pertanto che va imputata la responsabilità prima degli even- ti scatenanti la crisi dell’italianità adriatica”. certo, ci sono anche le responsabilità di tito, nessuno lo mette in dubbio. la storiografia ha affrontato l’argomento, le interpretazioni possono variare, si può dire se è stata più colpa di una parte o dell’altra. ognuno è libero di pensare. ma non di non sapere e non conoscere i dati. i documenti ci sono, tutti gli archivi sono aperti: chi vuole informarsi può farlo. i crimini dei fascisti (1919-1945) marta verginella storica, università di lubiana cercherò di approfondire il quadro nel quale è maturata l’idea e la volontà di modificare il confine geopolitico tra l’i- talia e la jugoslavia. e anche di capire in che contesto è nato un consenso (diffuso non in tutti gli strati della popolazio- ne slovena) alla politica di punizione che ha prodotto eventi violenti come le foibe, quindi una reazione della società slo- vena e croata nei confronti della popolazione italiana. natu- ralmente, usando tali termini si generalizza poiché nessuna società è compatta. anche subito dopo il 1918, abbiamo a che fare con posi- zioni delle élites che accettano in modo funzionale il cambia- mento del confine e le nuove autorità. le posizioni sia del- la dirigenza slovena che di quella croata rispetto alle nuove province annesse all’italia dopo il ’18 configurano una politi- ca di accettazione. una posizione che ha però breve durata: l’incendio del narodni dom rappresenta uno spartiacque – sul quale la storiografia italiana e slovena concordano piena- mente – che inizia pian pianino a modificare la reazione e l’at- teggiamento della popolazione slovena e croata nei confronti dello stato italiano. parliamo di un’area multietnica e multi linguistica, con città a netta prevalenza di popolazione italiana: naturalmen- te trieste, per non parlare delle città della costa istriana e per certi versi di gorizia (dove gli italiani erano maggioritari, ma con quasi il 45% di popolazione slovena nel 1910). le città so- no dunque multietniche, a prevalenza italiana, però vengo- no annessi all’italia vasti territori che hanno una popolazio- ne omogeneamente slovena oppure omogeneamente croata, province che storicamente non hanno avuto mai a che fa- re col mondo italiano, soprattutto le aree lungo la carnio- la, la cosiddetta notranjska, alle porte di lubiana. non tut- te le statistiche concordano (anche perché si tratta di un’a- rea di confine): enumerare, ovvero stimare l’esatto numero di appartenenze a una o all’altra etnia è naturalmente cosa assai difficile. vi è una negoziazione continua, quindi sta- bilire proprio perfettamente i dati della presenza italiana o slovena è impresa ardua. per quale motivo bisogna prestare attenzione a questi dati? perché è in queste aree che il movi- mento partigiano otterrà un forte consenso popolare e ma- tureranno delle politiche di rivalsa nei confronti dello stato italiano. la politica di violenza fascista, che inizia già nel 1919 ma si concretizza soprattutto nel 1920, inaugura una politica di snazionalizzazione, smembramento e smantellamento della società.
slovena e croata. nella società slovena si attua la chiu- sura delle scuole (che inizia con la riforma gentile e si conclu- de nel 1928), lo smantellamento di tutte le organizzazioni, dei circoli culturali, sociali, sportivi (circa 400), delle cooperati- ve. tutta questo mondo viene smantellato, una società che si è creata già ai tempi dell’austria e che, dopo il 1918, si è rico- struita per certi versi in maniera ancora più vigorosa e attiva nel corso del 1919-’20. questa azione di smantellamento ha come conseguenza l’emigrazione di circa 60.000 sloveni ver- so la jugoslavia. per alcuni forzata, per alcuni spontanea: la chiusura delle scuole significa la partenza verso la jugoslavia oppure il trasferimento in varie regioni italiane, soprattutto lombardia, emilia-romagna e toscana. quello che succede negli anni venti è sicuramente lo smembramento del ceto medio sloveno. e questo ceto me- dio dove si trasferisce? soprattutto a lubiana. e in taluni casi con enormi difficoltà, molto simili a quelle percepite e subite dagli esuli istriani che sono immigrati o hanno dovu- to lasciare l’istria dopo il 1945-’47. additati a volte anche con epiteti simili: se gli istriani sono stati in qualche modo vi- sti come slavi in fuga, gli sloveni e i croati emigrati o fuggiti verso il regno dei serbi, croati e sloveni venivano tacciati come “italiani”. quindi si manifestano fenomeni simili che producono poi anche delle reazioni. il libro lotta per la vita e la morte di una minoranza na- zionale: gli jugoslavi in italia del fisico triestino lavo čerme- lj, uscito nel 1936, è il primo lavoro che documenta la snazio- nalizzazione, i divieti, le proibizioni che gli sloveni e i croati vivono o sopportano negli anni venti. si tratta di un volume che denuncia (soprattutto all’estero) la politica di snaziona- lizzazione e assimilazione e che in seguito diventerà un capo d’accusa nel secondo processo del tribunale speciale, a trie- ste. ho voluto citarlo perché dà inizio a tutta una storiogra- fia di ricostruzione della violenza fascista nei confronti del- la popolazione jugoslava – come viene nominata tra gli anni venti e trenta in italia – e poi nel dopoguerra rappresenterà un punto di partenza per gli studi degli storici sloveni e so- prattutto di quelli italiani. il libro diventa dunque un capo d’accusa nel processo che viene istruito a trieste nel dicembre 1941, procedimento che assume anch’esso un ruolo di spar- tiacque nel mettere sotto accusa non soltanto la parte libera- le (della quale fa parte lo stesso čermelj, fuggito a lubiana dove scrive il libro) ma tutti i segmenti della società slovena. per quale motivo? ve ne sono diversi. nel 1939 e nel 1940 vengono organizzati degli attentati, soprattutto da par- te di giovani contadini e operai, ma avvengono anche forme di collaborazione con i servizi segreti britannici. il processo dimostra la reazione della società slovena nei confronti della politica di snazionalizzazione e persecuzione, con la ribellio- ne in varie forme: con la sovversione, ma anche con l’orga- nizzazione clandestina, corsi clandestini di lingua, con la non accettazione della politica di italianizzazione. non entro nei particolari di questo processo – che ho cercato di analizzare nel libro il confine degli altri. la questione giuliana e la me- moria slovena – ma esso permette di osservare la reazione del- la società slovena nei confronti del regime e, al contempo, il modo in cui il regime ha tentato di sottomettere questa realtà allogena non disposta a italianizzarsi. anna vinci ha affrontato poco fa le forme e i fenomeni di internamento e di confino, molto diffusi tra la popolazione slovena e croata. vi furono 131 processi del tribunale speciale per la difesa dello stato, a carico di 544 imputati sloveni e croati. un numero altissimo, soprattutto se si considerano le condanne a morte: il tribunale ne ha pronunciate 65, di cui il 60% riguardava sloveni e croati. le carte del processo del 1941 dimostrano che a quella da- ta i rappresentanti della minoranza erano ormai convinti che soltanto il cambiamento del confine tra italia e jugoslavia po- teva garantire la sopravvivenza della popolazione slovena. si tratta dunque di una convinzione precedente alla stessa guer- ra, ma che precede anche l’attività del movimento partigiano. è una convinzione sostenuta dalla dirigenza liberale ma ap- poggiata pienamente anche dalla chiesa slovena. quindi a livello di élite, di dirigenza, già prima dello scontro tra eser- cito italiano e movimento partigiano esiste la persuasione che all’interno dello stato italiano non vi sono i presupposti per una sopravvivenza minoritaria, e perciò la convinzione che i confini vadano modificati. un altro capitolo è fondamentale per comprendere quel- lo che succede nel maggio e nel giugno 1945, soprattutto nel goriziano. nel precedente intervento abbiamo seguito la ri- costruzione della cronologia che differenzia le foibe istriane dalle violenze sommarie che avvengono soprattutto nel gori- ziano, nell’isontino, alle porte di trieste. e che hanno carat- teristiche sicuramente diverse, ma hanno moltissimo a che fare con la linea di confine, con chi alla fine riuscirà ad avere il primato su un territorio conteso. questo secondo capitolo è legato all’occupazione italia- na della jugoslavia. un capitolo che coinvolge 650.000 solda- ti e produce un numero di crimini assolutamente superiore a quelli consumati in libia e in etiopia, secondo lo storico angelo del boca. un grado di violenza in crescendo soprat- tutto nella provincia di lubiana, dove la situazione appariva facilmente gestibile per la convinzione che la jugoslavia fos- se abitata da una popolazione intellettualmente e cultural- mente inferiore. l’italia dunque avrebbe avuto gioco facile non soltanto ad annetterla ma anche a occuparla e gestirla. la realtà poi si rivelerà molto più complicata per le forme di ribellione che iniziano molto rapidamente. se andiamo a studiare le biografie dei membri delle pri- me formazioni partigiane nel circondario di lubiana, che so- no anche le prime ad attivarsi, vi troviamo moltissimi figli di quei genitori che hanno lasciato trieste e gorizia dopo il 1919, quindi i fuoriusciti e i profughi. il sentimento antifa- scista di quelle famiglie è ben forte. analizzando le biografie, troviamo molti studenti universitari, soprattutto a lubiana, che per primi entreranno nella resistenza, con ascendenze che spesso riportano all’area di confine. naturalmente una forte risposta di resistenza attiva una fortissima repressione, anche se bisogna pur dire che alcune forme di internamento di interi villaggi sono precedenti al- l’occupazione di lubiana. soprattutto nell’area del gorizia- no, alcuni villaggi vengono completamente spostati prima della partenza delle truppe italiane verso la provincia di lu- biana, con internamenti di massa, ad esempio nelle marche. si tratta di internamenti che durano un mese o due, però in quella politica di prevenzione – secondo l’ottica di roma, na- turalmente – si innescano meccanismi che saranno di forte consenso nei confronti del movimento partigiano sloveno, ovvero jugoslavo. le forme, sia di ribellione che di repressione, si intensi- ficano soprattutto dopo il settembre ’43, quando non solo l’area della venezia giulia ma anche vaste parti della carnio- la inferiore entrano a far parte dell’adriatisches küstenland. ai 6.000 ebrei bisogna aggiungere almeno altri 6.000 (secon- do alcuni dati anche 10.000) deportati civili sloveni, italiani e altri verso i campi nazisti. le deportazioni creano un’altra forma e un altro sostegno alla politica di vendetta. per ogni deportazione, sin dal 1943, si cominciano a individuare i no- minativi di coloro che tradiscono, dei delatori. oltre a queste dinamiche vanno sicuramente elencate anche le altre forme di deportazione prima evidenziate, con la creazione di campi di concentramento nei quali verranno inviati interi villaggi sloveni. non soltanto la popolazione che ha aderito al movi- mento resistenziale sloveno ma, nel dubbio, anche coloro che avrebbero potuto aderirvi o sostenerlo. le cifre sono impres- sionanti, anche in termini di mortalità: in campi come quello dell’isola di arbe si registra una mortalità superiore a quella di buchenwald, attorno al 17-18%, che riguarda non soltanto resistenti e ribelli, ma anche donne, anziani e bambini. esiste dunque un atteggiamento anti-italiano molto dif- fuso. però anche in questo caso le semplificazioni non reg- gono, perché dopo il settembre ’43 tantissimi soldati italiani in fuga ricevono l’aiuto e il supporto della popolazione slove- na. il sentimento anti-italiano non è un sentimento radicato nella popolazione. sicuramente, quello che è radicato è un sentimento antifascista, che farà da substrato alla presenza dell’esercito jugoslavo e alla sua politica di annessione, così a trieste, come a gorizia e nell’istria. non tutti i segmen- ti della società slovena erano però della stessa opinione. le vittime delle violenze sommarie, in particolare nel goriziano, erano anche slovene. soprattutto cattolici e liberali, che non erano favorevoli a una presenza del regime comunista nel go- riziano. faccio riferimento a questo territorio perché il mo- vimento cattolico nel goriziano sloveno era forte. e anche perché nel goriziano si formano delle unità collaborazioni- ste slovene domobranci, che non erano invece “autoctone” nell’area di trieste e dell’istria. potrei citare vari documenti, ad esempio la lettera del commissario civile umberto rosin all’alto commissario della provincia di lubiana sulla politica di occupazione ita- liana nella provincia, oppure il diario di don pietro brigno- li. ma non mi sembra necessario. come è stato ribadito da franco cecotti, esiste un’ampia storiografia che ha indagato in termini molto precisi e approfonditi la questione della po- litica di occupazione. ricordo i libri di marco cuzzi, filippo focardi, costantino di sante, che ci informano anche su co- me è andata con i responsabili dei crimini fascisti, sul perché non sono stati consegnati alle autorità jugoslave. ma anche sul motivo per il quale si è chiuso il capitolo delle foibe: il governo italiano ha preteso reciprocità. nel 1947 le autorità italiane hanno detto che avrebbero consegnato i responsabi- li dei crimini, se fossero stati consegnati anche i responsabi- li delle foibe. naturalmente, nessuna delle due parti lo ha fatto. dal 1947 in poi – sicuramente anche a livello storiografi- co – c’è stata la disponibilità a chiudere questi capitoli. se an- diamo a rileggere la storiografia degli anni cinquanta e ses- santa, vale a dire il periodo dei primi incontri tra storici ju- goslavi e italiani, l’intesa è stata in sostanza quella di ribadi- re gli elementi comuni. l’unico elemento comune è stata la resistenza e da ciò è derivato che tutta una corrente storio- grafica, sia da una parte che dall’altra, ha abbandonato i temi della violenza.
Segue da Pag.23: Il dramma delle foibe

Il 1° maggio arrivano gli jugoslavi: l’esercito entra a Trieste e a Gorizia ed arriva praticamente in tutta la valle dell’Ison- zo. Gli Alleati arrivano il giorno dopo, il 2 maggio 1945, e in quel momento si danno la mano. La differenza è che l’eser- cito arrivato prima a Trieste e a Gorizia ha la responsabilità di quello che succede, e si tratta di un esercito questa volta, non di un’insurrezione. C’è stata anche l’insurrezione di par- tigiani locali – a Trieste, italiani, comunisti, non comunisti – mentre il IX Corpus, invece, faceva parte della quarta armata. Però è l’esercito a controllare le città e quindi la responsabilità di ciò che avviene è dell’Esercito jugoslavo.

Cosa succede immediatamente? Come in tutti i luoghi dove arriva un esercito, tutti gli avversari vengono uccisi nei combattimenti oppure arrestati: quindi, in questo caso, sia tedeschi, sia collaborazionisti italiani in divisa della Repub- blica Sociale Italiana. Di questi ultimi lungo la valle dell’I- sonzo ve ne sono moltissimi, e verranno trasferiti al campo di Borovnica dove tanti di loro moriranno. Reparti militari ita- liani erano schierati e combattevano al fianco dei tedeschi sul litorale adriatico e lungo le coste istriane, in Valle della Baccia e così via: X Mas, Milizia di difesa territoriale, bersaglieri del- la RSI che si trovavano in quelle zone furono dunque colpiti abbastanza duramente. Rispetto a Trieste, nelle zone più a Nord, da Basovizza a Opicina e anche più lontano, i combat- timenti proseguono fino al 3 maggio. Quel giorno avviene la resa dei tedeschi ed esistono molte fotografie di file e file di militari portati in prigionia. Tra i quali, anche in questo caso, soldati italiani in divisa della RSI e altre. Quello che stupisce – o non stupisce – è che viene arrestato chiunque indossa un’uniforme: un poliziotto della Questura, o con la divisa dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, oppu- re della Guardia Civica, tutti corpi istituiti durante il periodo tedesco e quindi in qualche modo collaborazionisti. Volenti o nolenti, visto che far parte della Guardia Civica era anche un modo per tenersi al riparo. È capitato di essere arrestato persino a qualche bidello con la divisa della sua scuola.

I risultati di questi rastrellamenti sono anche uccisioni: il momento nel quale i partigiani jugoslavi arrivano a Trieste non si risolve in una tranquilla passeggiata, vi sono scontri in città, qualcuno resiste, qualche caserma di questurini cerca di resistere. Subito dopo inizia un flusso enorme di depor- tazione: si calcola che da 15.000 a 18.000 persone sono state condotte verso la Jugoslavia, in campi di concentramento o prigionia. Come riporta Raoul Pupo nei suoi testi, gli scontri a Trieste lasciano sul campo 401 morti, ritrovati in varie parti della città nelle settimane successive ai combattimenti. Sono invece circa 480 le salme recuperate da 48 foibe situate attor- no alla città di Trieste. A queste cifre vanno aggiunti quanti sono scomparsi e non sono mai più stati trovati – quindi non morti nelle foibe – oppure morti e sepolti in altre in altre lo- calità. Il numero totale resta dunque incerto, ma nei libri di Pupo e Spazzali la stima non va mai oltre le 4-5.000 perso- ne. L’unico elenco dettagliato è quello stilato da un Sindaco di Trieste, Gianni Bartoli, che contempla 4.200 nominativi.

Ovviamente, quando si tratta di tanti nomi c’è sempre il ri- schio di qualche duplicazione, per esempio donne inserite sia col nome da nubili che da coniugate. In ogni caso, questo è l’ordine di grandezza delle uccisioni e della tragedia avvenuta in Venezia Giulia alla fine della guerra. Va detto che hanno fatto ritorno molti tra i 15-18.000 deportati e utilizzati come lavoratori coatti in diverse località della Jugoslavia, in Dalma- zia o altrove. Quelli scomparsi per sempre sono compresi nel calcolo totale delle 4-5.000 vittime.

I campi dove vennero deportati sono ormai abbastanza noti: il più conosciuto è quello di Borovnica, ma ve ne sono numerosi altri, dove molti sono morti per malattie o fame.

Alla fine della guerra la situazione era terribile, specialmente in Jugoslavia, dove erano passati eserciti, erano avvenute de- portazioni, dove l’economia era completamente collassata e sfamare le persone nei campi di concentramento costituiva un’impresa.

Oggi altri elenchi sono stati messi a punto: sia da ricerca- tori sloveni, sia dalla Società Studi Fiumani che, in collabora- zione con un Istituto di ricerca croato, ha curato un ponde- roso volume nel quale è possibile scorrere i nomi delle vitti- me a Fiume dopo la Liberazione del 3 maggio e l’occupazione da parte dell’esercito jugoslavo, al quale sono addebitabili 350 morti.

Questo è il panorama di quanto accaduto in due mo- menti diversi, uno nel 1943 caratterizzato dall’insurrezione popolare in Istria, l’altro nel 1945 segnato dalla presenza di un esercito regolare, che quindi avrebbe dovuto tenere mag- giormente sotto controllo la situazione. Tutto finisce con il 12 giugno 1945 quando, con un accordo militare tra l’Eserci- to jugoslavo di Tito e l’Esercito anglo-americano, si stabilisce una linea di separazione tra i due eserciti alleati tra loro – la Linea Morgan – e gli jugoslavi si ritirano al di là di questa linea.

Recentemente è stato pubblicato il Vademecum per il Giorno del ricordo, strumento abbastanza valido, come enne- simo tentativo di stimolare l’attenzione da parte dei giornali- sti, ma anche dei politici, per non dire e scrivere sciocchezze in occasione della ricorrenza. Se studenti e insegnanti han- no fatto tesoro della storiografia, non si può dire altrettanto dei politici che sono quelli che lasciano più a desiderare. A Trieste, davanti a un luogo che meriterebbe grande rispetto come la foiba di Basovizza, non si possono più sentire poli- tici, anche di livello europeo, che dicono sciocchezze e falsità creando disagi, tensioni e contrasti diplomatici con Croazia e Slovenia. A mio modo di vedere la gran parte delle per- sone non sa niente, non perché non esistono gli strumenti per informarsi, bensì perché colgono solo il dibattito politi- co. Allora sono i politici che devono dare l’esempio, creare le condizioni per comprendere le cose. E non, invece, utilizzare la ricorrenza per scopi altri, quelli propri della politica, come ottenere consenso e voti.

Resto sempre stupito dall’idea, come abbiamo sentito spesso ripetere, che “gli italiani erano buoni”. Gli italiani era- no buoni e cattivi come tutti. Non si può girare la testa di fronte all’azione dell’Esercito italiano in Africa, in Russia, nei Balcani, in Francia. Tra l’altro, perché ora esiste questo con- fine? Perché i francesi erano arrabbiati con gli italiani a causa dell’attacco alla loro nazione e nelle trattative di pace hanno fatto di tutto per punirci il più possibile: metà dell’Istria è stata persa per questo.

A tal proposito, per concludere vorrei leggere una frase di Raoul Pupo: “Zara, Fiume e l’Istria erano state annesse all’Italia a seguito della vittoria nella Prima guerra mondia- le; le sono state tolte a seguito dell’esito della Seconda guerra mondiale, voluta e perduta dal regime fascista. È al fascismo pertanto che va imputata la responsabilità prima degli even- ti scatenanti la crisi dell’italianità adriatica”. Certo, ci sono anche le responsabilità di Tito, nessuno lo mette in dubbio. La storiografia ha affrontato l’argomento, le interpretazioni possono variare, si può dire se è stata più colpa di una parte o dell’altra. Ognuno è libero di pensare. Ma non di non sapere e non conoscere i dati. I documenti ci sono, tutti gli archivi sono aperti: chi vuole informarsi può farlo.

I crimini dei fascisti (1919-1945)

Marta Verginella

Storica, Università di Lubiana


Cercherò di approfondire il quadro nel quale è maturata l’idea e la volontà di modificare il confine geopolitico tra l’I- talia e la Jugoslavia. E anche di capire in che contesto è nato un consenso (diffuso non in tutti gli strati della popolazio- ne slovena) alla politica di punizione che ha prodotto eventi violenti come le foibe, quindi una reazione della società slo- vena e croata nei confronti della popolazione italiana. Natu- ralmente, usando tali termini si generalizza poiché nessuna società è compatta.

Anche subito dopo il 1918, abbiamo a che fare con posi- zioni delle élites che accettano in modo funzionale il cambia- mento del confine e le nuove autorità. Le posizioni sia del- la dirigenza slovena che di quella croata rispetto alle nuove province annesse all’Italia dopo il ’18 configurano una politi- ca di accettazione. Una posizione che ha però breve durata: l’incendio del Narodni Dom rappresenta uno spartiacque – sul quale la storiografia italiana e slovena concordano piena- mente – che inizia pian pianino a modificare la reazione e l’at- teggiamento della popolazione slovena e croata nei confronti dello Stato italiano.

Parliamo di un’area multietnica e multi linguistica, con città a netta prevalenza di popolazione italiana: naturalmen- te Trieste, per non parlare delle città della costa istriana e per certi versi di Gorizia (dove gli italiani erano maggioritari, ma con quasi il 45% di popolazione slovena nel 1910). Le città so- no dunque multietniche, a prevalenza italiana, però vengo- no annessi all’Italia vasti territori che hanno una popolazio- ne omogeneamente slovena oppure omogeneamente croata, province che storicamente non hanno avuto mai a che fa- re col mondo italiano, soprattutto le aree lungo la Carnio- la, la cosiddetta Notranjska, alle porte di Lubiana. Non tut- te le statistiche concordano (anche perché si tratta di un’a- rea di confine): enumerare, ovvero stimare l’esatto numero di appartenenze a una o all’altra etnia è naturalmente cosa assai difficile. Vi è una negoziazione continua, quindi sta- bilire proprio perfettamente i dati della presenza italiana o slovena è impresa ardua. Per quale motivo bisogna prestare attenzione a questi dati? Perché è in queste aree che il movi- mento partigiano otterrà un forte consenso popolare e ma- tureranno delle politiche di rivalsa nei confronti dello Stato italiano.

La politica di violenza fascista, che inizia già nel 1919 ma si concretizza soprattutto nel 1920, inaugura una politica di snazionalizzazione, smembramento e smantellamento della società
slovena e croata. Nella società slovena si attua la chiu- sura delle scuole (che inizia con la riforma Gentile e si conclu- de nel 1928), lo smantellamento di tutte le organizzazioni, dei circoli culturali, sociali, sportivi (circa 400), delle cooperati- ve. Tutta questo mondo viene smantellato, una società che si è creata già ai tempi dell’Austria e che, dopo il 1918, si è rico- struita per certi versi in maniera ancora più vigorosa e attiva nel corso del 1919-’20. Questa azione di smantellamento ha come conseguenza l’emigrazione di circa 60.000 sloveni ver- so la Jugoslavia. Per alcuni forzata, per alcuni spontanea: la chiusura delle scuole significa la partenza verso la Jugoslavia oppure il trasferimento in varie regioni italiane, soprattutto Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana.

Quello che succede negli anni Venti è sicuramente lo smembramento del ceto medio sloveno. E questo ceto me- dio dove si trasferisce? Soprattutto a Lubiana. E in taluni casi con enormi difficoltà, molto simili a quelle percepite e subite dagli esuli istriani che sono immigrati o hanno dovu- to lasciare l’Istria dopo il 1945-’47. Additati a volte anche con epiteti simili: se gli istriani sono stati in qualche modo vi- sti come slavi in fuga, gli sloveni e i croati emigrati o fuggiti verso il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni venivano tacciati come “italiani”. Quindi si manifestano fenomeni simili che producono poi anche delle reazioni.

Il libro Lotta per la vita e la morte di una minoranza na- zionale: gli jugoslavi in Italia del fisico triestino Lavo Čerme- lj, uscito nel 1936, è il primo lavoro che documenta la snazio- nalizzazione, i divieti, le proibizioni che gli sloveni e i croati vivono o sopportano negli anni Venti. Si tratta di un volume che denuncia (soprattutto all’estero) la politica di snaziona- lizzazione e assimilazione e che in seguito diventerà un capo d’accusa nel secondo processo del Tribunale speciale, a Trie- ste. Ho voluto citarlo perché dà inizio a tutta una storiogra- fia di ricostruzione della violenza fascista nei confronti del- la popolazione jugoslava – come viene nominata tra gli anni Venti e Trenta in Italia – e poi nel dopoguerra rappresenterà un punto di partenza per gli studi degli storici sloveni e so- prattutto di quelli italiani. Il libro diventa dunque un capo d’accusa nel processo che viene istruito a Trieste nel dicembre 1941, procedimento che assume anch’esso un ruolo di spar- tiacque nel mettere sotto accusa non soltanto la parte libera- le (della quale fa parte lo stesso Čermelj, fuggito a Lubiana dove scrive il libro) ma tutti i segmenti della società slovena.

Per quale motivo? Ve ne sono diversi. Nel 1939 e nel 1940 vengono organizzati degli attentati, soprattutto da par- te di giovani contadini e operai, ma avvengono anche forme di collaborazione con i servizi segreti britannici. Il processo dimostra la reazione della società slovena nei confronti della politica di snazionalizzazione e persecuzione, con la ribellio- ne in varie forme: con la sovversione, ma anche con l’orga- nizzazione clandestina, corsi clandestini di lingua, con la non accettazione della politica di italianizzazione. Non entro nei particolari di questo processo – che ho cercato di analizzare nel libro Il confine degli altri. La questione giuliana e la me- moria slovena – ma esso permette di osservare la reazione del- la società slovena nei confronti del regime e, al contempo, il modo in cui il regime ha tentato di sottomettere questa realtà allogena non disposta a italianizzarsi.

Anna Vinci ha affrontato poco fa le forme e i fenomeni di internamento e di confino, molto diffusi tra la popolazione slovena e croata. Vi furono 131 processi del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, a carico di 544 imputati sloveni e croati. Un numero altissimo, soprattutto se si considerano le condanne a morte: il Tribunale ne ha pronunciate 65, di cui il 60% riguardava sloveni e croati.

Le carte del processo del 1941 dimostrano che a quella da- ta i rappresentanti della minoranza erano ormai convinti che soltanto il cambiamento del confine tra Italia e Jugoslavia po- teva garantire la sopravvivenza della popolazione slovena. Si tratta dunque di una convinzione precedente alla stessa guer- ra, ma che precede anche l’attività del movimento partigiano.

È una convinzione sostenuta dalla dirigenza liberale ma ap- poggiata pienamente anche dalla Chiesa slovena. Quindi a livello di élite, di dirigenza, già prima dello scontro tra Eser- cito italiano e movimento partigiano esiste la persuasione che all’interno dello Stato italiano non vi sono i presupposti per una sopravvivenza minoritaria, e perciò la convinzione che i confini vadano modificati.

Un altro capitolo è fondamentale per comprendere quel- lo che succede nel maggio e nel giugno 1945, soprattutto nel goriziano. Nel precedente intervento abbiamo seguito la ri- costruzione della cronologia che differenzia le foibe istriane dalle violenze sommarie che avvengono soprattutto nel gori- ziano, nell’isontino, alle porte di Trieste. E che hanno carat- teristiche sicuramente diverse, ma hanno moltissimo a che fare con la linea di confine, con chi alla fine riuscirà ad avere il primato su un territorio conteso.

Questo secondo capitolo è legato all’occupazione italia- na della Jugoslavia. Un capitolo che coinvolge 650.000 solda- ti e produce un numero di crimini assolutamente superiore a quelli consumati in Libia e in Etiopia, secondo lo storico Angelo Del Boca. Un grado di violenza in crescendo soprat- tutto nella provincia di Lubiana, dove la situazione appariva facilmente gestibile per la convinzione che la Jugoslavia fos- se abitata da una popolazione intellettualmente e cultural- mente inferiore. L’Italia dunque avrebbe avuto gioco facile non soltanto ad annetterla ma anche a occuparla e gestirla.

La realtà poi si rivelerà molto più complicata per le forme di ribellione che iniziano molto rapidamente.

Se andiamo a studiare le biografie dei membri delle pri- me formazioni partigiane nel circondario di Lubiana, che so- no anche le prime ad attivarsi, vi troviamo moltissimi figli di quei genitori che hanno lasciato Trieste e Gorizia dopo il 1919, quindi i fuoriusciti e i profughi. Il sentimento antifa- scista di quelle famiglie è ben forte. Analizzando le biografie, troviamo molti studenti universitari, soprattutto a Lubiana, che per primi entreranno nella Resistenza, con ascendenze che spesso riportano all’area di confine.

Naturalmente una forte risposta di resistenza attiva una fortissima repressione, anche se bisogna pur dire che alcune forme di internamento di interi villaggi sono precedenti al- l’occupazione di Lubiana. Soprattutto nell’area del gorizia- no, alcuni villaggi vengono completamente spostati prima della partenza delle truppe italiane verso la provincia di Lu- biana, con internamenti di massa, ad esempio nelle Marche.

Si tratta di internamenti che durano un mese o due, però in quella politica di prevenzione – secondo l’ottica di Roma, na- turalmente – si innescano meccanismi che saranno di forte consenso nei confronti del movimento partigiano sloveno, ovvero jugoslavo.

Le forme, sia di ribellione che di repressione, si intensi- ficano soprattutto dopo il settembre ’43, quando non solo l’area della Venezia Giulia ma anche vaste parti della Carnio- la inferiore entrano a far parte dell’Adriatisches Küstenland.

Ai 6.000 ebrei bisogna aggiungere almeno altri 6.000 (secon- do alcuni dati anche 10.000) deportati civili sloveni, italiani e altri verso i campi nazisti. Le deportazioni creano un’altra forma e un altro sostegno alla politica di vendetta. Per ogni deportazione, sin dal 1943, si cominciano a individuare i no- minativi di coloro che tradiscono, dei delatori. Oltre a queste dinamiche vanno sicuramente elencate anche le altre forme di deportazione prima evidenziate, con la creazione di campi di concentramento nei quali verranno inviati interi villaggi sloveni. Non soltanto la popolazione che ha aderito al movi- mento resistenziale sloveno ma, nel dubbio, anche coloro che avrebbero potuto aderirvi o sostenerlo. Le cifre sono impres- sionanti, anche in termini di mortalità: in campi come quello dell’isola di Arbe si registra una mortalità superiore a quella di Buchenwald, attorno al 17-18%, che riguarda non soltanto resistenti e ribelli, ma anche donne, anziani e bambini.

Esiste dunque un atteggiamento anti-italiano molto dif- fuso. Però anche in questo caso le semplificazioni non reg- gono, perché dopo il settembre ’43 tantissimi soldati italiani in fuga ricevono l’aiuto e il supporto della popolazione slove- na. Il sentimento anti-italiano non è un sentimento radicato nella popolazione. Sicuramente, quello che è radicato è un sentimento antifascista, che farà da substrato alla presenza dell’Esercito jugoslavo e alla sua politica di annessione, così a Trieste, come a Gorizia e nell’Istria. Non tutti i segmen- ti della società slovena erano però della stessa opinione. Le vittime delle violenze sommarie, in particolare nel goriziano, erano anche slovene. Soprattutto cattolici e liberali, che non erano favorevoli a una presenza del regime comunista nel go- riziano. Faccio riferimento a questo territorio perché il mo- vimento cattolico nel goriziano sloveno era forte. E anche perché nel goriziano si formano delle unità collaborazioni- ste slovene domobranci, che non erano invece “autoctone” nell’area di Trieste e dell’Istria.

Potrei citare vari documenti, ad esempio la lettera del Commissario civile Umberto Rosin all’Alto Commissario della provincia di Lubiana sulla politica di occupazione ita- liana nella provincia, oppure il diario di don Pietro Brigno- li. Ma non mi sembra necessario. Come è stato ribadito da Franco Cecotti, esiste un’ampia storiografia che ha indagato in termini molto precisi e approfonditi la questione della po- litica di occupazione. Ricordo i libri di Marco Cuzzi, Filippo Focardi, Costantino Di Sante, che ci informano anche su co- me è andata con i responsabili dei crimini fascisti, sul perché non sono stati consegnati alle autorità jugoslave. Ma anche sul motivo per il quale si è chiuso il capitolo delle foibe: il governo italiano ha preteso reciprocità. Nel 1947 le autorità italiane hanno detto che avrebbero consegnato i responsabi- li dei crimini, se fossero stati consegnati anche i responsabi- li delle foibe. Naturalmente, nessuna delle due parti lo ha fatto.

Dal 1947 in poi – sicuramente anche a livello storiografi- co – c’è stata la disponibilità a chiudere questi capitoli. Se an- diamo a rileggere la storiografia degli anni Cinquanta e Ses- santa, vale a dire il periodo dei primi incontri tra storici ju- goslavi e italiani, l’intesa è stata in sostanza quella di ribadi- re gli elementi comuni. L’unico elemento comune è stata la Resistenza e da ciò è derivato che tutta una corrente storio- grafica, sia da una parte che dall’altra, ha abbandonato i temi della violenza.

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  

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