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La VOCE 2102

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La VOCE ANNO XXIII N°6

febbraio 2021

PAGINA 1         - 21

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atti del convegno svolto dal comitato nazionale anpi e dal coordinamento regionale friuli-venezia giulia. relazione introduttiva 4 febbraio 2020 dino spanghero. coordinatore regionale anpi friuli-venezia giulia. hanno una loro identità coloro che abitano, vivono e muoiono intorno a una frontiera? e più precisamente: chi sono, come vivono, quali sentimenti alimentano coloro che hanno la ventura di vivere da secoli in quella regione inopi- natamente chiamata venezia giulia? viene immediatamente di rispondere che “l’identità di frontiera è costituita essenzialmente dal fatto di essere sem- pre, in qualche modo, consapevolmente o no, a cavallo del- la frontiera, non da una parte sola, ma da entrambe, anche dall’altra parte, da quella di chi, in un dato momento sto- rico, appare quale diverso, addirittura il nemico e si rivela invece affine o vicino”. sono parole prese a prestito dalla prefazione di claudio magris al libro fra nazione e impero. trieste, gli asburgo, la mitteleuropa di angelo ara, volume che personalmente ritengo necessario conoscere per inoltrar- si nella “più complessa vicenda del confine orientale”, così come la definisce la legge 30 marzo 2004, n. 92, istitutiva del “giorno del ricordo”. sulla questione “confine orientale” per anni si è taciut o meglio si è evitato l’argomento. poi la mutata situazione politica nazionale e internazionale ha dato la stura a prese di posizione talmente diverse da portare gli interlocutori ad ac- cusare di revisionismo, negazionismo, riduzionismo, revan- scismo – e tutti gli “ismi” che volete – ora l’una, ora l’altra parte. parliamo appunto della “più complessa vicenda”, do- ve la complessità, proprio perché, in quanto tale, non è ricon- ducibile a un concetto semplice e lineare, non si può ridur- re allo scontro aperto tra due antagonismi, tra due posizioni, due idee, due istanze, due finalità, due obiettivi ben delineati che si contrappongono e si annientano a vicenda. complessi- tà sottintende invece l’intreccio, la commistione, la contami- nazione e, infine, la coesistenza e convivenza tra gli elementi appena citati che di volta in volta, a seconda dei casi o dei momenti, emergono in modo prevalente. stiamo parlando di lingue, etnie, popolazioni, culture, usi, costumi, tradizio- ni, rapporti sociali, politici ed economici da secoli conviventi, non dico felicemente, ma lealmente conviventi sì. per capire quindi le cause della tragedia che ha investito il confine italo-sloveno durante e alla fine della seconda guerra mondiale è necessario conoscere la storia e non lasciarsi an- dare a facili conclusioni di tipo nazionalistico che nulla han- no di storico, ma anzi sono spesso motivo di scontro, anche violento e totale, tra i protagonisti. l’anpi del friuli-venezia giulia, con la convinta adesione e condivisione dell’anpi na- zionale ha inteso dar vita a questo seminario di roma, in una sede istituzionale così prestigiosa, per far luce su alcuni aspet- ti dell’intera vicenda altrimenti facilmente preda di isterismi nazionalisti, revanscisti, o peggio ancora fascisti. se non è da tutti conoscere gli storici che hanno fatto ri- cerca e scritto della materia, partiamo almeno dalla relazio- ne della commissione mista italo-slovena costituita a seguito degli accordi di osimo. gli accordi di osimo sono del 1975, la commissione è del 1993, la relazione conclusiva venne ap- provata nel luglio 2000 e pubblicata dal governo italiano so- lo il 4 aprile 2001. a differenza di quanto avvenuto ad ope- ra del governo sloveno, in italia la relazione fu fatta passare quasi sotto silenzio, tanto che si dovette attendere la buona volontà della redazione del quotidiano di trieste il piccolo e dell’anpi di gorizia – seguita poi da quelle di trieste, porde- none e treviso – per una più vasta diffusione che però, per quanto mi consta, si è spesso arenata non appena varcato il tagliamento. un altro documento vorrei citare, vale a dire quello che tutti hanno trovato sulla propria sedia entrando in questa sala. si tratta del documento approvato dal comi- tato nazionale dell’anpi il 9 dicembre 2016, dal titolo “il con- fine italo-sloveno: analisi e riflessioni”, che ha ripreso ed ela- borato i molti spunti offerti dal seminario del gennaio 2016, promosso dall’anpi nazionale sul tema “la drammatica vi- cenda dei confini orientali”, nel quale attraverso l’interven- to degli storici si discusse di frontiere, di fascismo nell’area di confine, di resistenza italiana e jugoslava, di foibe e di esodo. si avvicina il 10 febbraio, “giorno del ricordo”, e ogni anno, puntuali come da copione, si scatenano sui social, sui media e purtroppo anche sulla tv di stato, le più fantasiose ri- costruzioni su quanto accaduto sul confine italo-sloveno alla fine della seconda guerra mondiale. il tutto condito da un non troppo latente nazionalismo, più spesso ancora intriso di razzismo antislavo. e non è che questa cosa venga vissuta tanto bene dalle nostre parti. ci sono dei miti che vanno assolutamente smentiti e smontati per poter iniziare un esame di quanto accaduto più utilmente aderente alla realtà dei fatti. il primo è quello degli “italiani brava gente”. come la mettiamo di fronte alla bruta- le e spietata campagna di deslavizzazione attuata dal fascismo nei venti anni di occupazione di slovenia, istria e dalmazia? con l’italiano come unica lingua negli uffici, nelle scuole, in tutti i luoghi pubblici e anche nelle chiese, perché agli sloveni era vietato anche pregare nella loro lingua. l’italianizzazione riguardava anche il cambio dei cognomi e della toponoma- stica. come la mettiamo di fronte all’invasione della jugo- slavia, cioè del regno degli slavi del sud, nel 1941, fra l’altro senza una dichiarazione di guerra, in spregio di tutte le leggi e diritti internazionali? e come la mettiamo di fronte ai campi di concentramento di civili sloveni e croati nei campi di ar- be, visco e gonars (sono tutte località del friuli, arbe però adesso è in territorio sloveno) che magari meriterebbero una visita da parte delle massime autorità politiche nazionali? il secondo mito da smontare è quello della pulizia etnica. l’esercito di liberazione jugoslavo, sotto la guida del mare- sciallo tito (che, tanto per intenderci, era croato, di madre slovena e di formazione asburgica), nella sua marcia da sud a nord, ebbe modo di catturare, processare, giustiziare e infoi- bare un gran numero di nemici. la loro condanna però non dipendeva dall’etnia – tanto è vero che tra gli infoibati tro- viamo sloveni, croati, serbi, bosniaci, oltre agli italiani – ma dalla loro qualifica di nemici della patria, in primo luogo. e di nemici del popolo, visto che la resistenza jugoslava stava anche attuando una rivoluzione socialista. i nostri paesi – parlo della mia zona, della nostra zona – hanno subito nel secolo scorso le contraddittorie situazioni del confine nazionale, che non possono non aver causato di- sgregazione nel tessuto sociale ed economico. parto da lon- tano, ma possiamo tralasciare il 1866 (anno in cui il regno d’italia sposta i suoi confini oltre la provincia di udine). par- tiamo dal 24 maggio 1915, il fronte arriva all’isonzo. nel 1916 arriva a gorizia. nel ’17 c’è caporetto e arretra di nuovo fino al piave. con il trattato di rapallo del 1920 – senza tralascia- re quel
piccolo inciso del ’19, quella piccola follia di fiume – il confine comprende istria e dalmazia. poi arriva il 1941, l’in- vasione della jugoslavia, con lubiana che diventa provincia del regno d’italia. nel ’43, l’occupazione tedesca, l’8 settem- bre e l’adriatisches küstenland (cioè la zona che dalla pro- vincia di pordenone fino a lubiana veniva chiamata così, li- torale adriatico) di fatto e di diritto annessa al terzo reich. e dopo la fine della guerra, nel 1947 il trattato di pace, il ter- ritorio libero, il ’54, finalmente si chiude il cerchio, poi viene osimo e siamo ai giorni nostri. il seminario di oggi è dunque più che mai necessario, al- la luce di questi straordinari stravolgimenti. l’intenzione è proporre un approccio pacato e sereno, senza velleità di pri- mogenitura e senza la presunzione di avere la verità assoluta in tasca sull’intera vicenda. riportare quindi uno spiraglio di luce sulle questioni appena accennate, con l’intento di for- nire un contributo di riflessione al dibattito, in modo che il “giorno del ricordo” possa veramente diventare occasione per superare un’eredità storica di conflitto e tramutarsi, se- condo gli auspici iniziali, in un reciproco riconoscimento nel quale le diversità storiche, linguistiche, sociali, politiche ed economiche di chi sta di qua e di là del confine non costi- tuiscano più causa di divisione, ma motivo di arricchimento reciproco, di umanità, progresso e pace. 1919-1922: nascita del fascismo. giovanni de luna. professore emerito di storia contemporanea, università di to- rino. se cercate un anniversario al quale legare questo mio in- tervento, cercatelo nel 1922, anno della marcia su roma, per- ché tra poco tempo ne sarà il centenario. mi auguro che que- sta ricorrenza possa essere l’occasione per rinnovare gli studi sul fascismo, aprendo nuovi fronti e nuovi scenari interpre- tativi. è già successo – e ci tengo a ribadirlo perché si tratta di un esempio virtuoso – per l’anniversario della prima guerra mondiale. il dibattito storiografico sulla grande guerra ne è uscito arricchito a dismisura. si è trattato di un anniver- sario non sepolto dalla memoria, ma vivificato dalla storia e questo si è rivelato molto importante perché è stata spazza- ta via un’intera stagione storiografica legata alla geopolitica, alla storia diplomatica, alla storia dei trattati e delle alleanze: è stata data la parola ai soldati. c’è stato il rinvigorire di un filone di ricerca legato alle lettere, ai diari, alle testimonianze scritte, con un risultato straniante e strepitoso, perché tut- to quello che era separato nel cielo delle ideologie, della geo- politica, della volontà di potenza dei vari stati, al livello dei soldati era unificato. stesso patire, stesse sofferenze, stesso incanto e disincanto, stessa paura: in quelle trincee si viveva tutti allo stesso modo. le coordinate esistenziali di un solda- to austriaco o italiano emergono in maniera estremamente simile da queste lettere, da questa spinta dal basso. se c’è un pantheon europeo da costruire, se c’è una reli- gione civile europea da edificare, se c’è un patto di memoria europeo sul quale fondare la nostra religione civile, quel pati- re insieme, quella sofferenza che accomunò tutti è il punto di partenza. non a caso gli stati belligeranti che si scontrarono allora, come germania e francia, hanno celebrato assieme il centenario. è stato un grande momento di riunificazione, al- l’interno del quale la dimensione europea come dimensione di pace è stata avvalorata e confermata. mi auguro che questo possa avvenire anche per il cente- nario del fascismo e auspico vi siano nuove fonti, nuovi sce- nari interpretativi, la possibilità di rinnovare una stagione di studi abbastanza anchilosata. un esempio: tutti i fascicoli dei processi istruiti dalla magistratura e tutte le sentenze contro le squadre fasciste dal 1919 al 1925, cioè prima che la magi- stratura ordinaria fosse espropriata della dimensione dell’in- tervento politico con la creazione del tribunale speciale per la difesa del fascismo che avocò a sé la gestione dei processi politici. questo materiale, tra il ’19 e il ’25, non è mai stato studiato, mentre è un materiale strepitoso rispetto al nodo fascismo-violenza. si tratta solo di un esempio, perché poi ci sono tutte le fonti audiovisive, con la dimensione del culto del duce. la religione politica del fascismo è stata indagata nel dibattito storiografico tradizionale dal punto di vista del consenso. ma c’è qualcosa in più: una dimensione paganeg- giante che edifica un nuovo culto che dovrebbe andare a so- stituire quelli antichi. è un versante di studi strepitosamente interessanti che mi auguro vengano inaugurati. ciò per affermare che anche quella di oggi è un’occasio- ne per proporre un percorso di interpretazione delle origini del fascismo che non ricada negli stereotipi tradizionali. il dibattito nacque praticamente alle origini del fascismo: già nel 1923 salvatorelli scriveva di “nazionalfascismo”, pensan- do ai ceti medi e al fascismo come rivoluzione dei ceti medi. da allora in poi, ricordate l’interpretazione del fascismo co- me rivoluzione da parte di de felice, quella gobettiana del “fascismo come autobiografia della nazione”, e quella di cro- ce come fascismo-parentesi. sono pietre miliari del dibattito storiografico ma lasciamole dove sono poiché oggi ci servono a poco. credo invece che la cosa più fresca e originale di cui di- sponiamo oggi nell’accostarci alle origini del fascismo sia l’e- redità del primo conflitto mondiale. ciò che propongo so- no sostanzialmente tre cerchi concentrici. il più largo è de- terminato dalla grande guerra e dal surplus di violenza im- messo nelle compagini sociali di tutti gli stati belligeranti; il secondo riguarda specificamente l’italia ed è rappresentato dalla crisi dello stato liberale; terzo, il più piccolo, il ruolo di mussolini e del fascismo in questi cerchi. secondo me si tratta di un percorso interpretativo og- gi molto più efficace per comprendere la realtà di quanto è accaduto un secolo fa. in particolare insisto sull’importan- za del primo cerchio. l’ipotesi di hobsbawm nel suo libro. il secolo breve è nota: la prima guerra mondiale tiene a bat- tesimo il novecento. sì, è vero, un battesimo all’insegna di una violenza mai dispiegata in precedenza. nessuna di quel- le precedenti ha il carattere totale e distruttivo della grande guerra. quando parlo di guerra totale, intendo una guerra che coinvolge tutte le componenti dei paesi belligeranti. non im- porta se tu stavi al fronte o eri un operaio della fiat a tori- no, sei completamente coinvolto all’interno di una macchina bellica che richiede l’apporto più totale. non a caso è la prima volta che si parla di “fronte interno”, altrettanto importan- te e decisivo per la vittoria di quello in cui si combatte, sul carso, sulla marna, nelle ardenne. in questa dimensione totale la violenza è l’elemento più caratterizzante, come un detonatore che fa esplodere un in- tero mondo. e cosa succede alla fine di quella guerra? è co- me se si spalancasse un enorme cratere al cui interno preci- pitano i tre imperi multietnici e plurisecolari, ottomano, za- rista e asburgico. un vuoto straordinario all’interno dell’as- setto geopolitico del mondo. nascono nuovi paesi, nuove nazioni, come la cecoslovacchia, che poi sarà smembrata, come la jugoslavia. tutto un tramestio nell’impossibilità di ripristinare il vecchio ordine ottocentesco. ..segue ./.


Atti del convegno svolto dal Comitato nazionale Anpi e dal Coordinamento regionale Friuli-Venezia Giulia

Relazione introduttiva 4 febbraio 2020 Dino Spanghero
Coordinatore regionale Anpi Friuli-Venezia Giulia
Hanno una loro identità coloro che abitano, vivono e muoiono intorno a una frontiera? E più precisamente: chi sono, come vivono, quali sentimenti alimentano coloro che hanno la ventura di vivere da secoli in quella regione inopi- natamente chiamata Venezia Giulia?

Viene immediatamente di rispondere che “l’identità di frontiera è costituita essenzialmente dal fatto di essere sem- pre, in qualche modo, consapevolmente o no, a cavallo del- la frontiera, non da una parte sola, ma da entrambe, anche dall’altra parte, da quella di chi, in un dato momento sto- rico, appare quale diverso, addirittura il nemico e si rivela invece affine o vicino”. Sono parole prese a prestito dalla prefazione di Claudio Magris al libro Fra nazione e impero. Trieste, gli Asburgo, la Mitteleuropa di Angelo Ara, volume che personalmente ritengo necessario conoscere per inoltrar- si nella “più complessa vicenda del confine orientale”, così come la definisce la Legge 30 marzo 2004, n. 92, istitutiva del “Giorno del ricordo”. Sulla questione “confine orientale” per anni si è taciut o meglio si è evitato l’argomento. Poi la mutata situazione politica nazionale e internazionale ha dato la stura a prese di posizione talmente diverse da portare gli interlocutori ad ac- cusare di revisionismo, negazionismo, riduzionismo, revan- scismo – e tutti gli “ismi” che volete – ora l’una, ora l’altra parte. Parliamo appunto della “più complessa vicenda”, do- ve la complessità, proprio perché, in quanto tale, non è ricon- ducibile a un concetto semplice e lineare, non si può ridur- re allo scontro aperto tra due antagonismi, tra due posizioni, due idee, due istanze, due finalità, due obiettivi ben delineati che si contrappongono e si annientano a vicenda. Complessi- tà sottintende invece l’intreccio, la commistione, la contami- nazione e, infine, la coesistenza e convivenza tra gli elementi appena citati che di volta in volta, a seconda dei casi o dei momenti, emergono in modo prevalente. Stiamo parlando di lingue, etnie, popolazioni, culture, usi, costumi, tradizio- ni, rapporti sociali, politici ed economici da secoli conviventi, non dico felicemente, ma lealmente conviventi sì.
Per capire quindi le cause della tragedia che ha investito il confine italo-sloveno durante e alla fine della Seconda guerra mondiale è necessario conoscere la storia e non lasciarsi an- dare a facili conclusioni di tipo nazionalistico che nulla han- no di storico, ma anzi sono spesso motivo di scontro, anche violento e totale, tra i protagonisti. L’Anpi del Friuli-Venezia Giulia, con la convinta adesione e condivisione dell’Anpi Na- zionale ha inteso dar vita a questo seminario di Roma, in una sede istituzionale così prestigiosa, per far luce su alcuni aspet- ti dell’intera vicenda altrimenti facilmente preda di isterismi nazionalisti, revanscisti, o peggio ancora fascisti.

Se non è da tutti conoscere gli storici che hanno fatto ri- cerca e scritto della materia, partiamo almeno dalla relazio- ne della Commissione mista italo-slovena costituita a seguito degli accordi di Osimo. Gli accordi di Osimo sono del 1975, la Commissione è del 1993, la relazione conclusiva venne ap- provata nel luglio 2000 e pubblicata dal governo italiano so- lo il 4 aprile 2001. A differenza di quanto avvenuto ad ope- ra del governo sloveno, in Italia la relazione fu fatta passare quasi sotto silenzio, tanto che si dovette attendere la buona volontà della redazione del quotidiano di Trieste Il Piccolo e dell’Anpi di Gorizia – seguita poi da quelle di Trieste, Porde- none e Treviso – per una più vasta diffusione che però, per quanto mi consta, si è spesso arenata non appena varcato il Tagliamento. Un altro documento vorrei citare, vale a dire quello che tutti hanno trovato sulla propria sedia entrando in questa sala. Si tratta del documento approvato dal Comi- tato nazionale dell’Anpi il 9 dicembre 2016, dal titolo “Il con- fine italo-sloveno: analisi e riflessioni”, che ha ripreso ed ela- borato i molti spunti offerti dal Seminario del gennaio 2016, promosso dall’Anpi nazionale sul tema “La drammatica vi- cenda dei confini orientali”, nel quale attraverso l’interven- to degli storici si discusse di frontiere, di fascismo nell’area di confine, di Resistenza italiana e jugoslava, di foibe e di esodo.
Si avvicina il 10 febbraio, “Giorno del ricordo”, e ogni anno, puntuali come da copione, si scatenano sui social, sui media e purtroppo anche sulla tv di Stato, le più fantasiose ri- costruzioni su quanto accaduto sul confine italo-sloveno alla fine della Seconda guerra mondiale. Il tutto condito da un non troppo latente nazionalismo, più spesso ancora intriso di razzismo antislavo. E non è che questa cosa venga vissuta tanto bene dalle nostre parti.
Ci sono dei miti che vanno assolutamente smentiti e smontati per poter iniziare un esame di quanto accaduto più utilmente aderente alla realtà dei fatti. Il primo è quello degli “italiani brava gente”. Come la mettiamo di fronte alla bruta- le e spietata campagna di deslavizzazione attuata dal fascismo nei venti anni di occupazione di Slovenia, Istria e Dalmazia? Con l’italiano come unica lingua negli uffici, nelle scuole, in tutti i luoghi pubblici e anche nelle chiese, perché agli sloveni era vietato anche pregare nella loro lingua. L’italianizzazione riguardava anche il cambio dei cognomi e della toponoma- stica. Come la mettiamo di fronte all’invasione della Jugo- slavia, cioè del Regno degli Slavi del sud, nel 1941, fra l’altro senza una dichiarazione di guerra, in spregio di tutte le leggi e diritti internazionali? E come la mettiamo di fronte ai campi di concentramento di civili sloveni e croati nei campi di Ar- be, Visco e Gonars (sono tutte località del Friuli, Arbe però adesso è in territorio sloveno) che magari meriterebbero una visita da parte delle massime autorità politiche nazionali? Il secondo mito da smontare è quello della pulizia etnica.

L’Esercito di Liberazione jugoslavo, sotto la guida del mare- sciallo Tito (che, tanto per intenderci, era croato, di madre slovena e di formazione asburgica), nella sua marcia da sud a nord, ebbe modo di catturare, processare, giustiziare e infoi- bare un gran numero di nemici. La loro condanna però non dipendeva dall’etnia – tanto è vero che tra gli infoibati tro- viamo sloveni, croati, serbi, bosniaci, oltre agli italiani – ma dalla loro qualifica di nemici della Patria, in primo luogo. E di nemici del popolo, visto che la Resistenza jugoslava stava anche attuando una rivoluzione socialista.
I nostri paesi – parlo della mia zona, della nostra zona – hanno subito nel secolo scorso le contraddittorie situazioni del confine nazionale, che non possono non aver causato di- sgregazione nel tessuto sociale ed economico. Parto da lon- tano, ma possiamo tralasciare il 1866 (anno in cui il Regno d’Italia sposta i suoi confini oltre la provincia di Udine). Par- tiamo dal 24 maggio 1915, il fronte arriva all’Isonzo. Nel 1916 arriva a Gorizia. Nel ’17 c’è Caporetto e arretra di nuovo fino al Piave. Con il Trattato di Rapallo del 1920 – senza tralascia- re quel
piccolo inciso del ’19, quella piccola follia di Fiume – il confine comprende Istria e Dalmazia. Poi arriva il 1941, l’in- vasione della Jugoslavia, con Lubiana che diventa provincia del Regno d’Italia. Nel ’43, l’occupazione tedesca, l’8 settem- bre e l’Adriatisches Küstenland (cioè la zona che dalla pro- vincia di Pordenone fino a Lubiana veniva chiamata così, Li- torale Adriatico) di fatto e di diritto annessa al Terzo Reich.

E dopo la fine della guerra, nel 1947 il Trattato di pace, il ter- ritorio libero, il ’54, finalmente si chiude il cerchio, poi viene Osimo e siamo ai giorni nostri.

Il seminario di oggi è dunque più che mai necessario, al- la luce di questi straordinari stravolgimenti. L’intenzione è proporre un approccio pacato e sereno, senza velleità di pri- mogenitura e senza la presunzione di avere la verità assoluta in tasca sull’intera vicenda. Riportare quindi uno spiraglio di luce sulle questioni appena accennate, con l’intento di for- nire un contributo di riflessione al dibattito, in modo che il “Giorno del ricordo” possa veramente diventare occasione per superare un’eredità storica di conflitto e tramutarsi, se- condo gli auspici iniziali, in un reciproco riconoscimento nel quale le diversità storiche, linguistiche, sociali, politiche ed economiche di chi sta di qua e di là del confine non costi- tuiscano più causa di divisione, ma motivo di arricchimento reciproco, di umanità, progresso e pace.

1919-1922: nascita del fascismo

Giovanni De Luna

Professore emerito di Storia contemporanea, Università di To- rino


Se cercate un anniversario al quale legare questo mio in- tervento, cercatelo nel 1922, anno della marcia su Roma, per- ché tra poco tempo ne sarà il centenario. Mi auguro che que- sta ricorrenza possa essere l’occasione per rinnovare gli studi sul fascismo, aprendo nuovi fronti e nuovi scenari interpre- tativi.

È già successo – e ci tengo a ribadirlo perché si tratta di un esempio virtuoso – per l’anniversario della Prima guerra mondiale. Il dibattito storiografico sulla Grande guerra ne è uscito arricchito a dismisura. Si è trattato di un anniver- sario non sepolto dalla memoria, ma vivificato dalla storia e questo si è rivelato molto importante perché è stata spazza- ta via un’intera stagione storiografica legata alla geopolitica, alla storia diplomatica, alla storia dei trattati e delle alleanze: è stata data la parola ai soldati. C’è stato il rinvigorire di un filone di ricerca legato alle lettere, ai diari, alle testimonianze scritte, con un risultato straniante e strepitoso, perché tut- to quello che era separato nel cielo delle ideologie, della geo- politica, della volontà di potenza dei vari Stati, al livello dei soldati era unificato. Stesso patire, stesse sofferenze, stesso incanto e disincanto, stessa paura: in quelle trincee si viveva tutti allo stesso modo. Le coordinate esistenziali di un solda- to austriaco o italiano emergono in maniera estremamente simile da queste lettere, da questa spinta dal basso.

Se c’è un Pantheon europeo da costruire, se c’è una reli- gione civile europea da edificare, se c’è un patto di memoria europeo sul quale fondare la nostra religione civile, quel pati- re insieme, quella sofferenza che accomunò tutti è il punto di partenza. Non a caso gli Stati belligeranti che si scontrarono allora, come Germania e Francia, hanno celebrato assieme il centenario. È stato un grande momento di riunificazione, al- l’interno del quale la dimensione europea come dimensione di pace è stata avvalorata e confermata.

Mi auguro che questo possa avvenire anche per il cente- nario del fascismo e auspico vi siano nuove fonti, nuovi sce- nari interpretativi, la possibilità di rinnovare una stagione di studi abbastanza anchilosata. Un esempio: tutti i fascicoli dei processi istruiti dalla Magistratura e tutte le sentenze contro le squadre fasciste dal 1919 al 1925, cioè prima che la Magi- stratura ordinaria fosse espropriata della dimensione dell’in- tervento politico con la creazione del Tribunale speciale per la difesa del fascismo che avocò a sé la gestione dei processi politici. Questo materiale, tra il ’19 e il ’25, non è mai stato studiato, mentre è un materiale strepitoso rispetto al nodo fascismo-violenza. Si tratta solo di un esempio, perché poi ci sono tutte le fonti audiovisive, con la dimensione del culto del Duce. La religione politica del fascismo è stata indagata nel dibattito storiografico tradizionale dal punto di vista del consenso. Ma c’è qualcosa in più: una dimensione paganeg- giante che edifica un nuovo culto che dovrebbe andare a so- stituire quelli antichi. È un versante di studi strepitosamente interessanti che mi auguro vengano inaugurati.

Ciò per affermare che anche quella di oggi è un’occasio- ne per proporre un percorso di interpretazione delle origini del fascismo che non ricada negli stereotipi tradizionali. Il dibattito nacque praticamente alle origini del fascismo: già nel 1923 Salvatorelli scriveva di “nazionalfascismo”, pensan- do ai ceti medi e al fascismo come rivoluzione dei ceti medi.

Da allora in poi, ricordate l’interpretazione del fascismo co- me rivoluzione da parte di De Felice, quella gobettiana del “fascismo come autobiografia della nazione”, e quella di Cro- ce come fascismo-parentesi. Sono pietre miliari del dibattito storiografico ma lasciamole dove sono poiché oggi ci servono a poco.

Credo invece che la cosa più fresca e originale di cui di- sponiamo oggi nell’accostarci alle origini del fascismo sia l’e- redità del Primo conflitto mondiale. Ciò che propongo so- no sostanzialmente tre cerchi concentrici. Il più largo è de- terminato dalla Grande guerra e dal surplus di violenza im- messo nelle compagini sociali di tutti gli Stati belligeranti; il secondo riguarda specificamente l’Italia ed è rappresentato dalla crisi dello Stato liberale; terzo, il più piccolo, il ruolo di Mussolini e del fascismo in questi cerchi.

Secondo me si tratta di un percorso interpretativo og- gi molto più efficace per comprendere la realtà di quanto è accaduto un secolo fa. In particolare insisto sull’importan- za del primo cerchio. L’ipotesi di Hobsbawm nel suo libro

Il secolo breve è nota: la Prima guerra mondiale tiene a bat- tesimo il Novecento. Sì, è vero, un battesimo all’insegna di una violenza mai dispiegata in precedenza. Nessuna di quel- le precedenti ha il carattere totale e distruttivo della Grande guerra.

Quando parlo di guerra totale, intendo una guerra che coinvolge tutte le componenti dei Paesi belligeranti. Non im- porta se tu stavi al fronte o eri un operaio della Fiat a Tori- no, sei completamente coinvolto all’interno di una macchina bellica che richiede l’apporto più totale. Non a caso è la prima volta che si parla di “fronte interno”, altrettanto importan- te e decisivo per la vittoria di quello in cui si combatte, sul Carso, sulla Marna, nelle Ardenne.

In questa dimensione totale la violenza è l’elemento più caratterizzante, come un detonatore che fa esplodere un in- tero mondo. E cosa succede alla fine di quella guerra? È co- me se si spalancasse un enorme cratere al cui interno preci- pitano i tre imperi multietnici e plurisecolari, ottomano, za- rista e asburgico. Un vuoto straordinario all’interno dell’as- setto geopolitico del mondo. Nascono nuovi Paesi, nuove Nazioni, come la Cecoslovacchia, che poi sarà smembrata, come la Jugoslavia. Tutto un tramestio nell’impossibilità di ripristinare il vecchio ordine ottocentesco.

..segue ./.

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