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La VOCE ANNO XXII N°7

marzo 2003

PAGINA 7

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segue da pag.6: mafia, gratteri: salto di qualità grazie ai rapporti con il potere. mafia calabrese di entrare a far parte del mercato internazionale, in cui i più grandi produttori di cocaina allo stato naturale, sono colombia, bolivia e perù. il procuratore ha quindi sottolineato che “la 'ndrangheta acquista tutto ciò che è in vendita sul mercato per imporre il prezzo. se intervenisse l'onu, si potrebbe trattare direttamente con i coltivatori di piante di coca facendo la conversione delle culture, attraverso specifici incentivi. si spenderebbe meno di un sesto di quanto adesso sta costando la lotta alla droga”. ed ha continuato dicendo che per questo motivo “è impossibile contrastare la marijuana, che si può coltivare dovunque, oppure le droghe sintetiche, che si realizzano in laboratorio e sono particolarmente dannose. negli stati uniti è ritornato preponderante il consumo di eroina, perché costa la metà della cocaina, e il fentanil, che sta decimando migliaia di giovani nei campus”. parlando poi della presenza sul nostro territorio delle mafie estere, come quella albanese o quella nigeriana, e della convivenza di quest’ultime con la mafia italiana, il procuratore ha evidenziato come "il pericolo della mafia albanese è in crescita nel nord italia, in olanda, in germania, in belgio ed è particolarmente forte perché non viene adeguatamente combattuta nei territori di origine. è presente anche in sud america, per ora insieme alla 'ndrangheta ma è anche in grado di organizzare viaggi autonomi in europa". la mafia nigeriana al momento è forte sul piano militare ma non è infiltrata con la politica e l’imprenditoria. contrasto organizzato a livello comunitario. infine il magistrato ha rimarcato la velocità di evoluzione e di trasformazione delle mafie, che costantemente cambiano la propria struttura sociale, rendendone molto più difficoltoso il contrasto. infatti gratteri, in riferimento ad una carenza di cooperazione delle attività di opposizione tra i paesi europei, ha chiarito come “l'italia ha maturato una particolare esperienza nella lotta alle mafie sia come legislazione che come professionalità ma nessuna delle agenzie europee di contrasto alla criminalità si trova nel nostro paese, segno della nostra debolezza sul piano internazionale. infatti, ad esempio, eurojust ed europol si trovano all’aja”. ed ha continuato affrontando il tema dell’omologazione dei codici, in vista di un contrasto organizzato a livello comunitario, sottolineando che “come base di partenza non si sceglie mai il nostro sistema giudiziario, pur se riconosciuto il più avanzato nel campo della legislazione antimafia. l'unificazione comunitaria dei codici non può infatti avvenire partendo magari dal sistema lettone”. giustizia, caselli: “la prescrizione? una patologia che nega elementari principi di equità e alimenta un doppio processo” lungaggini dibattimentali e procedure barocche hanno trasformato il processo in un percorso accidentato, pieno di ostacoli, insidie e cavilli, osserva il magistrato. un ‘brodo di coltura’ per avvocati spregiudicati, grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai. nel nostro sistema penale coesistono due distinti codici: uno per i ‘galantuomini’, l’altro per i cittadini comuni. intervista a gian carlo caselli di rossella guadagnini-(28 febbraio 2020). tutti i nodi vengono al pettine: quando c’è il pettine, chiosava con perfidia lapidaria leonardo sciascia, scrittore e formidabile ragionatore. da questione tecnica la prescrizione in italia è divenuta "una questione politica nel senso peggiore del termine, una rissa da stadio. si parla di orrore, catastrofe, follia, apocalisse, ergastolo permanente, bomba atomica, si arriva al tanto citato ‘vaffa’, si parla di ricatti... non è così". a sostenerlo è l'ex procuratore di palermo e di torino, gian carlo caselli a cui abbiamo chiesto di fare chiarezza su questo nodo gordiano della giustizia. prescrizione sì, prescrizione no, prescrizione forse: a che punto siamo? l’interruzione definitiva della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, la cosiddetta riforma bonafede, è legge dello stato dal 1 gennaio di quest’anno e quindi adesso è pienamente in vigore. all’interno del progetto di riforma del processo penale - approvato dal consiglio dei ministri nei giorni scorsi - è stato inserito un emendamento che, in sostanza, fa scattare la prescrizione definitiva soltanto dopo la sentenza di condanna di primo grado e non anche dopo quella di assoluzione. peraltro, modi e tempi dell’eventuale approvazione dell’emendamento sono tutti da stabilire. intanto, sulla riforma bonafede si sta scatenando una battaglia campale, con tentativi di cancellarla del tutto portati avanti dalla minoranza parlamentare, appoggiata in modo spregiudicato dal gruppo renziano. in ogni caso, la riforma bonafede ci avvicina agli altri paesi europei: il nostro, infatti, è l’unico - con la grecia - a non prevedere interruzioni definitive della prescrizione, ma soltanto sospensioni temporanee. lei l’ha paragonata a una patologia: in che senso? il combinato disposto delle lungaggini processuali, delle procedure barocche, dei troppi gradi di giudizio e dei costi elevati ha finito per fare del processo un percorso accidentato, pieno di ostacoli e trappole, infarcito di regole travestite da garanzie che, in realtà, sono insidie o cavilli: un brodo di coltura ideale per gli avvocati agguerriti, spregiudicati e costosi che puntano all’impunità, grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai. con il risultato che nel nostro sistema penale hanno finito per coesistere di due distinti codici. uno per i "galantuomini" (cioè le persone che appaiono, in base al censo o alla collocazione politico-sociale, per bene a prescindere...); l’altro per cittadini “comuni”. nel primo caso il processo mira soprattutto a che il tempo si sostituisca al giudice, vuoi con la prescrizione che inghiotte ogni cosa; vuoi - male che vada - ammorbidendone gli esiti con indulti, condoni, scudi e leggi ad personam assortite. nel secondo caso, invece, pur funzionando malamente, spesso il processo segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone. c’è dunque una specie di ‘doppio binario’ della giustizia? sta qui l’origine della patologia della prescrizione, perché - per come era congegnata prima della riforma - è stata (ed è storia anche degli ultimi 50 anni) al centro del sistema fondato su un doppio processo, fonte di ingiustizia e disuguaglianze che si risolvono nella negazione di elementari principi di equità. un sistema dove, in realtà, è la prescrizione infinita (senza mai uno stop definitivo) che contribuisce fortemente a far proseguire certi processi. ciò che, sul versante costituzionale della ragionevole durata, dovrebbe preoccupare anche quanti pongono il problema “a senso unico”, ossia guardando unicamente ai presunti effetti della riforma della prescrizione. mentre a indignare dovrebbe essere proprio il ‘doppio processo’, che costituisce di per sé un ossimoro costituzionale davvero insostenibile. e’ usata così largamente la prescrizione? la percentuale italiana di prescrizioni è del 10/11%, contro quella dello 0,1/2% degli agli altri paesi europei; a fronte - va sottolineato - di statistiche che collocano la magistratura italiana ai primi posti per produttività (altro che “fannulloni”…). significa che ovunque la prescrizione funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a trattare, mentre da noi ha finito per strutturarsi come fenomeno assolutamente patologico. nel senso che da misura circoscritta a pochi casi limite, è stata trasformata in una voragine che inghiotte senza ritorno processi in quantità enorme. sicché.
il sistema giustizia, in tutti questi casi, produce il suo esatto contrario: denegata giustizia per le vittime e verso i presunti responsabili. ciò accade, di solito, per i processi di maggior impatto politico-sociale: penso al disastro ferroviario di viareggio. la sua riforma è cosa da giustizialisti? la contrapposizione tra giustizialisti e garantisti è sempre più ridicola e strumentale. la praticano soprattutto coloro che si autoproclamano garantisti, spesso ignorando che il vero garantismo è veicolo di eguaglianza: non può essere degradato a strumento di sopraffazione e privilegio, con l’obiettivo di disarmare la magistratura di fronte al potere economico e politico, oppure di graduare le regole in base allo status sociale dell’imputato. quanto alla parola giustizialismo, pochi ricordano che essa non esisteva neppure nel lessico italiano, se non con riferimento... al peronismo. se non sbaglio fu giuliano ferrara a trasferirla ai problemi della giustizia, facendone una specie di cartellino rosso da brandire “a prescindere” (per squalificarlo) contro chi la pensa altrimenti. giustizialista - per i sedicenti garantisti – è, in sostanza, chi cerca soluzioni non di comodo, ma è animato dall’etica della responsabilità dei risultati nel rispetto delle regole. una diatriba che assomiglia a una scusa o, meglio, a un’accusa. sotto la contrapposizione fra garantismo e giustizialismo si nasconde, a mio avviso, il conflitto fra illogicità e buon senso. prendiamo il caso della polemica furibonda che - dopo quella sulla prescrizione - è scoppiata sull’uso delle intercettazioni. il problema era questo: se intercettando una persona per un reato se ne scopre un altro, la registrazione è utilizzabile anche per il nuovo reato oppure va cancellata? discutere sull’utilizzabilità, in un processo diverso, di prove riguardanti gravi reati legittimamente acquisite in un’altra inchiesta, si può anche fare, purché si sappia che l’alternativa è tra due comportamenti: il non trascurare nulla che serva all’accertamento della verità (il buon senso), oppure privilegiare formalismi e cavilli che della verità non si curano (l’illogicità). gli effetti della prescrizione saranno evidenti solo nel 2025: tanto rumore per nulla dunque? e’ proprio così: tanto rumore per nulla. le statistiche del ministero della giustizia del 2018 ci dicono che la prescrizione ha colpito 117.367 processi di cui 57.707 nelle fasi iniziali (pm, gip); 27.747 in primo grado; 2.250 davanti al giudice di pace; 29.216 in appello; 646 in cassazione. quindi, poiché la riforma bonafede si applica solo ai processi già conclusi in primo grado e tenuto conto che, in cassazione sono pochissimi i processi che si prescrivono (l’1,1 %), la riforma riguarderà il 26% circa dei processi prescritto. ossia appena il 3% dei processi trattati ogni anno. non propriamente una catastrofe che giustifichi i toni apocalittici dei profeti di sventura contrari al provvedimento. la riforma bonafede in effetti scontenta molti tra magistrati, avvocati e giuristi. a fronte dei due o tre (per altro autorevoli) che hanno fatto notizia in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, i magistrati scontenti sono ben pochi. gli avvocati, invece, quasi tutti e si capisce bene perché. ma se lo dici ti saltano addosso per lesa maestà. spesso si dimenticano i sondaggi, che valgono quello che sappiamo, ma in ogni caso concordano nel dire che i cittadini sono favorevoli alla riforma bonafede. e qualcosa, anche questo dato, vorrà pur dire. quale strada le appare più percorribile? occorre - come dicevo al principio - restare, realisticamente ancorati ai profili tecnici dei problemi della prescrizione e delle intercettazioni. lasciamo da parte slogan ed esagerazioni propagandistiche messe in campo contro chi ha opinioni diverse, leggiadramente etichettato come ‘forcaiolo’ o ‘manettaro’; al punto che ‘giustizialista’ appare ormai appellativo perfino garbato. e l’europa ci approva… sì, una conferma ulteriore viene ora dal “rapporto sull’italia” di approvazione recentissima da parte della commissione europea, dove si legge che la riforma della prescrizione è “benvenuta” anche perché “in linea con una raccomandazione specifica” formulata al nostro paese, che l’europa aveva fatto a suo tempo. la commissione esprime un giudizio favorevole anche sulla “spazza-corrotti” e sulla lotta alla corruzione che “sta migliorando”. seppure non faccia sconti - sia sul piano civile, che penale - circa la lunghezza del contenzioso e l’efficienza del processo, soprattutto nel grado di appello. e fornisce una serie di direttive assimilabili, in buona parte, al “disegno di legge recante deleghe al governo per l’efficienza del processo penale”. tutti i modi dunque vengono al pettine, per parafrasare sciascia. e il pettine, a quanto pare, stavolta c’è. mappe e percorsi per abitare la complessità. di luigi somma. quali sono le conseguenze sociali, etiche ed epistemologiche delle trasformazioni tecnologiche in corso? in "dentro la società interconnessa. la cultura della complessità per abitare i confini e le tensioni della civiltà ipertecnologica" (francoangeli, 2019) piero dominici ne esplora alcune, lavorando sul tema della società interconnessa. il volume “dentro la società interconnessa”[1] di piero dominici[2] si muove all’interno di una sterminata selva di ricerche, di studi e teorie[3], nel tentativo, in primo luogo, di continuare a promuovere, in studi e ricerche, l’approccio sistemico alla complessità in settori nevralgici come quelli dell’educazione e della comunicazione e, in secondo luogo, di ricercare una via mediana che tenga a distanza le polarizzazioni presenti, non soltanto nel dibattito pubblico, bensì anche in certa letteratura scientifica. il riferimento è alla tradizionale contrapposizione tra “apocalittici” e “integrati”, tra tecno-scettici e tecno-entusiasti che, non soltanto in passato, ha segnato la riflessione sulla società di massa e che, attualmente, caratterizza studi e ricerche sulla cd. rivoluzione digitale: due visioni opposte, apparentemente inconciliabili, della società, dell’interazione con le tecnologie, dei processi culturali e comunicativi, delle opportunità di emancipazione e cittadinanza. l’urgenza, per dirla con dominici, è anche quella di prendere consapevolezza della complessità del mutamento in atto, di cui “continuiamo a sottovalutare le implicazioni etiche ed epistemologiche”. a tal proposito, l’autore torna, più e più volte, sulle questioni della “trasformazione antropologica” e del cambio di paradigma, oltre che su quelle che definisce le grandi illusioni della civiltà ipertecnologica (razionalità, controllo, prevedibilità, misurabilità, eliminazione dell’errore): processi di evoluzione complessa che richiedono, non soltanto a parole, una “svolta radicale”, prima di tutto, dentro le istituzioni educative e formative. l’intero volume ruota, nelle intenzioni dell’autore, intorno alla seguente presa d’atto: «…in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche e, attraverso le nuove tecnologie della comunicazione, si è realizzato un complesso processo di evoluzione (non lineare) dell’individuo, che ha modificato la natura dell’agire umano e che ha mutato i suoi modi di conoscere la realtà, di adattarcisi e risolverne i problemi. gli esseri umani, in altre parole, si stanno progressivamente impossessando delle “leve” della propria evoluzione, mettendosi sempre più in condizione di determinare ciò che, di volta in volta, e nel corso dei tempi, è stato chiamato/definito caso, probabilità, destino»[4]. tra le varie questioni affrontate, si tratta, anzitutto, di risolvere un vecchio, e insuperato, quesito metodologico: tanto per rievocare la celebre distinzione weberiana tra fatti e valori, ciò equivale a spostarsi da un piano meramente ..segue ./.
Segue da Pag.6: Mafia, Gratteri: salto di qualità grazie ai rapporti con il potere

mafia calabrese di entrare a far parte del mercato internazionale, in cui i più grandi produttori di cocaina allo stato naturale, sono Colombia, Bolivia e Perù. Il Procuratore ha quindi sottolineato che “la 'Ndrangheta acquista tutto ciò che è in vendita sul mercato per imporre il prezzo. Se intervenisse l'Onu, si potrebbe trattare direttamente con i coltivatori di piante di coca facendo la conversione delle culture, attraverso specifici incentivi. Si spenderebbe meno di un sesto di quanto adesso sta costando la lotta alla droga”. Ed ha continuato dicendo che per questo motivo “è impossibile contrastare la marijuana, che si può coltivare dovunque, oppure le droghe sintetiche, che si realizzano in laboratorio e sono particolarmente dannose. Negli Stati Uniti è ritornato preponderante il consumo di eroina, perché costa la metà della cocaina, e il fentanil, che sta decimando migliaia di giovani nei campus”.

Parlando poi della presenza sul nostro territorio delle mafie estere, come quella albanese o quella nigeriana, e della convivenza di quest’ultime con la mafia italiana, il Procuratore ha evidenziato come "il pericolo della mafia albanese è in crescita nel Nord Italia, in Olanda, in Germania, in Belgio ed è particolarmente forte perché non viene adeguatamente combattuta nei territori di origine. È presente anche in Sud America, per ora insieme alla 'Ndrangheta ma è anche in grado di organizzare viaggi autonomi in Europa". La mafia nigeriana al momento è forte sul piano militare ma non è infiltrata con la politica e l’imprenditoria.

Contrasto organizzato a livello comunitario

Infine il magistrato ha rimarcato la velocità di evoluzione e di trasformazione delle mafie, che costantemente cambiano la propria struttura sociale, rendendone molto più difficoltoso il contrasto. Infatti Gratteri, in riferimento ad una carenza di cooperazione delle attività di opposizione tra i paesi europei, ha chiarito come “l'Italia ha maturato una particolare esperienza nella lotta alle mafie sia come legislazione che come professionalità ma nessuna delle agenzie europee di contrasto alla criminalità si trova nel nostro Paese, segno della nostra debolezza sul piano internazionale. Infatti, ad esempio, Eurojust ed Europol si trovano all’Aja”. Ed ha continuato affrontando il tema dell’omologazione dei codici, in vista di un contrasto organizzato a livello comunitario, sottolineando che “come base di partenza non si sceglie mai il nostro sistema giudiziario, pur se riconosciuto il più avanzato nel campo della legislazione antimafia. L'unificazione comunitaria dei codici non può infatti avvenire partendo magari dal sistema lettone”.

Giustizia, Caselli: “La prescrizione? Una patologia che nega elementari principi di equità e alimenta un doppio processo”



Lungaggini dibattimentali e procedure barocche hanno trasformato il processo in un percorso accidentato, pieno di ostacoli, insidie e cavilli, osserva il magistrato. Un ‘brodo di coltura’ per avvocati spregiudicati, grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai. Nel nostro sistema penale coesistono due distinti codici: uno per i ‘galantuomini’, l’altro per i cittadini comuni.

intervista a Gian Carlo Caselli di Rossella Guadagnini-(28 febbraio 2020)

Tutti i nodi vengono al pettine: quando c’è il pettine, chiosava con perfidia lapidaria Leonardo Sciascia, scrittore e formidabile ragionatore. Da questione tecnica la prescrizione in Italia è divenuta "una questione politica nel senso peggiore del termine, una rissa da stadio. Si parla di orrore, catastrofe, follia, apocalisse, ergastolo permanente, bomba atomica, si arriva al tanto citato ‘vaffa’, si parla di ricatti... Non è così". A sostenerlo è l'ex procuratore di Palermo e di Torino, Gian Carlo Caselli a cui abbiamo chiesto di fare chiarezza su questo nodo gordiano della giustizia.

Prescrizione sì, prescrizione no, prescrizione forse: a che punto siamo?

L’interruzione definitiva della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, la cosiddetta riforma Bonafede, è legge dello Stato dal 1 gennaio di quest’anno e quindi adesso è pienamente in vigore. All’interno del progetto di riforma del processo penale - approvato dal Consiglio dei Ministri nei giorni scorsi - è stato inserito un emendamento che, in sostanza, fa scattare la prescrizione definitiva soltanto dopo la sentenza di condanna di primo grado e non anche dopo quella di assoluzione. Peraltro, modi e tempi dell’eventuale approvazione dell’emendamento sono tutti da stabilire. Intanto, sulla riforma Bonafede si sta scatenando una battaglia campale, con tentativi di cancellarla del tutto portati avanti dalla minoranza parlamentare, appoggiata in modo spregiudicato dal gruppo renziano. In ogni caso, la riforma Bonafede ci avvicina agli altri Paesi europei: il nostro, infatti, è l’unico - con la Grecia - a non prevedere interruzioni definitive della prescrizione, ma soltanto sospensioni temporanee.

Lei l’ha paragonata a una patologia: in che senso?

Il combinato disposto delle lungaggini processuali, delle procedure barocche, dei troppi gradi di giudizio e dei costi elevati ha finito per fare del processo un percorso accidentato, pieno di ostacoli e trappole, infarcito di regole travestite da garanzie che, in realtà, sono insidie o cavilli: un brodo di coltura ideale per gli avvocati agguerriti, spregiudicati e costosi che puntano all’impunità, grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai. Con il risultato che nel nostro sistema penale hanno finito per coesistere di due distinti codici. Uno per i "galantuomini" (cioè le persone che appaiono, in base al censo o alla collocazione politico-sociale, per bene a prescindere...); l’altro per cittadini “comuni”. Nel primo caso il processo mira soprattutto a che il tempo si sostituisca al giudice, vuoi con la prescrizione che inghiotte ogni cosa; vuoi - male che vada - ammorbidendone gli esiti con indulti, condoni, scudi e leggi ad personam assortite. Nel secondo caso, invece, pur funzionando malamente, spesso il processo segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone.

C’è dunque una specie di ‘doppio binario’ della giustizia?

Sta qui l’origine della patologia della prescrizione, perché - per come era congegnata prima della riforma - è stata (ed è storia anche degli ultimi 50 anni) al centro del sistema fondato su un doppio processo, fonte di ingiustizia e disuguaglianze che si risolvono nella negazione di elementari principi di equità. Un sistema dove, in realtà, è la prescrizione infinita (senza mai uno stop definitivo) che contribuisce fortemente a far proseguire certi processi. Ciò che, sul versante costituzionale della ragionevole durata, dovrebbe preoccupare anche quanti pongono il problema “a senso unico”, ossia guardando unicamente ai presunti effetti della riforma della prescrizione. Mentre a indignare dovrebbe essere proprio il ‘doppio processo’, che costituisce di per sé un ossimoro costituzionale davvero insostenibile.

E’ usata così largamente la prescrizione?

La percentuale italiana di prescrizioni è del 10/11%, contro quella dello 0,1/2% degli agli altri paesi europei; a fronte - va sottolineato - di statistiche che collocano la magistratura italiana ai primi posti per produttività (altro che “fannulloni”…). Significa che ovunque la prescrizione funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a trattare, mentre da noi ha finito per strutturarsi come fenomeno assolutamente patologico. Nel senso che da misura circoscritta a pochi casi limite, è stata trasformata in una voragine che inghiotte senza ritorno processi in quantità enorme. Sicché
il sistema giustizia, in tutti questi casi, produce il suo esatto contrario: denegata giustizia per le vittime e verso i presunti responsabili. Ciò accade, di solito, per i processi di maggior impatto politico-sociale: penso al disastro ferroviario di Viareggio.

La sua riforma è cosa da giustizialisti?

La contrapposizione tra giustizialisti e garantisti è sempre più ridicola e strumentale. La praticano soprattutto coloro che si autoproclamano garantisti, spesso ignorando che il vero garantismo è veicolo di eguaglianza: non può essere degradato a strumento di sopraffazione e privilegio, con l’obiettivo di disarmare la magistratura di fronte al potere economico e politico, oppure di graduare le regole in base allo status sociale dell’imputato. Quanto alla parola giustizialismo, pochi ricordano che essa non esisteva neppure nel lessico italiano, se non con riferimento... al peronismo. Se non sbaglio fu Giuliano Ferrara a trasferirla ai problemi della giustizia, facendone una specie di cartellino rosso da brandire “a prescindere” (per squalificarlo) contro chi la pensa altrimenti. Giustizialista - per i sedicenti garantisti – è, in sostanza, chi cerca soluzioni non di comodo, ma è animato dall’etica della responsabilità dei risultati nel rispetto delle regole.

Una diatriba che assomiglia a una scusa o, meglio, a un’accusa.

Sotto la contrapposizione fra garantismo e giustizialismo si nasconde, a mio avviso, il conflitto fra illogicità e buon senso. Prendiamo il caso della polemica furibonda che - dopo quella sulla prescrizione - è scoppiata sull’uso delle intercettazioni. Il problema era questo: se intercettando una persona per un reato se ne scopre un altro, la registrazione è utilizzabile anche per il nuovo reato oppure va cancellata? Discutere sull’utilizzabilità, in un processo diverso, di prove riguardanti gravi reati legittimamente acquisite in un’altra inchiesta, si può anche fare, purché si sappia che l’alternativa è tra due comportamenti: il non trascurare nulla che serva all’accertamento della verità (il buon senso), oppure privilegiare formalismi e cavilli che della verità non si curano (l’illogicità).

Gli effetti della prescrizione saranno evidenti solo nel 2025: tanto rumore per nulla dunque?

E’ proprio così: tanto rumore per nulla. Le statistiche del Ministero della Giustizia del 2018 ci dicono che la prescrizione ha colpito 117.367 processi di cui 57.707 nelle fasi iniziali (Pm, Gip); 27.747 in primo grado; 2.250 davanti al Giudice di pace; 29.216 in Appello; 646 in Cassazione. Quindi, poiché la riforma Bonafede si applica solo ai processi già conclusi in primo grado e tenuto conto che, in Cassazione sono pochissimi i processi che si prescrivono (l’1,1 %), la riforma riguarderà il 26% circa dei processi prescritto. Ossia appena il 3% dei processi trattati ogni anno. Non propriamente una catastrofe che giustifichi i toni apocalittici dei profeti di sventura contrari al provvedimento.

La riforma Bonafede in effetti scontenta molti tra magistrati, avvocati e giuristi.

A fronte dei due o tre (per altro autorevoli) che hanno fatto notizia in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario, i magistrati scontenti sono ben pochi. Gli avvocati, invece, quasi tutti e si capisce bene perché. Ma se lo dici ti saltano addosso per lesa maestà. Spesso si dimenticano i sondaggi, che valgono quello che sappiamo, ma in ogni caso concordano nel dire che i cittadini sono favorevoli alla riforma Bonafede. E qualcosa, anche questo dato, vorrà pur dire.

Quale strada le appare più percorribile?

Occorre - come dicevo al principio - restare, realisticamente ancorati ai profili tecnici dei problemi della prescrizione e delle intercettazioni. Lasciamo da parte slogan ed esagerazioni propagandistiche messe in campo contro chi ha opinioni diverse, leggiadramente etichettato come ‘forcaiolo’ o ‘manettaro’; al punto che ‘giustizialista’ appare ormai appellativo perfino garbato.

E l’Europa ci approva…

Sì, una conferma ulteriore viene ora dal “Rapporto sull’Italia” di approvazione recentissima da parte della Commissione Europea, dove si legge che la riforma della prescrizione è “benvenuta” anche perché “in linea con una raccomandazione specifica” formulata al nostro Paese, che l’Europa aveva fatto a suo tempo. La Commissione esprime un giudizio favorevole anche sulla “spazza-corrotti” e sulla lotta alla corruzione che “sta migliorando”. Seppure non faccia sconti - sia sul piano civile, che penale - circa la lunghezza del contenzioso e l’efficienza del processo, soprattutto nel grado di appello. E fornisce una serie di direttive assimilabili, in buona parte, al “disegno di legge recante deleghe al governo per l’efficienza del processo penale”.

Tutti i modi dunque vengono al pettine, per parafrasare Sciascia. E il pettine, a quanto pare, stavolta c’è.

Mappe e percorsi per abitare la complessità



di LUIGI SOMMA

Quali sono le conseguenze sociali, etiche ed epistemologiche delle trasformazioni tecnologiche in corso? In "Dentro la società interconnessa. La cultura della complessità per abitare i confini e le tensioni della civiltà ipertecnologica" (FrancoAngeli, 2019) Piero Dominici ne esplora alcune, lavorando sul tema della società interconnessa.

Il volume “Dentro la società interconnessa”[1] di Piero Dominici[2] si muove all’interno di una sterminata selva di ricerche, di studi e teorie[3], nel tentativo, in primo luogo, di continuare a promuovere, in studi e ricerche, l’approccio sistemico alla complessità in settori nevralgici come quelli dell’educazione e della comunicazione e, in secondo luogo, di ricercare una via mediana che tenga a distanza le polarizzazioni presenti, non soltanto nel dibattito pubblico, bensì anche in certa letteratura scientifica. Il riferimento è alla tradizionale contrapposizione tra “apocalittici” e “integrati”, tra tecno-scettici e tecno-entusiasti che, non soltanto in passato, ha segnato la riflessione sulla società di massa e che, attualmente, caratterizza studi e ricerche sulla cd. rivoluzione digitale: due visioni opposte, apparentemente inconciliabili, della società, dell’interazione con le tecnologie, dei processi culturali e comunicativi, delle opportunità di emancipazione e cittadinanza. L’urgenza, per dirla con Dominici, è anche quella di prendere consapevolezza della complessità del mutamento in atto, di cui “continuiamo a sottovalutare le implicazioni etiche ed epistemologiche”. A tal proposito, l’autore torna, più e più volte, sulle questioni della “trasformazione antropologica” e del cambio di paradigma, oltre che su quelle che definisce le grandi illusioni della civiltà ipertecnologica (razionalità, controllo, prevedibilità, misurabilità, eliminazione dell’errore): processi di evoluzione complessa che richiedono, non soltanto a parole, una “svolta radicale”, prima di tutto, dentro le istituzioni educative e formative. L’intero volume ruota, nelle intenzioni dell’autore, intorno alla seguente presa d’atto: «…in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche e, attraverso le nuove tecnologie della comunicazione, si è realizzato un complesso processo di evoluzione (non lineare) dell’individuo, che ha modificato la natura dell’agire umano e che ha mutato i suoi modi di conoscere la realtà, di adattarcisi e risolverne i problemi. Gli esseri umani, in altre parole, si stanno progressivamente impossessando delle “leve” della propria evoluzione, mettendosi sempre più in condizione di determinare ciò che, di volta in volta, e nel corso dei tempi, è stato chiamato/definito caso, probabilità, destino»[4]. Tra le varie questioni affrontate, si tratta, anzitutto, di risolvere un vecchio, e insuperato, quesito metodologico: tanto per rievocare la celebre distinzione weberiana tra fatti e valori, ciò equivale a spostarsi da un piano meramente
..segue ./.

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