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La VOCE 2102

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La VOCE ANNO XXIII N°6

febbraio 2021

PAGINA 2         - 22

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segue da pag.21: 1919-1922: nascita del fascismo. tutta la dimensione di compostezza, di pacatezza del mondo bianco (parliamo dell’europa, non dei mondi colo- niali che venivano saccheggiati), quel senso della misura, quella fiducia nel progresso che aveva alimentato la belle épo- que, scompare. il trattato di pace di versailles non ce la fa a governare tutta questa violenza che è stata generata. è una di- mensione sulla quale invito a riflettere, perché non riguarda soltanto la politica, ma proprio il costume di quella società. non so quanti hanno visto la serie peaky blinders su netflix, nella quale sono protagonisti dei gangster di birmin- gham. apparentemente non c’entrano nulla, ma ciò che li ac- comuna è che sono tutti reduci della prima guerra mondiale, che hanno sperimentato in prima persona nella trincea cos’è la violenza e si sono abituati ad essa, come risorsa esistenziale per loro stessi e le loro famiglie. il fenomeno della violenza come elemento caratterizzante del dopoguerra si manifesta nell’aspetto politico in ungheria, in austria, in germania, nel tentativo di fare come la russia, nell’impugnare le armi da parte dei reduci. ma anche con la red scare (paura ros- sa) negli stati uniti, con i cappucci del ku klux klan, con la diffidenza verso gli stranieri: è l’intero mondo occidentale a essere attraversato da questa ventata. dentro questo contenitore del rapporto tra violenza e prima guerra mondiale, c’è la specificità italiana della crisi dello stato liberale che non riesce a fronteggiare questa di- mensione, non ce la fa. già i suoi meccanismi democratici erano stati messi a rischio durante il conflitto. tanto per in- tendere: cadorna aveva immaginato di deportare in eritrea o in somalia tutti gli oppositori politici, perché il fronte in- terno doveva essere garantito. c’era stata un stretta nei con- fronti del dissenso e della libertà del dibattito democratico, proprio perché quello interno era stato giudicato altrettanto importante del fronte dove si combatteva. e lo stato liberale arranca rispetto a questo nuovo protagonismo. il novecento, con il primo conflitto mondiale, si affaccia sulla scena come il secolo delle masse. sarà il secolo dei mezzi di comunicazione che diventeranno di massa, della produ- zione che diventerà di massa, dei consumi che diventeran- no di massa. e della morte di massa, perché la prima guerra mondiale è morte di massa. le masse sono scaraventate sulla scena come protagoniste, occupano la scena pubblica attra- verso la partecipazione politica e lo stato liberale non ce la fa a gestire questa transizione. le formule giolittiane si rivelano di colpo inadeguate ri- spetto a tali fenomeni, il tentativo di disciplinare il conflitto sottraendolo alle piazze e riportandolo in parlamento falli- sce miseramente. ricordate il governo giolitti, il governo nitti, con il susseguirsi di formule di governo che arrancano tentando di tener testa a fenomeni che sfuggono completa- mente alla loro consapevolezza? il tentativo di giolitti di co- stituzionalizzare il fascismo, imbrigliandolo in qualche mo- 12 do, così fiducioso nei meccanismi della democrazia da pensa- re che potessero neutralizzare persino le spinte del fascismo, naufraga miseramente. perché? perché lo stato liberale non è più il terreno della mediazione politica. ogni soggetto sociale agisce per conto proprio, non riconosce più nello stato l’elemento della me- diazione: gli operai, che vivono quella stagione all’insegna di un protagonismo totalmente dispiegato, che culminerà nel settembre 1920 con l’occupazione delle fabbriche; i contadi- ni, protagonisti di occupazioni delle terre, ma anche di una rivoluzione silenziosa che porterà a un cambiamento della struttura della proprietà fondiaria in italia, in maniera del tutto spontanea; i ceti medi, impauriti da questa spinta, dalla radicalizzazione del conflitto e alla ricerca di una sistemazio- ne organica all’interno di un rapporto con lo stato che vedo- no vacillare; i ceti dominanti – chiamiamoli così – gli indu- striali, gli agrari, che non vedono più nello stato una tutela sufficiente rispetto alla spinta dal basso. i sindacati si raffor- zano a dismisura, nasce la confindustria, ogni componente sociale si dà proprie istituzioni, pensando che quelle tradizio- nali non bastano più e che ognuno deve rivendicare la rappre- sentanza di se stesso e dei propri interessi, in una cacofonia di interessi che non è più una concordia, ma un tentativo di strappare di più agli altri. questo è lo scenario di mussolini, questo è il contesto di mussolini. mussolini comprende immediatamente il valore strategi- co della violenza. il15 aprile1919 l’assalto alla sede dell’avanti! è già il debutto. san sepolcro è a marzo, ad aprile c’è la pri- ma operazione squadrista, l’hotel balkan è l’attuazione nel fascismo di confine di questo principio: legittimarsi innan- zitutto sul terreno della violenza. è totalmente consapevole del ruolo strategico che ha in quel momento la violenza co- me opzione politica. e su quel terreno non ha rivali, conosce troppo bene dall’interno il mondo socialista per non capirne il velleitarismo. come su quel terreno – al di là degli ardi- ti di parma e di altri due, tre episodi significativi – il movi- mento operaio non è in grado di reagire all’offensiva fascista portata avanti con le squadre, i camion e le armi dati dall’e- sercito. la seconda intuizione fondamentale di mussolini è che la violenza da sola è strategicamente decisiva ma non ba- sta. occorre neutralizzare tutte le opposizioni per ricondurre tutto lo schieramento politico all’interno di un unico fascio. fascio vuol dire questo: prendere i vari pezzi e ricomporli in un insieme unitario, tenuto assieme dall’odio nei confronti del nemico di classe e dall’uso della violenza. tutte le mosse dimussolini – il passaggio dal repubblica- nesimo iniziale al consenso alla monarchia, il passaggio dal- l’anticlericalismo al rapporto privilegiato con la chiesa – van- no nella direzione di unificare in un blocco sociale tutto ciò che fino ad allora era stato diviso e sparpagliato. credo sia il suo successo più limpido, più lineare. queste due doti, consapevolezza della debolezza dell’avversario e della neces- sità di abbinare alla tattica squadristica una strategia di dia- logo e diplomazia con i centri di potere di allora (monarchia e vaticano sostanzialmente), sono il mix che fa di mussolini il protagonista di questa irresistibile ascesa. se questa interpretazione dei tre cerchi concentrici vi convince, rispetto a quello che poi succederà – anche se non è il tema della mia riflessione – credo che la dimensione del “fascismo come autobiografia della nazione” sia un’intuizio- ne da cui non si può prescindere. essa identifica nel fasci- smo il luogo storico all’interno del quale emergono molto nitidamente le “tare genetiche” – chiamiamole così – del- l’identità italiana, risalenti all’unità d’italia, ma anche pri- ma. per esempio il conformismo, l’abitudine a essere mag- gioranza e non minoranza, il culto dell’uomo forte, l’insof- ferenza per le regole della democrazia. tutte costanti che in qualche modo si ritrovano ed esploderanno in pieno nel fa- scismo. queste pulsioni affiorano spesso nella nostra sto- ria, non si tratta quindi di un’interpretazione del fascismo da accantonare senza ripensarci. perché episodi all’interno dei quali emerge questo tipo di autobiografia della nazione ce ne sono stati tanti. e anche oggi, secondo me, esiste una pul- sione che in qualche modo richiama il passato, con una diffe- renza fondamentale su cui insisto profondamente: l’assenza della violenza. il problema fascismo sì-fascismo no, fascismo oggi-peri- colo, fascismo oggi-non pericolo, ruota attorno a questo no- do. se non c’è la violenza non possiamo parlare di fascismo, perché la violenza fu decisiva per la vittoria del fascismo, sen- za gli squadristi il fascismo non avrebbe vinto. un altro elemento è la complicità delle istituzioni e da questo punto di vista è necessario monitorare molto bene ciò che succede nei carabinieri, nella polizia, nell’esercito, cioè nei corpi armati ai quali deleghiamo la nostra sicurezza. quanto successe allora fu proprio questo: una rinuncia di questi corpi a esercitare la difesa dello stato di diritto, anzi, proprio la loro connivenza esplicita con i fascisti. finché questi due elementi – violenza e connivenze isti- tuzionali – non si verificano, credo che parlare oggi di fasci- smo sia del tutto incongruo. ciò costituisce però una sorta di spia, come in miniera il canarino nella gabbia muore quan- do sta per esplodere il grisou. è un segnale di cui dobbiamo essere ben consapevoli guardando alla realtà di oggi. il fascismo di confine: laboratorio e stato d’eccezione. anna maria vinci. storica, istituto regionale per la storia della resistenza e del- l’età contemporanea nel friuli-venezia giulia. condivido in pieno quanto esposto dal professor de lu- na e vi ritrovo molti elementi di continuità con quanto ac- cadde al confine orientale. il termine “fascismo di confine” è una definizione simbolica che il fascismo assume subito per distinguersi nella lotta, poiché esisteva anche questa con gli altri fascismi locali, per ricattare le autorità centrali, per pro- pagandare la propria forza. alla fine della prima guerra mondiale l’area alto-adriatica appare, per un verso, come un osservatorio aperto sull’eu- ropa danubiano-balcanica distrutta e sfigurata dal conflitto, per l’altro rappresenta però una scena sulla quale si riflettono, a volte in modo straordinariamente limpido, nitido, eventi di portata nazionale e internazionale. e dove si osserva mol- to bene e si tocca con mano lo sgretolarsi dello stato liberale italiano. il “confine”: su questo termine potremmo discutere molto, perché per noi, per l’italia è il confine della patria per eccellenza, il confine orientale. naturalmente per lo stato dei serbi, croati e sloveni in formazione, esso rappresenta il con- fine occidentale. esistono poi altri concetti contenuti in que- sto termine e se ne potrebbe discutere molto. cosa vuol dire, ad esempio, “confine naturale”, oppure cosa significa “con- fine etnico”. limitandoci a poche parole possiamo dire che
alla fine della prima guerra mondiale questo confine si pre- senta anzitutto come “confine mobile”, cioè come uno spa- zio che si può superare e potrebbe servire per conquistare le membra disciolte di un impero multietnico e multinazionale distrutto dalla guerra. il concetto di confine però – mi permetterete un’altra precisazione – comprende anche un termine più antico, quello della barriera che divide due mondi e due civiltà poste, volutamente poste, a un diverso livello di un’ipotetica scala gerarchica: da una parte la superiorità italiana e germanica, dall’altra l’inferiorità “slava”. tra virgolette, perché i popoli slavi sono numerosi e il termine slavo era usato allora ma non possiamo più usarlo oggi e non si poteva più utilizzare nem- meno negli anni passati. l’intreccio di questi due concetti si ripropone rovesciato nei desideri e negli intenti dei gruppi dirigenti “slavi” (si tratta di politici, intellettuali, professioni- sti) che puntavano a riportare la linea di confine tratteggiata dal patto armistiziale del 1866 a vantaggio delle loro popo- lazioni. almeno in parte tutto ciò costituiva l’eredità delle lacerazioni che a cavallo del secolo si erano prodotte con gli scontri, le lotte nazionali. l’età dei nazionalismi aveva inaugurato, all’interno di realtà plurietniche multiculturali, scelte che tendevano a escludere ogni diversità in nome di un legame vincolante con uno stato, a scapito di altre nazioni. a loro volta, i popo- li giovani e le nazioni cosiddette senza storia cominciavano a salire alla ribalta come forze sociali emergenti costruendo forti identità comunitarie e nazionali, rompendo i privilegi gerarchici nella gestione del potere economico e politico, ri- servata in precedenza a pochi gruppi sociali e nazionali. le ra- dici dei nazionalismi sono composite, dobbiamo tenerlo ben presente. per l’italia, molti anni fa, gioacchino volpe consi- derava questo argomento con grande attenzione. e molto si potrebbe aggiungere alla narrazione di questo racconto delle lotte nazionali. in italia si comincia a usare il termine “irredentista”, uti- lizzato per la prima volta da matteo renato imbriani nel 1877, la data non è casuale come potete ben capire. si trat- ta di un linguaggio che volutamente si pone sulla scia della religione e della patria. l’irredentismo nell’area adriatica ha diverse sfaccettature e non sempre si identifica col naziona- lismo. anche in questo caso una complessità non da poco. l’irredentismo conosce i suoi eroi e i suoi protomartiri, tra i quali ad esempio guglielmo oberdan, che però si chiamava wilhelm oberdank. si possono dunque comprendere com- plessità e mescolanze. questo irredentismo inventa nuovi linguaggi e via via che ci si avvicina alla fine dell’ottocento questi linguaggi diventano sempre più violenti, sempre più radicali. d’altra parte se teniamo conto di questa radicaliz- zazione all’interno della società, bisogna tenere presenti altre cose, come il fatto che in questi territori esistono mescolan- ze, trasversalità assolutamente importanti, non solo a livello politico. il partito socialista promuoveva questo tipo di mescolan- ze in maniera significativa, conquistando anche sul territo- rio, per i lavoratori, per gli operai, istituzioni importanti. ma si tratta di mescolanze presenti anche all’interno della cultu- ra, nelle famiglie, nei matrimoni misti ad esempio. il nazio- nalismo tende a rompere questi legami per crearne degli altri, con un lascito molto pesante di violenza e con lacerazioni che sono durate nel tempo e proseguono fino ai giorni nostri, per quello che ci riguarda. la linea di frattura tra il prima e il dopo – sono d’accordo col professor de luna – è senz’altro costituita dalla grande guerra. il conflitto mondiale agisce da detonatore dello scon- tro nazionale, ma non solo. ultimamente la storiografia ha fatto conoscere molti altri aspetti che prima non tenevamo in considerazione, aspetti di storia sociale che entrano nel vivo della realtà politica di tutti i giorni e anche nel vivo delle stra- tegie politiche. si tratta di fenomeni che riguardano non solo la violenza bruta delle armi e delle trincee, che accomuna tut- ti, ma anche il sommovimento che travolge la popolazione nelle zone di guerra e i centri urbani più importanti. per fare solo un esempio, nel1914, quando inizia la guerra nell’area orientale, sono costretti ad andarsene da trieste i co- siddetti “regnicoli”, cioè gli italiani affluiti nella grande città industriale portuale negli ultimi anni, quando essa si era mol- to sviluppata. si calcolano circa 35.000 partenze, alle quali si aggiungono quelle dei fuoriusciti irredentisti, non molti per dire la verità, poi circa 130.000 sfollati dalle zone di guerra limitrofe alla città di trieste, poi ancora i rientri dall’austria- ungheria degli emigrati (nel friuli, ad esempio, c’erano mol- tissime persone che andavano a lavorare in austria, un fe- nomeno abbastanza evidente nel goriziano). devo citare un libro del mio amico franco cecotti, seduto accanto a me: nel suo volume un esilio che non ha pari è riportata l’esperienza di un “regnicolo” che racconta le vicende di questi sposta- menti enormi di popolazione. nel primo dopoguerra esse rinfocolano violenze, rancori e desideri di ribellione. quan- do i “regnicoli” tornano a trieste, ad esempio, si ritrovano le case saccheggiate, in una città completamente a terra, piega- ta dalla fame sofferta per lunghi anni, come del resto anche a vienna. non bastasse ciò, ci sono anche gli orfani e le vedo- ve, i mutilati, e ancora i 150.000 ex prigionieri italiani usciti dai campi di concentramento austriaci e ammassati nella zo- na del porto, dove non restano per molto tempo ma quanto basta per creare un clima di tensione molto forte. violenza e apatia sono i due poli opposti di uno stato di sofferenza molto diffuso in queste terre di occupazione fino alla firma del trattato di rapallo che nel novembre del 1920 chiude, almeno a livello diplomatico, la questione del confi- ne orientale tra italia e regno dei serbi, croati e sloveni. a ciò si deve aggiungere l’incapacità dell’italia liberale – in particolare del governo militare e del commissariato ge- nerale civile che si insediano nella zona d’occupazione – di assorbire queste zone in maniera moderata, congrua. qual- che persona, tra cui il generale carlo petitti di roreto, spes- so dimenticato, tenta di far comprendere alle altre autorità che ci si trova in una zona di grande complessità dove, po- sto un confine orientale con il trattato di rapallo, esistono 450.000/500.000 tra sloveni e croati. e dove, di conseguen- za, proporre delle linee di intervento anche drastiche contro di loro può essere assolutamente compromettente. la sua moderazione, però, è una moderazione che indica debolezza poiché mentre le autorità centrali si dimostrano incapaci di reggere l’urto, esiste in queste zone un altro contrasto molto importante con il potere militare, che riconosce in emanuele filiberto di savoia la sua guida. il conflitto tra potere militare e potere civile è assolutamente ben osservabile al cosiddetto “confine orientale”. c’è il problema delle cosiddette “minoranze”: uno stato nazionale non accetta minoranze; le minoranze che si sospet- tino minimamente pericolose vanno in qualche modo messe da parte, rinchiuse, cancellate e questo già prima dell’avven- to del fascismo. è un fenomeno che riguarda non solo l’italia ma tutta l’europa, ed è in contraddizione con le regole inter- nazionali relative alle zone di occupazione. ancora fino alla fine del ’20 non si è in regime di annessione di queste terre, ma in regime di occupazione. a trieste, rispetto ad altre zone d’italia, la nascita del fa- scio fu precoce – il 3 aprile 1919 – e subito venne organizzata la sua violenta forza d’urto. alle sue origini vi era un insieme disordinato di gruppi, tra i quali spiccavano forze nazionali- ste che avevano ereditato qualcosa dal passato. l’insieme di questi gruppi è tenuto unito in un “fascio” da una serie di terminologie, da una serie di ideali, ideologie: la rabbia con- tro la vittoria mutilata, il grido di vendetta per i troppi morti e le troppe sofferenze patite durante la guerra e poi nella fa- mosa avventura fiumana che trova in d’annunzio il capo e la guida. l’avventura fiumana infiamma gli animi con la sua ir- regolarità, col ripudio delle istituzioni liberali rappresentati- ve e con le promesse di un ordine sociale nuovo che ha alcuni aspetti egalitari mistificanti e mistificati. bisogna tener conto di un altro aspetto: tutta la zona intorno a trieste, e la città stessa, devono elaborare il lutto della grande guerra e i tan- tissimi caduti. d’annunzio sembra dare un appiglio perché nelle sue parole, nel suo linguaggio nuovo, in quella che vie- ne chiamata la perfetta circolarità tra il sacrificio degli eroi e la lotta incessante, questi eroi vengono vendicati e finalmente si raggiunge l’ideale della patria con la p maiuscola. un altro nesso di aggregazione tra queste forze è sicura- mente il nemico esterno, il nuovo regno dei serbi, croa- ti e sloveni che si sta formando. e quello interno, costitui- to dalle organizzazioni e istituzioni socialiste e dalla presen- 23 za degli sloveni e dei croati. si crea sicuramente un movi- mento di opposizione guidato dai socialisti che è capace di portare allo scontro sociale – nelle piazze, nei quartieri ope- rai, nelle campagne – la popolazione o parti della popola- zione. però vanno considerate le parole di un esponente so- cialista come aldo oberdorfer (del partito socialista italiano ma legato all’austro-marxismo) quando si riferisce ai nuovi adepti, ai nuovi iscritti al partito: “essi non ragionano, sen- tono, non ostacolano, si astengono, non negano, ignorano”. anche all’interno del partito socialista dunque abbiamo lo sconvolgimento portato dalla guerra. tornando alla nascita del fascio, si trattò di un fiume in piena, di una guerriglia, con tumulti, barricate, assalti alle se- di dei comuni, inusitate modalità di presenza sul territorio. certamente i più organizzati sono gli squadristi: le “squadre volontarie di difesa cittadina”, come vengono denominate, nascono nel maggio 1920 sotto la guida di francesco giunta. viene dalla toscana ed è destinato a una carriera molto im- portante durante il ventennio. faceva parte dell’ufficio in- formazioni truppe operanti, cioè di un settore dell’esercito che avrebbe dovuto sorvegliare ciò che vi accadeva all’inter- no, ma in realtà forniva informazioni condite di molti pre- giudizi su tutta la popolazione esistente nell’area orientale, in particolare relativamente agli sloveni e ai croati. giunta riesce a raccogliere 14.700 iscritti, non pochi in quel tempo, e fon- da il secondo quotidiano fascista in italia, il popolo di trie- ste. l’idea della “squadra” unifica i giovani e i nuovi ribelli: è un coacervo, un insieme, un grumo di violenza. e nello stes- so tempo un motivo di orgoglio per coloro che sono usciti dalla guerra, che ce l’hanno fatta, che possono dimostrare la loro mascolinità, in confronto o in soccorso ai tanti mutilati e offesi nel corpo a causa della guerra. ..segue ./.
Segue da Pag.21: 1919-1922: nascita del fascismo

Tutta la dimensione di compostezza, di pacatezza del mondo bianco (parliamo dell’Europa, non dei mondi colo- niali che venivano saccheggiati), quel senso della misura, quella fiducia nel progresso che aveva alimentato la belle épo- que, scompare. Il Trattato di pace di Versailles non ce la fa a governare tutta questa violenza che è stata generata. È una di- mensione sulla quale invito a riflettere, perché non riguarda soltanto la politica, ma proprio il costume di quella società.

Non so quanti hanno visto la serie Peaky Blinders su Netflix, nella quale sono protagonisti dei gangster di Birmin- gham. Apparentemente non c’entrano nulla, ma ciò che li ac- comuna è che sono tutti reduci della Prima guerra mondiale, che hanno sperimentato in prima persona nella trincea cos’è la violenza e si sono abituati ad essa, come risorsa esistenziale per loro stessi e le loro famiglie. Il fenomeno della violenza come elemento caratterizzante del dopoguerra si manifesta nell’aspetto politico in Ungheria, in Austria, in Germania, nel tentativo di fare come la Russia, nell’impugnare le armi da parte dei reduci. Ma anche con la Red Scare (paura ros- sa) negli Stati Uniti, con i cappucci del Ku Klux Klan, con la diffidenza verso gli stranieri: è l’intero mondo occidentale a essere attraversato da questa ventata. Dentro questo contenitore del rapporto tra violenza e Prima guerra mondiale, c’è la specificità italiana della crisi dello Stato liberale che non riesce a fronteggiare questa di- mensione, non ce la fa. Già i suoi meccanismi democratici erano stati messi a rischio durante il conflitto. Tanto per in- tendere: Cadorna aveva immaginato di deportare in Eritrea o in Somalia tutti gli oppositori politici, perché il fronte in- terno doveva essere garantito. C’era stata un stretta nei con- fronti del dissenso e della libertà del dibattito democratico, proprio perché quello interno era stato giudicato altrettanto importante del fronte dove si combatteva. E lo Stato liberale arranca rispetto a questo nuovo protagonismo.

Il Novecento, con il Primo conflitto mondiale, si affaccia sulla scena come il secolo delle masse. Sarà il secolo dei mezzi di comunicazione che diventeranno di massa, della produ- zione che diventerà di massa, dei consumi che diventeran- no di massa. E della morte di massa, perché la Prima guerra mondiale è morte di massa. Le masse sono scaraventate sulla scena come protagoniste, occupano la scena pubblica attra- verso la partecipazione politica e lo Stato liberale non ce la fa a gestire questa transizione.

Le formule giolittiane si rivelano di colpo inadeguate ri- spetto a tali fenomeni, il tentativo di disciplinare il conflitto sottraendolo alle piazze e riportandolo in Parlamento falli- sce miseramente. Ricordate il governo Giolitti, il governo Nitti, con il susseguirsi di formule di governo che arrancano tentando di tener testa a fenomeni che sfuggono completa- mente alla loro consapevolezza? Il tentativo di Giolitti di co- stituzionalizzare il fascismo, imbrigliandolo in qualche mo- 12 do, così fiducioso nei meccanismi della democrazia da pensa- re che potessero neutralizzare persino le spinte del fascismo, naufraga miseramente.

Perché? Perché lo Stato liberale non è più il terreno della mediazione politica. Ogni soggetto sociale agisce per conto proprio, non riconosce più nello Stato l’elemento della me- diazione: gli operai, che vivono quella stagione all’insegna di un protagonismo totalmente dispiegato, che culminerà nel settembre 1920 con l’occupazione delle fabbriche; i contadi- ni, protagonisti di occupazioni delle terre, ma anche di una rivoluzione silenziosa che porterà a un cambiamento della struttura della proprietà fondiaria in Italia, in maniera del tutto spontanea; i ceti medi, impauriti da questa spinta, dalla radicalizzazione del conflitto e alla ricerca di una sistemazio- ne organica all’interno di un rapporto con lo Stato che vedo- no vacillare; i ceti dominanti – chiamiamoli così – gli indu- striali, gli agrari, che non vedono più nello Stato una tutela sufficiente rispetto alla spinta dal basso. I sindacati si raffor- zano a dismisura, nasce la Confindustria, ogni componente sociale si dà proprie istituzioni, pensando che quelle tradizio- nali non bastano più e che ognuno deve rivendicare la rappre- sentanza di se stesso e dei propri interessi, in una cacofonia di interessi che non è più una concordia, ma un tentativo di strappare di più agli altri. Questo è lo scenario di Mussolini, questo è il contesto di Mussolini.

Mussolini comprende immediatamente il valore strategi- co della violenza. Il15 aprile1919 l’assalto alla sede dell’Avanti! è già il debutto. San Sepolcro è a marzo, ad aprile c’è la pri- ma operazione squadrista, l’Hotel Balkan è l’attuazione nel fascismo di confine di questo principio: legittimarsi innan- zitutto sul terreno della violenza. È totalmente consapevole del ruolo strategico che ha in quel momento la violenza co- me opzione politica. E su quel terreno non ha rivali, conosce troppo bene dall’interno il mondo socialista per non capirne il velleitarismo. Come su quel terreno – al di là degli Ardi- ti di Parma e di altri due, tre episodi significativi – il movi- mento operaio non è in grado di reagire all’offensiva fascista portata avanti con le squadre, i camion e le armi dati dall’E- sercito. La seconda intuizione fondamentale di Mussolini è che la violenza da sola è strategicamente decisiva ma non ba- sta. Occorre neutralizzare tutte le opposizioni per ricondurre tutto lo schieramento politico all’interno di un unico fascio.

Fascio vuol dire questo: prendere i vari pezzi e ricomporli in un insieme unitario, tenuto assieme dall’odio nei confronti del nemico di classe e dall’uso della violenza.

Tutte le mosse diMussolini – il passaggio dal repubblica- nesimo iniziale al consenso alla Monarchia, il passaggio dal- l’anticlericalismo al rapporto privilegiato con la Chiesa – van- no nella direzione di unificare in un blocco sociale tutto ciò che fino ad allora era stato diviso e sparpagliato. Credo sia il suo successo più limpido, più lineare. Queste due doti, consapevolezza della debolezza dell’avversario e della neces- sità di abbinare alla tattica squadristica una strategia di dia- logo e diplomazia con i centri di potere di allora (Monarchia e Vaticano sostanzialmente), sono il mix che fa di Mussolini il protagonista di questa irresistibile ascesa.

Se questa interpretazione dei tre cerchi concentrici vi convince, rispetto a quello che poi succederà – anche se non è il tema della mia riflessione – credo che la dimensione del “fascismo come autobiografia della nazione” sia un’intuizio- ne da cui non si può prescindere. Essa identifica nel fasci- smo il luogo storico all’interno del quale emergono molto nitidamente le “tare genetiche” – chiamiamole così – del- l’identità italiana, risalenti all’Unità d’Italia, ma anche pri- ma. Per esempio il conformismo, l’abitudine a essere mag- gioranza e non minoranza, il culto dell’uomo forte, l’insof- ferenza per le regole della democrazia. Tutte costanti che in qualche modo si ritrovano ed esploderanno in pieno nel fa- scismo. Queste pulsioni affiorano spesso nella nostra sto- ria, non si tratta quindi di un’interpretazione del fascismo da accantonare senza ripensarci. Perché episodi all’interno dei quali emerge questo tipo di autobiografia della nazione ce ne sono stati tanti. E anche oggi, secondo me, esiste una pul- sione che in qualche modo richiama il passato, con una diffe- renza fondamentale su cui insisto profondamente: l’assenza della violenza.

Il problema fascismo sì-fascismo no, fascismo oggi-peri- colo, fascismo oggi-non pericolo, ruota attorno a questo no- do. Se non c’è la violenza non possiamo parlare di fascismo, perché la violenza fu decisiva per la vittoria del fascismo, sen- za gli squadristi il fascismo non avrebbe vinto.

Un altro elemento è la complicità delle istituzioni e da questo punto di vista è necessario monitorare molto bene ciò che succede nei Carabinieri, nella Polizia, nell’Esercito, cioè nei Corpi armati ai quali deleghiamo la nostra sicurezza.

Quanto successe allora fu proprio questo: una rinuncia di questi Corpi a esercitare la difesa dello Stato di diritto, anzi, proprio la loro connivenza esplicita con i fascisti.

Finché questi due elementi – violenza e connivenze isti- tuzionali – non si verificano, credo che parlare oggi di fasci- smo sia del tutto incongruo. Ciò costituisce però una sorta di spia, come in miniera il canarino nella gabbia muore quan- do sta per esplodere il grisou. È un segnale di cui dobbiamo essere ben consapevoli guardando alla realtà di oggi.

Il fascismo di confine: laboratorio e stato d’eccezione

Anna Maria Vinci

Storica, Istituto regionale per la storia della Resistenza e del- l’Età contemporanea nel Friuli-Venezia Giulia


Condivido in pieno quanto esposto dal professor De Lu- na e vi ritrovo molti elementi di continuità con quanto ac- cadde al confine orientale. Il termine “fascismo di confine” è una definizione simbolica che il fascismo assume subito per distinguersi nella lotta, poiché esisteva anche questa con gli altri fascismi locali, per ricattare le autorità centrali, per pro- pagandare la propria forza.

Alla fine della Prima guerra mondiale l’area alto-adriatica appare, per un verso, come un osservatorio aperto sull’Eu- ropa danubiano-balcanica distrutta e sfigurata dal conflitto, per l’altro rappresenta però una scena sulla quale si riflettono, a volte in modo straordinariamente limpido, nitido, eventi di portata nazionale e internazionale. E dove si osserva mol- to bene e si tocca con mano lo sgretolarsi dello Stato liberale italiano.

Il “confine”: su questo termine potremmo discutere molto, perché per noi, per l’Italia è il confine della Patria per eccellenza, il confine orientale. Naturalmente per lo Stato dei serbi, croati e sloveni in formazione, esso rappresenta il con- fine occidentale. Esistono poi altri concetti contenuti in que- sto termine e se ne potrebbe discutere molto. Cosa vuol dire, ad esempio, “confine naturale”, oppure cosa significa “con- fine etnico”. Limitandoci a poche parole possiamo dire che
alla fine della Prima guerra mondiale questo confine si pre- senta anzitutto come “confine mobile”, cioè come uno spa- zio che si può superare e potrebbe servire per conquistare le membra disciolte di un impero multietnico e multinazionale distrutto dalla guerra.

Il concetto di confine però – mi permetterete un’altra precisazione – comprende anche un termine più antico, quello della barriera che divide due mondi e due civiltà poste, volutamente poste, a un diverso livello di un’ipotetica scala gerarchica: da una parte la superiorità italiana e germanica, dall’altra l’inferiorità “slava”. Tra virgolette, perché i popoli slavi sono numerosi e il termine slavo era usato allora ma non possiamo più usarlo oggi e non si poteva più utilizzare nem- meno negli anni passati. L’intreccio di questi due concetti si ripropone rovesciato nei desideri e negli intenti dei gruppi dirigenti “slavi” (si tratta di politici, intellettuali, professioni- sti) che puntavano a riportare la linea di confine tratteggiata dal patto armistiziale del 1866 a vantaggio delle loro popo- lazioni. Almeno in parte tutto ciò costituiva l’eredità delle lacerazioni che a cavallo del secolo si erano prodotte con gli scontri, le lotte nazionali.

L’età dei nazionalismi aveva inaugurato, all’interno di realtà plurietniche multiculturali, scelte che tendevano a escludere ogni diversità in nome di un legame vincolante con uno Stato, a scapito di altre nazioni. A loro volta, i popo- li giovani e le nazioni cosiddette senza storia cominciavano a salire alla ribalta come forze sociali emergenti costruendo forti identità comunitarie e nazionali, rompendo i privilegi gerarchici nella gestione del potere economico e politico, ri- servata in precedenza a pochi gruppi sociali e nazionali. Le ra- dici dei nazionalismi sono composite, dobbiamo tenerlo ben presente. Per l’Italia, molti anni fa, Gioacchino Volpe consi- derava questo argomento con grande attenzione. E molto si potrebbe aggiungere alla narrazione di questo racconto delle lotte nazionali.

In Italia si comincia a usare il termine “irredentista”, uti- lizzato per la prima volta da Matteo Renato Imbriani nel 1877, la data non è casuale come potete ben capire. Si trat- ta di un linguaggio che volutamente si pone sulla scia della religione e della patria. L’irredentismo nell’area adriatica ha diverse sfaccettature e non sempre si identifica col naziona- lismo. Anche in questo caso una complessità non da poco.

L’irredentismo conosce i suoi eroi e i suoi protomartiri, tra i quali ad esempio Guglielmo Oberdan, che però si chiamava Wilhelm Oberdank. Si possono dunque comprendere com- plessità e mescolanze. Questo irredentismo inventa nuovi linguaggi e via via che ci si avvicina alla fine dell’Ottocento questi linguaggi diventano sempre più violenti, sempre più radicali. D’altra parte se teniamo conto di questa radicaliz- zazione all’interno della società, bisogna tenere presenti altre cose, come il fatto che in questi territori esistono mescolan- ze, trasversalità assolutamente importanti, non solo a livello politico.

Il partito socialista promuoveva questo tipo di mescolan- ze in maniera significativa, conquistando anche sul territo- rio, per i lavoratori, per gli operai, istituzioni importanti. Ma si tratta di mescolanze presenti anche all’interno della cultu- ra, nelle famiglie, nei matrimoni misti ad esempio. Il nazio- nalismo tende a rompere questi legami per crearne degli altri, con un lascito molto pesante di violenza e con lacerazioni che sono durate nel tempo e proseguono fino ai giorni nostri, per quello che ci riguarda.

La linea di frattura tra il prima e il dopo – sono d’accordo col professor De Luna – è senz’altro costituita dalla Grande guerra. Il conflitto mondiale agisce da detonatore dello scon- tro nazionale, ma non solo. Ultimamente la storiografia ha fatto conoscere molti altri aspetti che prima non tenevamo in considerazione, aspetti di storia sociale che entrano nel vivo della realtà politica di tutti i giorni e anche nel vivo delle stra- tegie politiche. Si tratta di fenomeni che riguardano non solo la violenza bruta delle armi e delle trincee, che accomuna tut- ti, ma anche il sommovimento che travolge la popolazione nelle zone di guerra e i centri urbani più importanti.

Per fare solo un esempio, nel1914, quando inizia la guerra nell’area orientale, sono costretti ad andarsene da Trieste i co- siddetti “regnicoli”, cioè gli italiani affluiti nella grande città industriale portuale negli ultimi anni, quando essa si era mol- to sviluppata. Si calcolano circa 35.000 partenze, alle quali si aggiungono quelle dei fuoriusciti irredentisti, non molti per dire la verità, poi circa 130.000 sfollati dalle zone di guerra limitrofe alla città di Trieste, poi ancora i rientri dall’Austria- Ungheria degli emigrati (nel Friuli, ad esempio, c’erano mol- tissime persone che andavano a lavorare in Austria, un fe- nomeno abbastanza evidente nel goriziano). Devo citare un libro del mio amico Franco Cecotti, seduto accanto a me: nel suo volume Un esilio che non ha pari è riportata l’esperienza di un “regnicolo” che racconta le vicende di questi sposta- menti enormi di popolazione. Nel primo dopoguerra esse rinfocolano violenze, rancori e desideri di ribellione. Quan- do i “regnicoli” tornano a Trieste, ad esempio, si ritrovano le case saccheggiate, in una città completamente a terra, piega- ta dalla fame sofferta per lunghi anni, come del resto anche a Vienna. Non bastasse ciò, ci sono anche gli orfani e le vedo- ve, i mutilati, e ancora i 150.000 ex prigionieri italiani usciti dai campi di concentramento austriaci e ammassati nella zo- na del porto, dove non restano per molto tempo ma quanto basta per creare un clima di tensione molto forte. Violenza e apatia sono i due poli opposti di uno stato di sofferenza molto diffuso in queste terre di occupazione fino alla firma del Trattato di Rapallo che nel novembre del 1920 chiude, almeno a livello diplomatico, la questione del confi- ne orientale tra Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.

A ciò si deve aggiungere l’incapacità dell’Italia liberale – in particolare del Governo militare e del Commissariato ge- nerale civile che si insediano nella zona d’occupazione – di assorbire queste zone in maniera moderata, congrua. Qual- che persona, tra cui il generale Carlo Petitti di Roreto, spes- so dimenticato, tenta di far comprendere alle altre Autorità che ci si trova in una zona di grande complessità dove, po- sto un confine orientale con il Trattato di Rapallo, esistono 450.000/500.000 tra sloveni e croati. E dove, di conseguen- za, proporre delle linee di intervento anche drastiche contro di loro può essere assolutamente compromettente. La sua moderazione, però, è una moderazione che indica debolezza poiché mentre le autorità centrali si dimostrano incapaci di reggere l’urto, esiste in queste zone un altro contrasto molto importante con il potere militare, che riconosce in Emanuele Filiberto di Savoia la sua guida. Il conflitto tra potere militare e potere civile è assolutamente ben osservabile al cosiddetto “confine orientale”.

C’è il problema delle cosiddette “minoranze”: uno Stato nazionale non accetta minoranze; le minoranze che si sospet- tino minimamente pericolose vanno in qualche modo messe da parte, rinchiuse, cancellate e questo già prima dell’avven- to del fascismo. È un fenomeno che riguarda non solo l’Italia ma tutta l’Europa, ed è in contraddizione con le regole inter- nazionali relative alle zone di occupazione. Ancora fino alla fine del ’20 non si è in regime di annessione di queste terre, ma in regime di occupazione.

A Trieste, rispetto ad altre zone d’Italia, la nascita del Fa- scio fu precoce – il 3 aprile 1919 – e subito venne organizzata la sua violenta forza d’urto. Alle sue origini vi era un insieme disordinato di gruppi, tra i quali spiccavano forze nazionali- ste che avevano ereditato qualcosa dal passato. L’insieme di questi gruppi è tenuto unito in un “fascio” da una serie di terminologie, da una serie di ideali, ideologie: la rabbia con- tro la vittoria mutilata, il grido di vendetta per i troppi morti e le troppe sofferenze patite durante la guerra e poi nella fa- mosa avventura fiumana che trova in D’Annunzio il capo e la guida. L’avventura fiumana infiamma gli animi con la sua ir- regolarità, col ripudio delle istituzioni liberali rappresentati- ve e con le promesse di un ordine sociale nuovo che ha alcuni aspetti egalitari mistificanti e mistificati. Bisogna tener conto di un altro aspetto: tutta la zona intorno a Trieste, e la città stessa, devono elaborare il lutto della Grande guerra e i tan- tissimi Caduti. D’Annunzio sembra dare un appiglio perché nelle sue parole, nel suo linguaggio nuovo, in quella che vie- ne chiamata la perfetta circolarità tra il sacrificio degli eroi e la lotta incessante, questi eroi vengono vendicati e finalmente si raggiunge l’ideale della Patria con la P maiuscola.

Un altro nesso di aggregazione tra queste forze è sicura- mente il nemico esterno, il nuovo Regno dei Serbi, Croa- ti e Sloveni che si sta formando. E quello interno, costitui- to dalle organizzazioni e istituzioni socialiste e dalla presen- 23 za degli sloveni e dei croati. Si crea sicuramente un movi- mento di opposizione guidato dai socialisti che è capace di portare allo scontro sociale – nelle piazze, nei quartieri ope- rai, nelle campagne – la popolazione o parti della popola- zione. Però vanno considerate le parole di un esponente so- cialista come Aldo Oberdorfer (del partito socialista italiano ma legato all’austro-marxismo) quando si riferisce ai nuovi adepti, ai nuovi iscritti al partito: “Essi non ragionano, sen- tono, non ostacolano, si astengono, non negano, ignorano”.

Anche all’interno del partito socialista dunque abbiamo lo sconvolgimento portato dalla guerra. Tornando alla nascita del Fascio, si trattò di un fiume in piena, di una guerriglia, con tumulti, barricate, assalti alle se- di dei Comuni, inusitate modalità di presenza sul territorio.

Certamente i più organizzati sono gli squadristi: le “Squadre volontarie di difesa cittadina”, come vengono denominate, nascono nel maggio 1920 sotto la guida di Francesco Giunta.

Viene dalla Toscana ed è destinato a una carriera molto im- portante durante il ventennio. Faceva parte dell’Ufficio in- formazioni truppe operanti, cioè di un settore dell’Esercito che avrebbe dovuto sorvegliare ciò che vi accadeva all’inter- no, ma in realtà forniva informazioni condite di molti pre- giudizi su tutta la popolazione esistente nell’area orientale, in particolare relativamente agli sloveni e ai croati. Giunta riesce a raccogliere 14.700 iscritti, non pochi in quel tempo, e fon- da il secondo quotidiano fascista in Italia, Il Popolo di Trie- ste. L’idea della “squadra” unifica i giovani e i nuovi ribelli: è un coacervo, un insieme, un grumo di violenza. E nello stes- so tempo un motivo di orgoglio per coloro che sono usciti dalla guerra, che ce l’hanno fatta, che possono dimostrare la loro mascolinità, in confronto o in soccorso ai tanti mutilati e offesi nel corpo a causa della guerra.

..segue ./.

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