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La VOCE 2009 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XXIII N°1 | settembre 2020 | PAGINA F - 38 |
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segue da pag.37: aboliamo il carcere! e costruiamo un sistema penale più giusto e utile.
come?
nel libro suggerisco che naturalmente devono continuare a essere i pubblici ministeri a condurre le indagini e i giudici a emettere le sentenze. ma queste sentenze devono stabilire solo il grado di ingiustizia commessa. dopo dovrebbe aprirsi un'ampia gamma di possibili conseguenze giuridiche. si dovrebbe istituire un organismo che non applichi automaticamente una pena detentiva, ma che si orienti individualmente sia rispetto alle vittime sia rispetto al condannato, in modo da comminargli una pena sensata, che lo induca a non reiterare il reato. in questo modo sarebbe possibile prendere decisioni più giuste nei singoli casi. nel caso di george floyd, per esempio, il tribunale dovrebbe stabilire se si sia trattato di omicidio volontario o colposo. ma a quali conseguenze giuridiche deve andare incontro il poliziotto è un'altra questione e dovrebbe essere legata anche cosa si auspicano i parenti delle vittime.
insomma, come società dovremmo focalizzarci più sulla responsabilità che sulla colpa: è questo che intende?
l'attuale sistema ruota attorno al principio colpa/ritorsione. il tribunale stabilisce quanto grave è la colpa di cui qualcuno si è macchiato e calcola una pena detentiva. si tratta, se ci pensiamo bene, di una forma giuridicamente regolata di vendetta. ma dovremmo chiederci: quali obiettivi raggiungiamo e quali non raggiungiamo in questo modo? io penso che l'autore di un reato debba assumersi la responsabilità dei danni che ha causato sia alle vittime sia alla società in generale. naturalmente questo non può accadere sempre al 100%: chi ha ucciso un altro essere umano non potrà mai riportarlo in vita. ma direi che in tutti i casi è possibile riparare almeno una parte dei danni e quindi ottenere un effetto riparativo per le vittime e i loro parenti.
cosa osta a una simile soluzione?
il nostro attuale sistema non incoraggia quasi per nulla l'assunzione di responsabilità e anzi talvolta lo ostacola attivamente, come nel caso di uno dei condannati per gli omicidi della nsu[2]. si tratta di un uomo che aveva fornito le armi per i delitti e che in tribunale si è mostrato sinceramente pentito. molti gli hanno creduto, compresa la figlia di una delle vittime, che ha chiesto espressamente che l'uomo non fosse messo in carcere, ma che invece fosse mandato nelle scuole per informare i ragazzi dei pericoli dell'estremismo di destra. eppure è stato condannato al carcere. è solo un esempio, che però mostra che il sistema per come lo consociamo oggi spesso non è di aiuto neanche alle vittime, nonostante dovrebbe essere proprio questa la sua ragion d'essere.
l'attuale sistema ha un che di meccanico: un reato viene “tradotto” in una precisa pena. questo meccanismo rende anche possibile il fatto che noi come società non dobbiamo più occuparcene. in questo modo ci sottraiamo alla nostra responsabilità rispetto alle condizioni che conducono alla perpetrazione di reati?
assolutamente sì. il principio di responsabilità vale sia per la società in generale sia ciascuno di noi individualmente. non dico certo che chiunque commetta un reato lo fa perché ha avuto un'infanzia difficile, ma è innegabile che ogni reato ha delle cause sociali. non facciamo altro che ignorarle, mostrando di non essere all'altezza della nostra responsabilità di affrontarli coerentemente. ho lavorato nelle carceri per 15 anni e ho avuto contatti intensi con qualche migliaio di detenuti, ho conosciuto i loro delitti e ho anche conosciuto un po' loro come persone. posso dire che fra di loro non ce n'è neanche una per la quale si possa dire che il reato è arrivato dal nulla. tutti avevano un percorso personale molto problematico. il che naturalmente non significa che questo li assolve dalle loro responsabilità nel momento in cui causano danni ad altre persone. ma deve condurci a trattare ogni reato anche come sintomo di un problema sociale. come richiesta d'aiuto o come campanello d'allarme che ci faccia guardare più da vicino. tutto questo accade molto di rado, il che ha anche a che fare con il nostro concetto di colpa che presuppone l'idea che si tratti sempre di una decisione più o meno libera dell'autore del reato. così però ci rendiamo la cosa troppo facile...
c'è un passaggio del suo libro che mi ha molto sorpreso. lei scrive: “l'essere umano non è fondamentalmente cattivo, anzi tendenzialmente è al fondo piuttosto buono”. ma allo stesso tempo non nega che esistono anche persone che compiono violenze o addirittura omicidi in modo del tutto sadico. e allora, come mai questa affermazione?
non è detto che in prigione che si incontrino persone peggiori di quelle che stanno fuori. si incontrano persone che non hanno saputo rispettare le regole, che magari per altri sono più facili da rispettare. naturalmente si incontrano anche persone che hanno fatto del male ad altri. ma sono davvero pochi quelli per i quali io mi sono detto: di questa persona non possiamo fidarci. tutti gli altri sono persone normali, con sentimenti e bisogni umani, con le quali si può parlare e incontrarsi umanamente. non ricordo davvero neanche un caso in cui io sia stato profondamente deluso da un detenuto. la prigione non mi ha lasciato un'immagine negativa dell'umanità. la ricerca criminologica conferma che nessuno nasce “cattivo”. ogni persona è capace di amare, prova empatia e vuole andare d'accordo con gli altri. le strutture sociali devono essere tali da promuovere il meglio in ciascuno di noi fin dall'infanzia.
lei auspica soluzioni e misure individuali, che tengano conto al meglio degli interessi di tutti i soggetti coinvolti: vittime, autori dei reati, società. come dovrebbe funzionare nella pratica?
il nostro diritto penale attualmente contiene tutta una serie di reati minori, come il furto, che non necessariamente devono rientrare nel suo ambito. non si tratta naturalmente di legalizzarli, ma di trasformarli in reati amministrativi. già solo con questa misura avremmo a disposizione molto più personale. diversi sondaggi rivelano che la popolazione non ha nessun interesse a che, per esempio, chi ha viaggiato senza biglietto finisca in prigione, mentre preferirebbe di gran lunga che queste persone fossero destinate a lavori socialmente utili per riparare i danni. la maggior parte della popolazione è molto più avanti del sistema giudiziario. io propongo di istituire degli organismi che si occupino delle dispute dopo il processo giudiziario. questi organismi dovrebbero essere composti da personale che già lavora nel sistema penale, non ci sarebbero costi aggiuntivi. anzi, si potrebbe anche risparmiare se ci si potesse concentrare solo sui delitti più gravi.
lei vorrebbe che in questi organismi abbiano voce non solo gli esperti ma anche “normali” cittadini: perché?
solo se le persone si trovano faccia a faccia con chi ha commesso un reato e le loro vittime possono davvero percepire il peso delle cause sociali nella commissione dei reati. se in questi organismi riuscissimo a portare due persone della cerchia della vittima e due della cerchia dell'autore del reato, potrebbero aprirsi nuove prospettive. per esempio potrebbe emergere che in un certo quartiere vengono perpetrati sempre gli stessi reati. e magari anche che nello stesso quartiere il tasso di disoccupazione è molto alto come anche quello delle madri single. allora forse si comincerebbe a ragionare su cosa si può fare in quei quartieri con i ragazzi, per esempio.
quella che lei descrive è nota come “giustizia riparativa”: ci sono già casi concreti di applicazione?
anche nel nostro attuale ordinamento ci sono anche elementi di giustizia riparativa, penso per esempio all'istituto della mediazione. ma non ne è il perno. viene utilizzata più spesso quando si tratta di minori, quando per esempio la sentenza tiene conto del fatto che siano state pagate o meno piccole somme di denaro alla vittima in via riparativa. per gli adulti invece non vi si ricorre quasi mai e soprattutto per i delitti più gravi non gioca praticamente nessun ruolo. in brasile c'è un sistema di carceri, riconosciute dallo stato, gestite dall'apac, un'associazione di ispirazione cristiana per la protezione e l’assistenza ai condannati. un punto centrale di questo sistema è il confronto fra detenuti e vittime, se queste lo desiderano. ma anche lì il concetto di giustizia riparativa non ha completamente modificato né tantomeno sostituito il sistema penale.
lei vuole abolire il carcere: è consapevole che un simile auspicio mette paura alla maggior parte delle persone?
a me pare in realtà che negli ultimi anni questa paura sia sensibilmente diminuita, almeno nella misura in cui mi è stata comunicata. probabilmente perché il tema ha iniziato a essere affrontato in maniera più approfondita e differenziata anche nei media. fino a pochi anni fa, dopo ogni dibattito pubblico a cui partecipavo ricevevo regolarmente diverse lettere dalle vittime, per esempio di stupro, che mi comunicavano di vivere le mie tesi come uno schiaffo. in questi casi io mi sono sempre confrontato personalmente con le vittime e ho ascoltato cosa provavano e cosa auspicavano. le vittime vogliono innanzitutto essere protette per tutta la vita dal colpevole, il che è del tutto comprensibile. le vittime di reati sessuali non vogliono mai più rivedere i loro carnefici e vogliono anche che questi ultimi non facciano ad altre quello che hanno subito loro. attualmente però le cose stanno così: che dopo un certo periodo di tempo il colpevole viene rilasciato e torna a commettere reati. le vittime non hanno tanto il bisogno di infliggere un male sproporzionato ai colpevoli, quanto piuttosto quello di ridurre al minimo la reiterazione dei reati. attualmente abbiamo una sola risposta a un reato: prigione. finché sarà così, naturalmente capisco che la mia richiesta di abolire il carcere possa ferire e offendere le vittime. sulla base della mia esperienza però posso dire che questo atteggiamento cambia non appena sono messe sul tappeto delle
alternative.
lei stesso ha affermato che i reati non vengono dal nulla. non è sensato allora che i colpevoli anche grazie a una pena detentiva vengano allontanati dal loro contesto?
naturalmente ha senso allontanare le persone da un ambiente dove, per esempio, circola molta droga. o, a tutela delle vittime, allontanare dalle case persone che esercitano violenza domestica. ma l'altra metà della verità che viene nascosta sotto il tavolo dalla giustizia è che queste persone vengono allontanate dal loro ambiente per essere inserite in un contesto molto più criminogeno, con un grande mercato di droga, nel quale essi vengono a contatto con altri colpevoli di altri reati. non ha nessun senso allontanare le persone dal proprio contesto per portarle in uno ancora più distruttivo. dobbiamo riuscire ad agire in maniera più individuale. il monitoraggio elettronico della residenza, che consente ai condannati di rimanere nella propria abitazione a determinate condizioni e di lasciarla solo per andare a lavoro o non di non lasciarla affatto, può essere una utile misura. se per qualunque ragione non appare ragionevole che il condannato rimanga a casa sua, si potrebbe pensare a delle comunità residenziali di gruppo, dove naturalmente bisogna attentamente sorvegliare chi ci vive, quali misure e condizioni aggiuntive sono utili o quale tipo di cura e supervisione si rendono necessarie.
quali sono i princìpi fondamentali che dovrebbero guidare in futuro la gestione di coloro che hanno violato le leggi?
un giovane ruba la borsa a una signora. il nostro primo impulso è: deve essere punito. la domanda successiva però dovrebbe essere: che scopo vogliamo raggiungere? l'idea della punizione e la sete di giustizia sono dentro di noi e non dobbiamo vergognarci del nostro impulso di vendetta. dobbiamo però iniziare a riflettere su questo primo impulso. allora percorsi nuovi e più sensati si apriranno quasi da soli.
(traduzione dal tedesco di cinzia sciuto).
note.
[1] in germania viaggiare senza regolare titolo di viaggio è un reato penale punibile con una multa o con la reclusione fino a un anno, n.d.t.
[2] la nationalsozialistische untergrund (nsu) era un'organizzazione terroristica neonazista tedesca che intorno al 1999 si è resa responsabile di di diversi omicidi a sfondo razziale, n.d.t.
la sardegna come il vietnam | elena camino.
leucemie di guerra 14 luglio 2020.
un tema interessante e complesso.
mi è capitato di recente di scambiare idee e documenti con alcuni amici e amiche sulla ‘questione sardegna’: di cosa si tratta, almeno per quanto riguarda la nostra conversazione? c’era l’ipotesi di dare una mano a un giovane, laureato in scienze della natura, per svolgere una ricerca sulla situazione socio-ambientale dell’isola conseguente alla presenza dell’apparato militare. pensavamo di poter offrire qualche spunto utile a delineare il contesto generale in cui nel tempo si è sviluppata e consolidata l’occupazione militare (italiana e internazionale), e offrire piste di ricerca e proposte operative per una trasformazione delle attività, dei soggetti, delle finalità d’uso di questo straordinario territorio in una prospettiva nonviolenta.
disponevamo di una vasta documentazione sull’uso dei poligoni di tiro, le associate restrizioni all’uso del territorio, le conseguenze sanitarie e ambientali delle esercitazioni militari; avevamo informazioni sulle produzioni belliche nella sede distaccata della fabbrica tedesca rwm. molto interessante era anche la documentazione di iniziative messe in campo nel settore agricolo, artigianale ed educativo come proposte alternative, nonviolente, orientate a una trasformazione sociale, culturale e ambientale dell’isola.
il tema è apparso ben presto troppo complesso da affrontare nell’ambito di una tesi, e da parte di una persona sola. quindi l’ipotesi di sviluppare una ricerca sulla militarizzazione della sardegna e sulle prospettive di riconversione in chiave nonviolenta, è stato – almeno per ora – rimandato. ma resta elevato l’interesse, e chissà che in futuro non si riesca a costituire un gruppo di ricerca che possa approfondire la questione, che – pur essendo geograficamente collocata nell’isola – ha tuttavia implicazioni globali e riveste un forte significato simbolico.
una lunga storia tragica e negata.
ai problemi legati alla militarizzazione della sardegna ha dato spesso voce il centro studi sereno regis, che ha ospitato nel sito numerose testimonianze negli anni, e ha di recente ri-pubblicato – in due puntate – un’indagine a firma di walter falgio, giornalista professionista e ricercatore in storia moderna e contemporanea, ricca di segnalazioni di letture:
a foras. l’isola dei militari. una prima indagine sull’antimilitarismo in sardegna dagli anni sessanta all’attualità (prima parte);
a foras. il male invisibile. una prima indagine sull’antimilitarismo in sardegna dagli anni sessanta all’attualità (seconda parte).
sul sito del cssr si trovano anche informazioni sul ‘caso rwm’, l’industria controllata dalla tedesca rheinmetall defence, che produce armamenti in territorio sardo, e la cui attività è oggetto di controversie tra diversi soggetti: i comuni, la regione e il comitato per la riconversione.
sono ormai numerosissimi i documenti, le denunce, le commissioni di inchiesta che denunciano l’insostenibile carico sociale, economico, sanitario e ambientale esercitato – direttamente o indirettamente – dalla militarizzazione della sardegna. sono inoltre molti i libri – spesso studi di caso e testimonianze personali – ambientati nello scenario della situazione ‘militare’ dell’isola: romanzi, testimonianze, pubblicazioni di indagini. ne cito solo alcuni:
perdas de fogu, di massimo carlotto, edizioni e/o, 2008.
servitù militari in sardegna. il caso teulada, di guido floris e angelo ledda, edizioni la collina, 2010. veleni in paradiso. la sindrome di quirra e le polveri di morte che minacciano la sardegna, di ottavio pirelli, castelvecchi, 2011.
silenzio di piombo. poligoni e veleni in sardegna, di mariangela maturi, round robin editrice, 2016. due realtà?
20 marzo 2019. due militari sardi, in servizio a cagliari e teulada, si sono ammalati a causa dell’esposizione all’uranio impoverito nel corso delle missioni di pace all’estero e delle esercitazioni nei poligoni di quirra e teulada. e per questo devono essere risarciti dallo stato. lo afferma una sentenza del tar di cagliari al quale i due soldati si erano rivolti per avere giustizia in quando le commissioni mediche militari avevano sempre negato il rapporto diretto tra esposizione alle polveri della guerra causate dai proiettili all’uranio impoverito e l’insorgenza delle loro patologie tumorali.
14 giugno 2020. firmato il protocollo d’intesa tra l’esercito e il comune. aperti al pubblico alcuni degli arenili dell’area militare. quest’anno le spiagge di s’ortixeddu e una parte della spiaggia is arenas biancas, entrambe comprese all’interno del poligono militare di teulada, saranno accessibili alla balneazione. le attività di addestramento militare lasceranno temporaneamente spazio ai turisti.
convivono attualmente due realtà: quella secondo la quale la presenza militare in sardegna (e più in generale in italia) è necessaria alla sicurezza e agli equilibri geopolitici, e l’uso del territorio per attività di guerra (fabbricazione di armi, esercitazioni di soldati, test per saggiare l’efficacia di nuovi sistemi d’arma) è indispensabile per il buon funzionamento e la modernizzazione del sistema di difesa nazionale. in questa realtà si offrono modeste
..segue ./.
Segue da Pag.37: Aboliamo il carcere! E costruiamo un sistema penale più giusto e utile
Come? Nel libro suggerisco che naturalmente devono continuare a essere i pubblici ministeri a condurre le indagini e i giudici a emettere le sentenze. Ma queste sentenze devono stabilire solo il grado di ingiustizia commessa. Dopo dovrebbe aprirsi un'ampia gamma di possibili conseguenze giuridiche. Si dovrebbe istituire un organismo che non applichi automaticamente una pena detentiva, ma che si orienti individualmente sia rispetto alle vittime sia rispetto al condannato, in modo da comminargli una pena sensata, che lo induca a non reiterare il reato. In questo modo sarebbe possibile prendere decisioni più giuste nei singoli casi. Nel caso di George Floyd, per esempio, il tribunale dovrebbe stabilire se si sia trattato di omicidio volontario o colposo. Ma a quali conseguenze giuridiche deve andare incontro il poliziotto è un'altra questione e dovrebbe essere legata anche cosa si auspicano i parenti delle vittime. Insomma, come società dovremmo focalizzarci più sulla responsabilità che sulla colpa: è questo che intende? L'attuale sistema ruota attorno al principio colpa/ritorsione. Il tribunale stabilisce quanto grave è la colpa di cui qualcuno si è macchiato e calcola una pena detentiva. Si tratta, se ci pensiamo bene, di una forma giuridicamente regolata di vendetta. Ma dovremmo chiederci: quali obiettivi raggiungiamo e quali non raggiungiamo in questo modo? Io penso che l'autore di un reato debba assumersi la responsabilità dei danni che ha causato sia alle vittime sia alla società in generale. Naturalmente questo non può accadere sempre al 100%: chi ha ucciso un altro essere umano non potrà mai riportarlo in vita. Ma direi che in tutti i casi è possibile riparare almeno una parte dei danni e quindi ottenere un effetto riparativo per le vittime e i loro parenti. Cosa osta a una simile soluzione? Il nostro attuale sistema non incoraggia quasi per nulla l'assunzione di responsabilità e anzi talvolta lo ostacola attivamente, come nel caso di uno dei condannati per gli omicidi della NSU[2]. Si tratta di un uomo che aveva fornito le armi per i delitti e che in tribunale si è mostrato sinceramente pentito. Molti gli hanno creduto, compresa la figlia di una delle vittime, che ha chiesto espressamente che l'uomo non fosse messo in carcere, ma che invece fosse mandato nelle scuole per informare i ragazzi dei pericoli dell'estremismo di destra. Eppure è stato condannato al carcere. È solo un esempio, che però mostra che il sistema per come lo consociamo oggi spesso non è di aiuto neanche alle vittime, nonostante dovrebbe essere proprio questa la sua ragion d'essere. L'attuale sistema ha un che di meccanico: un reato viene “tradotto” in una precisa pena. Questo meccanismo rende anche possibile il fatto che noi come società non dobbiamo più occuparcene. In questo modo ci sottraiamo alla nostra responsabilità rispetto alle condizioni che conducono alla perpetrazione di reati? Assolutamente sì. Il principio di responsabilità vale sia per la società in generale sia ciascuno di noi individualmente. Non dico certo che chiunque commetta un reato lo fa perché ha avuto un'infanzia difficile, ma è innegabile che ogni reato ha delle cause sociali. Non facciamo altro che ignorarle, mostrando di non essere all'altezza della nostra responsabilità di affrontarli coerentemente. Ho lavorato nelle carceri per 15 anni e ho avuto contatti intensi con qualche migliaio di detenuti, ho conosciuto i loro delitti e ho anche conosciuto un po' loro come persone. Posso dire che fra di loro non ce n'è neanche una per la quale si possa dire che il reato è arrivato dal nulla. Tutti avevano un percorso personale molto problematico. Il che naturalmente non significa che questo li assolve dalle loro responsabilità nel momento in cui causano danni ad altre persone. Ma deve condurci a trattare ogni reato anche come sintomo di un problema sociale. Come richiesta d'aiuto o come campanello d'allarme che ci faccia guardare più da vicino. Tutto questo accade molto di rado, il che ha anche a che fare con il nostro concetto di colpa che presuppone l'idea che si tratti sempre di una decisione più o meno libera dell'autore del reato. Così però ci rendiamo la cosa troppo facile... C'è un passaggio del suo libro che mi ha molto sorpreso. Lei scrive: “L'essere umano non è fondamentalmente cattivo, anzi tendenzialmente è al fondo piuttosto buono”. Ma allo stesso tempo non nega che esistono anche persone che compiono violenze o addirittura omicidi in modo del tutto sadico. E allora, come mai questa affermazione? Non è detto che in prigione che si incontrino persone peggiori di quelle che stanno fuori. Si incontrano persone che non hanno saputo rispettare le regole, che magari per altri sono più facili da rispettare. Naturalmente si incontrano anche persone che hanno fatto del male ad altri. Ma sono davvero pochi quelli per i quali io mi sono detto: di questa persona non possiamo fidarci. Tutti gli altri sono persone normali, con sentimenti e bisogni umani, con le quali si può parlare e incontrarsi umanamente. Non ricordo davvero neanche un caso in cui io sia stato profondamente deluso da un detenuto. La prigione non mi ha lasciato un'immagine negativa dell'umanità. La ricerca criminologica conferma che nessuno nasce “cattivo”. Ogni persona è capace di amare, prova empatia e vuole andare d'accordo con gli altri. Le strutture sociali devono essere tali da promuovere il meglio in ciascuno di noi fin dall'infanzia. Lei auspica soluzioni e misure individuali, che tengano conto al meglio degli interessi di tutti i soggetti coinvolti: vittime, autori dei reati, società. Come dovrebbe funzionare nella pratica? Il nostro diritto penale attualmente contiene tutta una serie di reati minori, come il furto, che non necessariamente devono rientrare nel suo ambito. Non si tratta naturalmente di legalizzarli, ma di trasformarli in reati amministrativi. Già solo con questa misura avremmo a disposizione molto più personale. Diversi sondaggi rivelano che la popolazione non ha nessun interesse a che, per esempio, chi ha viaggiato senza biglietto finisca in prigione, mentre preferirebbe di gran lunga che queste persone fossero destinate a lavori socialmente utili per riparare i danni. La maggior parte della popolazione è molto più avanti del sistema giudiziario. Io propongo di istituire degli organismi che si occupino delle dispute dopo il processo giudiziario. Questi organismi dovrebbero essere composti da personale che già lavora nel sistema penale, non ci sarebbero costi aggiuntivi. Anzi, si potrebbe anche risparmiare se ci si potesse concentrare solo sui delitti più gravi. Lei vorrebbe che in questi organismi abbiano voce non solo gli esperti ma anche “normali” cittadini: perché? Solo se le persone si trovano faccia a faccia con chi ha commesso un reato e le loro vittime possono davvero percepire il peso delle cause sociali nella commissione dei reati. Se in questi organismi riuscissimo a portare due persone della cerchia della vittima e due della cerchia dell'autore del reato, potrebbero aprirsi nuove prospettive. Per esempio potrebbe emergere che in un certo quartiere vengono perpetrati sempre gli stessi reati. E magari anche che nello stesso quartiere il tasso di disoccupazione è molto alto come anche quello delle madri single. Allora forse si comincerebbe a ragionare su cosa si può fare in quei quartieri con i ragazzi, per esempio. Quella che lei descrive è nota come “giustizia riparativa”: ci sono già casi concreti di applicazione? Anche nel nostro attuale ordinamento ci sono anche elementi di giustizia riparativa, penso per esempio all'istituto della mediazione. Ma non ne è il perno. Viene utilizzata più spesso quando si tratta di minori, quando per esempio la sentenza tiene conto del fatto che siano state pagate o meno piccole somme di denaro alla vittima in via riparativa. Per gli adulti invece non vi si ricorre quasi mai e soprattutto per i delitti più gravi non gioca praticamente nessun ruolo. In Brasile c'è un sistema di carceri, riconosciute dallo Stato, gestite dall'APAC, un'associazione di ispirazione cristiana per la protezione e l’assistenza ai condannati. Un punto centrale di questo sistema è il confronto fra detenuti e vittime, se queste lo desiderano. Ma anche lì il concetto di giustizia riparativa non ha completamente modificato né tantomeno sostituito il sistema penale. Lei vuole abolire il carcere: è consapevole che un simile auspicio mette paura alla maggior parte delle persone? A me pare in realtà che negli ultimi anni questa paura sia sensibilmente diminuita, almeno nella misura in cui mi è stata comunicata. Probabilmente perché il tema ha iniziato a essere affrontato in maniera più approfondita e differenziata anche nei media. Fino a pochi anni fa, dopo ogni dibattito pubblico a cui partecipavo ricevevo regolarmente diverse lettere dalle vittime, per esempio di stupro, che mi comunicavano di vivere le mie tesi come uno schiaffo. In questi casi io mi sono sempre confrontato personalmente con le vittime e ho ascoltato cosa provavano e cosa auspicavano. Le vittime vogliono innanzitutto essere protette per tutta la vita dal colpevole, il che è del tutto comprensibile. Le vittime di reati sessuali non vogliono mai più rivedere i loro carnefici e vogliono anche che questi ultimi non facciano ad altre quello che hanno subito loro. Attualmente però le cose stanno così: che dopo un certo periodo di tempo il colpevole viene rilasciato e torna a commettere reati. Le vittime non hanno tanto il bisogno di infliggere un male sproporzionato ai colpevoli, quanto piuttosto quello di ridurre al minimo la reiterazione dei reati. Attualmente abbiamo una sola risposta a un reato: prigione. Finché sarà così, naturalmente capisco che la mia richiesta di abolire il carcere possa ferire e offendere le vittime. Sulla base della mia esperienza però posso dire che questo atteggiamento cambia non appena sono messe sul tappeto delle |
alternative.
Lei stesso ha affermato che i reati non vengono dal nulla. Non è sensato allora che i colpevoli anche grazie a una pena detentiva vengano allontanati dal loro contesto? Naturalmente ha senso allontanare le persone da un ambiente dove, per esempio, circola molta droga. O, a tutela delle vittime, allontanare dalle case persone che esercitano violenza domestica. Ma l'altra metà della verità che viene nascosta sotto il tavolo dalla giustizia è che queste persone vengono allontanate dal loro ambiente per essere inserite in un contesto molto più criminogeno, con un grande mercato di droga, nel quale essi vengono a contatto con altri colpevoli di altri reati. Non ha nessun senso allontanare le persone dal proprio contesto per portarle in uno ancora più distruttivo. Dobbiamo riuscire ad agire in maniera più individuale. Il monitoraggio elettronico della residenza, che consente ai condannati di rimanere nella propria abitazione a determinate condizioni e di lasciarla solo per andare a lavoro o non di non lasciarla affatto, può essere una utile misura. Se per qualunque ragione non appare ragionevole che il condannato rimanga a casa sua, si potrebbe pensare a delle comunità residenziali di gruppo, dove naturalmente bisogna attentamente sorvegliare chi ci vive, quali misure e condizioni aggiuntive sono utili o quale tipo di cura e supervisione si rendono necessarie. Quali sono i princìpi fondamentali che dovrebbero guidare in futuro la gestione di coloro che hanno violato le leggi? Un giovane ruba la borsa a una signora. Il nostro primo impulso è: deve essere punito. La domanda successiva però dovrebbe essere: che scopo vogliamo raggiungere? L'idea della punizione e la sete di giustizia sono dentro di noi e non dobbiamo vergognarci del nostro impulso di vendetta. Dobbiamo però iniziare a riflettere su questo primo impulso. Allora percorsi nuovi e più sensati si apriranno quasi da soli. (traduzione dal tedesco di Cinzia Sciuto) NOTE [1] In Germania viaggiare senza regolare titolo di viaggio è un reato penale punibile con una multa o con la reclusione fino a un anno, n.d.t. [2] La Nationalsozialistische Untergrund (NSU) era un'organizzazione terroristica neonazista tedesca che intorno al 1999 si è resa responsabile di di diversi omicidi a sfondo razziale, n.d.t. La Sardegna come il Vietnam | Elena CaminoLEUCEMIE DI GUERRA 14 Luglio 2020![]() Un tema interessante e complesso Mi è capitato di recente di scambiare idee e documenti con alcuni amici e amiche sulla ‘questione Sardegna’: di cosa si tratta, almeno per quanto riguarda la nostra conversazione? C’era l’ipotesi di dare una mano a un giovane, laureato in Scienze della Natura, per svolgere una ricerca sulla situazione socio-ambientale dell’isola conseguente alla presenza dell’apparato militare. Pensavamo di poter offrire qualche spunto utile a delineare il contesto generale in cui nel tempo si è sviluppata e consolidata l’occupazione militare (italiana e internazionale), e offrire piste di ricerca e proposte operative per una trasformazione delle attività, dei soggetti, delle finalità d’uso di questo straordinario territorio in una prospettiva nonviolenta. Disponevamo di una vasta documentazione sull’uso dei poligoni di tiro, le associate restrizioni all’uso del territorio, le conseguenze sanitarie e ambientali delle esercitazioni militari; avevamo informazioni sulle produzioni belliche nella sede distaccata della fabbrica tedesca RWM. Molto interessante era anche la documentazione di iniziative messe in campo nel settore agricolo, artigianale ed educativo come proposte alternative, nonviolente, orientate a una trasformazione sociale, culturale e ambientale dell’isola. Il tema è apparso ben presto troppo complesso da affrontare nell’ambito di una tesi, e da parte di una persona sola. Quindi l’ipotesi di sviluppare una ricerca sulla militarizzazione della Sardegna e sulle prospettive di riconversione in chiave nonviolenta, è stato – almeno per ora – rimandato. Ma resta elevato l’interesse, e chissà che in futuro non si riesca a costituire un gruppo di ricerca che possa approfondire la questione, che – pur essendo geograficamente collocata nell’isola – ha tuttavia implicazioni globali e riveste un forte significato simbolico. Una lunga storia tragica e negata Ai problemi legati alla militarizzazione della Sardegna ha dato spesso voce il Centro Studi Sereno Regis, che ha ospitato nel sito numerose testimonianze negli anni, e ha di recente ri-pubblicato – in due puntate – un’indagine a firma di Walter Falgio, giornalista professionista e ricercatore in Storia Moderna e Contemporanea, ricca di segnalazioni di letture: A foras. L’isola dei militari. Una prima indagine sull’antimilitarismo in Sardegna dagli anni sessanta all’attualità (prima parte); A foras. Il male invisibile. Una prima indagine sull’antimilitarismo in Sardegna dagli anni sessanta all’attualità (seconda parte). Sul sito del CSSR si trovano anche informazioni sul ‘caso RWM’, l’industria controllata dalla tedesca Rheinmetall Defence, che produce armamenti in territorio sardo, e la cui attività è oggetto di controversie tra diversi soggetti: i comuni, la regione e il Comitato per la Riconversione. Sono ormai numerosissimi i documenti, le denunce, le commissioni di inchiesta che denunciano l’insostenibile carico sociale, economico, sanitario e ambientale esercitato – direttamente o indirettamente – dalla militarizzazione della Sardegna. Sono inoltre molti i libri – spesso studi di caso e testimonianze personali – ambientati nello scenario della situazione ‘militare’ dell’isola: romanzi, testimonianze, pubblicazioni di indagini. Ne cito solo alcuni: Perdas de fogu, di Massimo Carlotto, Edizioni e/o, 2008. Servitù militari in Sardegna. Il caso Teulada, di Guido Floris e Angelo Ledda, Edizioni La collina, 2010. Veleni in paradiso. La sindrome di Quirra e le polveri di morte che minacciano la Sardegna, di Ottavio Pirelli, Castelvecchi, 2011. Silenzio di piombo. Poligoni e veleni in Sardegna, di Mariangela Maturi, Round Robin Editrice, 2016. Due realtà? 20 marzo 2019. Due militari sardi, in servizio a Cagliari e Teulada, si sono ammalati a causa dell’esposizione all’uranio impoverito nel corso delle missioni di pace all’estero e delle esercitazioni nei poligoni di Quirra e Teulada. E per questo devono essere risarciti dallo Stato. Lo afferma una sentenza del TAR di Cagliari al quale i due soldati si erano rivolti per avere giustizia in quando le commissioni mediche militari avevano sempre negato il rapporto diretto tra esposizione alle polveri della guerra causate dai proiettili all’uranio impoverito e l’insorgenza delle loro patologie tumorali. 14 giugno 2020. Firmato il protocollo d’intesa tra l’esercito e il Comune. Aperti al pubblico alcuni degli arenili dell’area militare. Quest’anno le spiagge di s’Ortixeddu e una parte della spiaggia Is Arenas Biancas, entrambe comprese all’interno del Poligono militare di Teulada, saranno accessibili alla balneazione. Le attività di addestramento militare lasceranno temporaneamente spazio ai turisti. Convivono attualmente due realtà: quella secondo la quale la presenza militare in Sardegna (e più in generale in Italia) è necessaria alla sicurezza e agli equilibri geopolitici, e l’uso del territorio per attività di guerra (fabbricazione di armi, esercitazioni di soldati, test per saggiare l’efficacia di nuovi sistemi d’arma) è indispensabile per il buon funzionamento e la modernizzazione del sistema di difesa nazionale. In questa realtà si offrono modeste ..segue ./.
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