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La VOCE 1911

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La VOCE ANNO XXII N°3

novembre 2019

PAGINA 7

segue da pag.6: il califfo: film cia tra fiction e realta'. nel luglio 2016 viene desecretata da wikileaks una mail del 2012 in cui la segretaria di stato hillary clinton scrive che, data la relazione iran-siria, «il rovesciamento di assad costituirebbe un immenso beneficio per israele, facendo diminuire il suo timore di perdere il monopolio nucleare». ciò spiega perché, nonostante gli usa e i loro alleati lancino nel 2014 la campagna militare contro l’isis, le forze dell’isis possono avanzare indisturbate in spazi aperti con lunghe colonne di automezzi armati. l’intervento militare russo nel 2015, a sostegno delle forze di damasco, rovescia le sorti del conflitto. scopo strategico di mosca è impedire la demolizione dello stato siriano, che provocherebbe un caos tipo quello libico, sfruttabile da usa e nato per attaccare l’iran e accerchiare la russia. gli stati uniti, spiazzati, continuano a giocare la carta della frammentazione della siria, sostenendo gli indipendentisti curdi, per poi abbandonarli per non perdere la turchia, avamposto nato nella regione. su questo sfondo si capisce perché al baghdadi, come bin laden (già alleato usa contro la russia nella guerra afghana), non poteva essere catturato per essere pubblicamente processato, ma doveva fisicamente sparire per far sparire le prove del suo reale ruolo nella strategia usa. per questo a trump è piaciuto tanto il film a lieto fine. consoli o vassalli? this is the question! di patrizia cecconi. il potere della carta stampata e, soprattutto, quello del più grande imbonitore del secolo, la tv, sulla formazione dell’opinione pubblica è fuori discussione. tuttavia, sottovalutare i social sarebbe un grosso errore e ormai ogni comunicatore, sia di professione che per passione, lo sa bene e sa che la “verità mediatica” può essere smentita solo grazie ad essi. il caso specifico che stiamo affrontando, e che abbiamo conosciuto, appunto, grazie ai social, riguarda la sistematica mancata tutela dei cittadini italiani di fronte all’arbitrio di uno stato straniero, quando questo stato è israele. così, per rimbalzi nella rete e non già grazie alla magica tv, capita di scoprire che in un’intervista rilasciata a 'fanpage.it' circa il respingimento di un ragazzo italiano alla frontiera israeliana, il console italiano a tel aviv, nicola manniello, dichiara candidamente e senza alcun percepibile disappunto, che la polizia di frontiera israeliana respinge ogni anno un alto numero di italiani e di questi una cinquantina sono solo quelli che si rivolgono al consolato pensando – ingenuamente – di poter essere tutelati. ma “la nostra rappresentanza diplomatica può ben poco di fronte a tali respingimenti “ dice il console e quindi aggiunge, come se la cosa fosse normale, che questo ragazzo non è un’eccezione e che “e’ capitato anche a politici, giornalisti o amministratori delegati…”. “certo, lo sappiamo che le persone fermate vengono messe in una saletta, una sorta di limbo, assieme ad altri che verranno respinti” e che gli interrogatori “possono essere anche lunghi, effettuati con modalità poco cortesi” e per questo “noi consigliamo sempre di visitare la pagina viaggiare sicuri disponibile sul sito del ministero degli esteri in cui ci sono tutte le informazioni utili”. con candore giustificazionista aggiunge che “israele è un paese che sconta delle particolari esigenze di sicurezza e va valutato in un quadro più amplio…. in alcune circostanze, i controlli possono includere lunghi interrogatori e perquisizioni e concludersi – per motivazioni anche non esplicitate all'interessato – con un diniego di ingresso nel paese” (cfr. www.fanpage.it/esteri/il-caso-khalid-18enne-italiano-respinto-da-israele-il-console-succede-a-50-italiani-ogni-anno/) tutto normale, no? e’ tutto così burocraticamente normale che il console manniello afferma di poter dire per esperienza diretta “che israele vuole risolvere quanto prima la pratica di espulsione proprio per evitare l’intervento delle ambasciate o l’accusa di violare i diritti umani”. il bravo console non aggiunge che israele li viola eccome i diritti umani, e non si accorge che le sue risposte danno l’impressione che sia più spinto a tutelare il paese in cui ha trovato lavoro, sebbene pagato dall’italia, che non i cittadini italiani discriminati proprio da quel paese che occupa militarmente la palestina e costringe chiunque a passare sotto le sue forche caudine avendo illegalmente chiuso ogni accesso libero. ma per lui è tutto così normale che specifica che “di solito per quanto riguarda gli italiani (respinti) sono attivisti di ong soprattutto quelle legate al movimento bds”. insomma il console sembra aver dimenticato la sua funzione di tutela dei suoi concittadini e sembra invece garbatamente intento a mantenere un rapporto di rispettosa accettazione degli abusi commessi dal paese in cui hanno sede i suoi uffici consolari. il tutto esposto con garbo – ovviamente – diplomatico, al punto che sembra impossibile porre israele di fronte alla gravità delle sue continue violazioni e dei suoi abusi, accettati come un vassallo accetterebbe i capricci del suo signore. neanche di fronte a un altro illecito, quello della non restituzione del bagaglio allo studente italiano espulso, il console mostra l’habitus di tutore dei cittadini del paese che avrebbe il compito di rappresentare e far rispettare, ma confida al suo intervistatore che “con khalid (il giovane respinto ndr) siamo stati in contatto per mesi dopo il suo ritorno in italia per cercare di risolvere il problema legato al bagaglio” e conclude con un consiglio che poco ha da spartire con la dignità e molto con l’accettazione di un potere considerato superiore, al quale ci si rivolge umilmente chiedendo clemenza e comprensione, ponendosi in stato di inferiorità e contando sulla benevolenza di chi elargisce favori a coloro che ne accettano la superiorità. col diritto non ha niente da spartire, mentre ha molto da condividere col vassallaggio che consente a israele di porsi uber alles rispetto a chiunque. il suggerimento del console manniello ne è inconfutabile prova. ecco le sue parole: “l’unico consiglio che mi sento di dargli (allo studente padovano) è di rivolgersi all'ambasciata israeliana in italia e sono sicuro che faranno il possibile per trovare una soluzione”. ma, ci chiediamo, l’italia è un paese sovrano o è un vassallo di israele e, di conseguenza, il console svolge correttamente il suo lavoro considerando normale che i cittadini italiani subiscano un trattamento del tutto opposto a quello riservato in italia ai cittadini israeliani, correttamente accolti e rispettati dalla nostra polizia di frontiera? ci piacerebbe che il console manniello desse la sua risposta alla luce di quella normalità che a noi sembra una mortificazione della nostra sovranità nazionale oltre che un abuso verso il giovane khalid e tutti gli altri che subiscono lo stesso trattamento. liberisti e rossobruni, i nemici interni alla sinistra. dagli eredi del blairismo ai sovranisti, un libro analizza (ammonendo del pericolo) chi si spaccia per progressista quando sposa valori di destra. certo, stona il popuslita laclau trattato come un fusaro qualsiasi. ma secondo l’autore, la sinistra per essere tale deve ricominciare a difendere i soggetti deboli della società rispolverando marx e la lotta di classe, “un concetto tutt’altro che superato”. di giacomo russo spena - (23 ottobre 2019). da un lato la destra becera e nazionalista, pericolosa ed estremista, che a suon di propaganda parla alla pancia del paese foraggiando disvalori e guerra tra poveri. la destra di matteo salvini e giorgia meloni che sabato, a roma, hanno palesato il loro orgoglio italiano blaterando di sostituzione etnica, “dio patria e famiglia”, lotta alla droga con “armi in strada” ed elogiando il discutibile viktor orban, presidente dell’ungheria. dall’altro lato – come argine? – si configura l’attuale governicchio: un progetto in fieri dove i presagi non sono incoraggianti. dopo il ribaltone agostano, o meglio l'harakiri di salvini, il conte 2 si delinea come una coalizione tra diversi tenuta insieme più dal pericolo per le urne che da un programma progressista condiviso. il nuovo partito di renzi e le bordate del grillino (dissidente) di battista – costretto a congelare il suo libro sul “partito di bibbiano” – destabilizzano un quadro già complesso di suo: intanto, i recenti sondaggi danno la destra in crescita e le forze di governo in calo.
in questo scenario, la sinistra radicale o d’alternativa non tocca palla. la grande assente. una sinistra incapace di rispondere alle richieste popolari finita per farsi fagocitare dal pd zingarettiano – l’ultima new entry è laura boldrini – a parte qualche piccola formazione. come siamo giunti a questo punto? come ha fatto la sinistra a perdere culturalmente nel paese? l’attivista e scrittore mauro vanetti prova a rispondere a tali quesiti, tanto impegnativi quanto inevasi, nel libro la sinistra di destra (edizione alegre, 239pp, 15euro). per descrivere il senso del termine utilizza l’immagine di uno zombie che si aggira per l’europa, un mostro bicefalo i cui due volti sono il sovranismo e liberismo: “un morto – scrive – che cammina sinistrofago che svuota la testa da ogni idea di riscatto sociale e solidarietà internazionale per riempirla con una sostanza gelatinosa formata, in dose variabili, da populismo, classismo, razzismo, sessismo e nazionalismo”. l’autore ricostruisce come, negli ultimi trent’anni, le socialdemocrazie europee abbiano abbandonato le ragioni della sinistra da quando si è assunto come proprio il paradigma della “terza via” di tony blair, la stessa stagione di bill clinton e dei tanti emuli successivi, i quali hanno utilizzato la parola “riformismo” per sostenere guerre umanitarie, privatizzazioni, deregulation, restringimento del welfare state e precarizzazione della vita dei cittadini. le socialdemocrazie hanno esaltato le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione liberista, rimuovendo allo stesso tempo il contesto di nascita e di pervasività di un capitale finanziario predatorio che sempre più assumeva una dimensione biopolitica. un nuovo capitalismo impossibile da gestire, sovranazionale, tecnicamente avanzato, capace di imporre l’agenda ai governi, pena la crisi economica di interi stati. una sinistra di destra che ha sostenuto l’europa dell’austerity spianando la strada al populismo xenofobo: cos’è l’onda nera se non una reazione (sbagliata) ad un sistema al collasso che ha generato diseguaglianze e politiche impopolari? eppure si persevera negli errori. alla recente leopolda 10 la ministra bellanova, ad esempio, ha attaccato “chi dice che tutti possono avere tutto” adottando il mantra blairiano del merito. peccato che le nostre società siano tutto tranne che meritocratiche! anzi – come dimostrano diversi studi sull’assenza di ascensore sociale nel paese – è proprio l’ideale meritocratico che garantisce il dominio dell’1 per cento e contribuisce a mantenere il 99 zitto, rassegnato e docile. mentre una vera sinistra dovrebbe sposare una distribuzione “giusta” di status, ricchezza e potere che sia meno escludente e gerarchica, l’italia viva di renzi brama quel merito che si configura come strumento – potentissimo – di un’élite del privilegio. oltre alla terza via blairiana, liberista e conformista, vanetti si scaglia contro il virus del rossobrunismo. in italia, negli anni ‘60, abbiamo già assistito a tale fenomeno ma, diversamente da oggi, erano i settori neofascisti che rimanevano infatuati dal pensiero sinistrorso. da qui sorgeranno il filone del nazimaoismo e il movimento d’estrema destra terza posizione che, dietro la teorizzazione di un’ipotetica alleanza tra rossi e neri contro la società borghese, mimetizzava propaganda neofascista, tramite lessico e immagini della parte opposta. sono gli anni in cui si diffondeva il pensiero del filosofo costanzo preve. ora ci sorbiamo il suo allievo, diego fusaro. il giovane studioso di gramsci, così ama definirsi, è il guru per eccellenza del rossobrunismo, un personaggio che gioca a fare l’anti-sistema pur vivendo nei salotti televisivi del paese. i suoi adepti subiscono, oggi, la fascinazione per la russia di putin o per la siria di assad, trattano i diritti civili come folklore borghese, denigrano il femminismo e, soprattutto, invocano l’innalzamento delle frontiere per fermare l’invasione dei migranti. molte pagine del libro sono volte a smontare, analiticamente, il concetto di dumping salariale tra lavoratori autoctoni e stranieri rispolverando gli studi di marx ed engels sull’esercito industriale di riserva. secondo vanetti, fusaro avrebbe una visione distorta del marxismo: se davvero ha letto il vecchio karl, di certo non l’ha compreso. dal libro si evince che è lo sviluppo delle unioni – cioè dei sindacati, degli scioperi, delle casse di mutuo soccorso – la risposta corretta alla concorrenza “perché la spezzano”. dal rossobrunismo l’autore – convinto no borders – passa alla condanna del populismo, senza grandi distinguo. il populismo di sinistra di ernesto laclau e chantal mouffe viene frettolosamente etichettato, liquidato e banalizzato. un passaggio che stona provocando una sbavatura nel libro. viene preso di mira l’interclassismo postmarxista del populismo di sinistra, accusato di essere riformista. “demolire la teoria marxista sulla composizione di classe delle società contemporanee è sempre stata un’ossessione per un certo intellettuali di sinistra – recita un passaggio – se cade la centralità della classe operaia come classe rivoluzionaria si disinnesca la carica rivoluzionaria del marxismo e si è costretti a ripiegare sull’accettazione dell’esistente”. insomma, questo 99 per cento di cui parlano laclau e mouffe, o meglio questo popolo, non esisterebbe perché, alla fine, bisogna schierarsi: “si sta coi lavoratori o coi padroni?”. una lettura che rischia di sottovalutare diversi fenomeni come l’accumulazione di ricchezze in poche mani (l’élite dominante), la teoria dello “sgocciolamento” e la polverizzazione del ceto medio. lo stesso laclau, filosofo argentino e postmarxista, non dipinge il suo popolo come un blocco omogeneo: “il popolo è la risultante da una catena equivalenziale che collega domande eterogenee, e la cui unità è garantita dall’identificazione con una concezione democratica radicale di cittadinanza e dall’opposizione comune all’oligarchia”. un altro errore di vanetti è di associare il populismo di laclau alle pericolose riletture sovraniste – come se chantal mouffe fosse in qualche modo ascrivibile al rossobrunismo – mentre l’esempio di podemos in spagna dimostra come si possa essere populisti e, nello stesso momento, convinti europeisti. si potrebbe discutere ore e giorni sulla fondatezza degli studi di laclau e mouffe ma trattarli come i fusaro di turno sembra alquanto discutibile, soprattutto per un libro che ha il grande merito di analizzare con minuzia teorica e argomentativa chi si cela a sinistra. infine, la parte costruens: l’autore pensa che la sinistra non si riduca ai partiti ma che nel paese esistano già associazioni, comitati territoriali, movimenti – cita non una di meno – che possano essere cardini per la costruzione di un’alternativa nella società. vanetti sogna una nuova sinistra di classe: “rivendico la parola sinistra e intendo difenderla dalle distorsioni, ma la cosa che davvero conta è schierarsi coscientemente dalla parte della classe sfruttata”. chi scrive ha più dubbi dell’autore sul concetto di classe – tema che merita saggio a parte – ma sicuramente il libro è uno strumento utile per fare luce su chi si dichiara di sinistra sposando valori di destra. riconoscere i nemici interni: un primo passo per ripartire. l’attesa di tempi migliori: il documento di economia e finanza e l’assenza di misure per la crescita di guglielmo forges davanzati - (15 ottobre 2019). sembra di trovarsi in una condizione macroeconomica per molti aspetti simile a quella che hegel definiva “la notte delle vacche nere”. sebbene l’insediamento del governo conte 2 abbia coinciso con la riduzione dello spread e, dunque, con minori interessi monetari da pagare ai creditori dello stato italiano, non si rilevano apprezzabili cambiamenti soprattutto per quanto attiene alla prosecuzione delle misure di moderazione salariale e della conseguente deflazione. sia chiaro che la deflazione (ovvero il rallentamento del tasso di inflazione) comporta riduzioni del tasso di crescita, dal momento che, da un lato, induce i consumatori a posticipare gli acquisti, attendendosi ulteriori riduzioni dei prezzi, e, dall’altro, spinge le imprese a posticipare i loro investimenti, in considerazione del fatto che i costi sostenuti sono minori dei profitti attesi. la nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (nadef) recentemente pubblicata si muove nella direzione corretta, soprattutto mediante la pressoché obbligata sterilizzazione dell’aumento dell’iva. ma non va oltre, affidandosi a un recupero dell’evasione fiscale verosimilmente sovrastimato, come osservato da molti commentatori. ciò è probabilmente dovuto all’urgenza con la quale questo esecutivo intende procedere e, ancor più, al tentativo (a quanto pare al momento di successo) di ripristinare rapporti ‘di buon vicinato’ con le istituzioni europee. occorrerebbe maggior coraggio nel riformare il mercato del lavoro (pare insufficiente, in tal senso, la riduzione del cuneo fiscale), nel senso di renderlo meno ‘flessibile’, per esempio attraverso clausole più stringenti in ordine alla somministrazione di contratti a termine, precari, non solo perché – come ampiamente dimostrato sul piano teorico ed empirico – la precarizzazione del lavoro riduce il tasso di crescita della produttività del lavoro (generando effetti di demotivazione dei lavoratori), ma anche perché una maggiore regolamentazione del mercato del lavoro potrebbe spingere le imprese a provare a recuperare competitività attraverso l’introduzione di innovazioni: cosa di cui l’economia italiana ha davvero bisogno. l’esperienza storica, sebbene ovviamente in un contesto istituzionale profondamente mutato, può insegnare a comprendere che nei periodi nei quali l’intervento dello stato, non solo sotto forma di regolamentazione ma anche di azione diretta nella fornitura di servizi di welfare, è stato più incisivo, si è avuta una più equa distribuzione del reddito e tassi di crescita relativamente più sostenuti di quelli attuali. ci si riferisce, fra i tanti possibili esempi, ..segue ./.
Segue da Pag.6: IL CALIFFO: FILM CIA TRA FICTION E REALTA'

Nel luglio 2016 viene desecretata da Wikileaks una mail del 2012 in cui la segretaria di stato Hillary Clinton scrive che, data la relazione Iran-Siria, «il rovesciamento di Assad costituirebbe un immenso beneficio per Israele, facendo diminuire il suo timore di perdere il monopolio nucleare».

Ciò spiega perché, nonostante gli Usa e i loro alleati lancino nel 2014 la campagna militare contro l’Isis, le forze dell’Isis possono avanzare indisturbate in spazi aperti con lunghe colonne di automezzi armati.

L’intervento militare russo nel 2015, a sostegno delle forze di Damasco, rovescia le sorti del conflitto. Scopo strategico di Mosca è impedire la demolizione dello Stato siriano, che provocherebbe un caos tipo quello libico, sfruttabile da Usa e Nato per attaccare l’Iran e accerchiare la Russia.

Gli Stati uniti, spiazzati, continuano a giocare la carta della frammentazione della Siria, sostenendo gli indipendentisti curdi, per poi abbandonarli per non perdere la Turchia, avamposto Nato nella regione.

Su questo sfondo si capisce perché al Baghdadi, come Bin Laden (già alleato Usa contro la Russia nella guerra afghana), non poteva essere catturato per essere pubblicamente processato, ma doveva fisicamente sparire per far sparire le prove del suo reale ruolo nella strategia Usa.

Per questo a Trump è piaciuto tanto il film a lieto fine.

Consoli o vassalli? This is the question!

di Patrizia Cecconi

Il potere della carta stampata e, soprattutto, quello del più grande imbonitore del secolo, la TV, sulla formazione dell’opinione pubblica è fuori discussione. Tuttavia, sottovalutare i social sarebbe un grosso errore e ormai ogni comunicatore, sia di professione che per passione, lo sa bene e sa che la “verità mediatica” può essere smentita solo grazie ad essi. Il caso specifico che stiamo affrontando, e che abbiamo conosciuto, appunto, grazie ai social, riguarda la sistematica mancata tutela dei cittadini italiani di fronte all’arbitrio di uno Stato straniero, quando questo Stato è Israele.

Così, per rimbalzi nella rete e non già grazie alla magica TV, capita di scoprire che in un’intervista rilasciata a 'Fanpage.it' circa il respingimento di un ragazzo italiano alla frontiera israeliana, il console italiano a Tel Aviv, Nicola Manniello, dichiara candidamente e senza alcun percepibile disappunto, che la polizia di frontiera israeliana respinge ogni anno un alto numero di italiani e di questi una cinquantina sono solo quelli che si rivolgono al consolato pensando – ingenuamente – di poter essere tutelati.

Ma “la nostra rappresentanza diplomatica può ben poco di fronte a tali respingimenti “ dice il console e quindi aggiunge, come se la cosa fosse normale, che questo ragazzo non è un’eccezione e che “E’ capitato anche a politici, giornalisti o amministratori delegati…”. “Certo, lo sappiamo che le persone fermate vengono messe in una saletta, una sorta di limbo, assieme ad altri che verranno respinti” e che gli interrogatori “possono essere anche lunghi, effettuati con modalità poco cortesi” e per questo “noi consigliamo sempre di visitare la pagina Viaggiare Sicuri disponibile sul sito del ministero degli esteri in cui ci sono tutte le informazioni utili”. Con candore giustificazionista aggiunge che “Israele è un Paese che sconta delle particolari esigenze di sicurezza e va valutato in un quadro più amplio…. in alcune circostanze, i controlli possono includere lunghi interrogatori e perquisizioni e concludersi – per motivazioni anche non esplicitate all'interessato – con un diniego di ingresso nel Paese” (cfr. www.fanpage.it/esteri/il-caso-khalid-18enne-italiano-respinto-da-israele-il-console-succede-a-50-italiani-ogni-anno/)

Tutto normale, no? E’ tutto così burocraticamente normale che il console Manniello afferma di poter dire per esperienza diretta “che Israele vuole risolvere quanto prima la pratica di espulsione proprio per evitare l’intervento delle ambasciate o l’accusa di violare i diritti umani”.

Il bravo console non aggiunge che Israele li viola eccome i diritti umani, e non si accorge che le sue risposte danno l’impressione che sia più spinto a tutelare il Paese in cui ha trovato lavoro, sebbene pagato dall’Italia, che non i cittadini italiani discriminati proprio da quel Paese che occupa militarmente la Palestina e costringe chiunque a passare sotto le sue forche caudine avendo illegalmente chiuso ogni accesso libero.

Ma per lui è tutto così normale che specifica che “Di solito per quanto riguarda gli italiani (respinti) sono attivisti di Ong soprattutto quelle legate al movimento Bds”.

Insomma il console sembra aver dimenticato la sua funzione di tutela dei suoi concittadini e sembra invece garbatamente intento a mantenere un rapporto di rispettosa accettazione degli abusi commessi dal paese in cui hanno sede i suoi uffici consolari. Il tutto esposto con garbo – ovviamente – diplomatico, al punto che sembra impossibile porre Israele di fronte alla gravità delle sue continue violazioni e dei suoi abusi, accettati come un vassallo accetterebbe i capricci del suo signore.

Neanche di fronte a un altro illecito, quello della non restituzione del bagaglio allo studente italiano espulso, il console mostra l’habitus di tutore dei cittadini del Paese che avrebbe il compito di rappresentare e far rispettare, ma confida al suo intervistatore che “Con Khalid (il giovane respinto ndr) siamo stati in contatto per mesi dopo il suo ritorno in Italia per cercare di risolvere il problema legato al bagaglio” e conclude con un consiglio che poco ha da spartire con la dignità e molto con l’accettazione di un potere considerato superiore, al quale ci si rivolge umilmente chiedendo clemenza e comprensione, ponendosi in stato di inferiorità e contando sulla benevolenza di chi elargisce favori a coloro che ne accettano la superiorità. Col diritto non ha niente da spartire, mentre ha molto da condividere col vassallaggio che consente a Israele di porsi uber alles rispetto a chiunque. Il suggerimento del console Manniello ne è inconfutabile prova. Ecco le sue parole: “L’unico consiglio che mi sento di dargli (allo studente padovano) è di rivolgersi all'ambasciata israeliana in Italia e sono sicuro che faranno il possibile per trovare una soluzione”.

Ma, ci chiediamo, l’Italia è un paese sovrano o è un vassallo di Israele e, di conseguenza, il console svolge correttamente il suo lavoro considerando normale che i cittadini italiani subiscano un trattamento del tutto opposto a quello riservato in Italia ai cittadini israeliani, correttamente accolti e rispettati dalla nostra polizia di frontiera?

Ci piacerebbe che il console Manniello desse la sua risposta alla luce di quella normalità che a noi sembra una mortificazione della nostra sovranità nazionale oltre che un abuso verso il giovane Khalid e tutti gli altri che subiscono lo stesso trattamento.

Liberisti e rossobruni, i nemici interni alla sinistra

Dagli eredi del blairismo ai sovranisti, un libro analizza (ammonendo del pericolo) chi si spaccia per progressista quando sposa valori di destra. Certo, stona il popuslita Laclau trattato come un Fusaro qualsiasi. Ma secondo l’autore, la sinistra per essere tale deve ricominciare a difendere i soggetti deboli della società rispolverando Marx e la lotta di classe, “un concetto tutt’altro che superato”.

di Giacomo Russo Spena - (23 ottobre 2019)

Da un lato la destra becera e nazionalista, pericolosa ed estremista, che a suon di propaganda parla alla pancia del Paese foraggiando disvalori e guerra tra poveri. La destra di Matteo Salvini e Giorgia Meloni che sabato, a Roma, hanno palesato il loro orgoglio italiano blaterando di sostituzione etnica, “Dio patria e famiglia”, lotta alla droga con “armi in strada” ed elogiando il discutibile Viktor Orban, presidente dell’Ungheria. Dall’altro lato – come argine? – si configura l’attuale governicchio: un progetto in fieri dove i presagi non sono incoraggianti. Dopo il ribaltone agostano, o meglio l'harakiri di Salvini, il Conte 2 si delinea come una coalizione tra diversi tenuta insieme più dal pericolo per le urne che da un programma progressista condiviso. Il nuovo partito di Renzi e le bordate del grillino (dissidente) Di Battista – costretto a congelare il suo libro sul “Partito di Bibbiano” – destabilizzano un quadro già complesso di suo: intanto, i recenti sondaggi danno la destra in crescita e le forze di governo in calo.

In questo scenario, la sinistra radicale o d’alternativa non tocca palla. La grande assente. Una sinistra incapace di rispondere alle richieste popolari finita per farsi fagocitare dal Pd zingarettiano – l’ultima new entry è Laura Boldrini – a parte qualche piccola formazione. Come siamo giunti a questo punto? Come ha fatto la sinistra a perdere culturalmente nel Paese? L’attivista e scrittore Mauro Vanetti prova a rispondere a tali quesiti, tanto impegnativi quanto inevasi, nel libro La sinistra di destra (edizione Alegre, 239pp, 15euro).

Per descrivere il senso del termine utilizza l’immagine di uno zombie che si aggira per l’Europa, un mostro bicefalo i cui due volti sono il sovranismo e liberismo: “Un morto – scrive – che cammina sinistrofago che svuota la testa da ogni idea di riscatto sociale e solidarietà internazionale per riempirla con una sostanza gelatinosa formata, in dose variabili, da populismo, classismo, razzismo, sessismo e nazionalismo”.

L’autore ricostruisce come, negli ultimi trent’anni, le socialdemocrazie europee abbiano abbandonato le ragioni della sinistra da quando si è assunto come proprio il paradigma della “terza via” di Tony Blair, la stessa stagione di Bill Clinton e dei tanti emuli successivi, i quali hanno utilizzato la parola “riformismo” per sostenere guerre umanitarie, privatizzazioni, deregulation, restringimento del welfare state e precarizzazione della vita dei cittadini. Le socialdemocrazie hanno esaltato le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione liberista, rimuovendo allo stesso tempo il contesto di nascita e di pervasività di un capitale finanziario predatorio che sempre più assumeva una dimensione biopolitica. Un nuovo capitalismo impossibile da gestire, sovranazionale, tecnicamente avanzato, capace di imporre l’agenda ai governi, pena la crisi economica di interi Stati.

Una sinistra di destra che ha sostenuto l’Europa dell’austerity spianando la strada al populismo xenofobo: cos’è l’onda nera se non una reazione (sbagliata) ad un Sistema al collasso che ha generato diseguaglianze e politiche impopolari? Eppure si persevera negli errori. Alla recente Leopolda 10 la ministra Bellanova, ad esempio, ha attaccato “chi dice che tutti possono avere tutto” adottando il mantra blairiano del merito. Peccato che le nostre società siano tutto tranne che meritocratiche! Anzi – come dimostrano diversi studi sull’assenza di ascensore sociale nel Paese – è proprio l’ideale meritocratico che garantisce il dominio dell’1 per cento e contribuisce a mantenere il 99 zitto, rassegnato e docile. Mentre una vera sinistra dovrebbe sposare una distribuzione “giusta” di status, ricchezza e potere che sia meno escludente e gerarchica, l’Italia Viva di Renzi brama quel merito che si configura come strumento – potentissimo – di un’élite del privilegio.

Oltre alla terza via blairiana, liberista e conformista, Vanetti si scaglia contro il virus del rossobrunismo. In Italia, negli anni ‘60, abbiamo già assistito a tale fenomeno ma, diversamente da oggi, erano i settori neofascisti che rimanevano infatuati dal pensiero sinistrorso. Da qui sorgeranno il filone del nazimaoismo e il movimento d’estrema destra Terza posizione che, dietro la teorizzazione di un’ipotetica alleanza tra rossi e neri contro la società borghese, mimetizzava propaganda neofascista, tramite lessico e immagini della parte opposta. Sono gli anni in cui si diffondeva il pensiero del filosofo Costanzo Preve. Ora ci sorbiamo il suo allievo, Diego Fusaro. Il giovane studioso di Gramsci, così ama definirsi, è il guru per eccellenza del rossobrunismo, un personaggio che gioca a fare l’anti-Sistema pur vivendo nei salotti televisivi del Paese. I suoi adepti subiscono, oggi, la fascinazione per la Russia di Putin o per la Siria di Assad, trattano i diritti civili come folklore borghese, denigrano il femminismo e, soprattutto, invocano l’innalzamento delle frontiere per fermare l’invasione dei migranti.

Molte pagine del libro sono volte a smontare, analiticamente, il concetto di dumping salariale tra lavoratori autoctoni e stranieri rispolverando gli studi di Marx ed Engels sull’esercito industriale di riserva. Secondo Vanetti, Fusaro avrebbe una visione distorta del marxismo: se davvero ha letto il vecchio Karl, di certo non l’ha compreso. Dal libro si evince che è lo sviluppo delle unioni – cioè dei sindacati, degli scioperi, delle casse di mutuo soccorso – la risposta corretta alla concorrenza “perché la spezzano”.

Dal rossobrunismo l’autore – convinto no borders – passa alla condanna del populismo, senza grandi distinguo. Il populismo di sinistra di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe viene frettolosamente etichettato, liquidato e banalizzato. Un passaggio che stona provocando una sbavatura nel libro. Viene preso di mira l’interclassismo postmarxista del populismo di sinistra, accusato di essere riformista. “Demolire la teoria marxista sulla composizione di classe delle società contemporanee è sempre stata un’ossessione per un certo intellettuali di sinistra – recita un passaggio – Se cade la centralità della classe operaia come classe rivoluzionaria si disinnesca la carica rivoluzionaria del marxismo e si è costretti a ripiegare sull’accettazione dell’esistente”.

Insomma, questo 99 per cento di cui parlano Laclau e Mouffe, o meglio questo popolo, non esisterebbe perché, alla fine, bisogna schierarsi: “Si sta coi lavoratori o coi padroni?”. Una lettura che rischia di sottovalutare diversi fenomeni come l’accumulazione di ricchezze in poche mani (l’élite dominante), la teoria dello “sgocciolamento” e la polverizzazione del ceto medio. Lo stesso Laclau, filosofo argentino e postmarxista, non dipinge il suo popolo come un blocco omogeneo: “Il popolo è la risultante da una catena equivalenziale che collega domande eterogenee, e la cui unità è garantita dall’identificazione con una concezione democratica radicale di cittadinanza e dall’opposizione comune all’oligarchia”.

Un altro errore di Vanetti è di associare il populismo di Laclau alle pericolose riletture sovraniste – come se Chantal Mouffe fosse in qualche modo ascrivibile al rossobrunismo – mentre l’esempio di Podemos in Spagna dimostra come si possa essere populisti e, nello stesso momento, convinti europeisti. Si potrebbe discutere ore e giorni sulla fondatezza degli studi di Laclau e Mouffe ma trattarli come i Fusaro di turno sembra alquanto discutibile, soprattutto per un libro che ha il grande merito di analizzare con minuzia teorica e argomentativa chi si cela a sinistra.

Infine, la parte costruens: l’autore pensa che la sinistra non si riduca ai partiti ma che nel Paese esistano già associazioni, comitati territoriali, movimenti – cita Non una di meno – che possano essere cardini per la costruzione di un’alternativa nella società. Vanetti sogna una nuova sinistra di classe: “Rivendico la parola sinistra e intendo difenderla dalle distorsioni, ma la cosa che davvero conta è schierarsi coscientemente dalla parte della classe sfruttata”. Chi scrive ha più dubbi dell’autore sul concetto di classe – tema che merita saggio a parte – ma sicuramente il libro è uno strumento utile per fare luce su chi si dichiara di sinistra sposando valori di destra. Riconoscere i nemici interni: un primo passo per ripartire.

L’attesa di tempi migliori: il documento di Economia e Finanza e l’assenza di misure per la crescita

di Guglielmo Forges Davanzati - (15 ottobre 2019)

Sembra di trovarsi in una condizione macroeconomica per molti aspetti simile a quella che Hegel definiva “la notte delle vacche nere”. Sebbene l’insediamento del Governo Conte 2 abbia coinciso con la riduzione dello spread e, dunque, con minori interessi monetari da pagare ai creditori dello Stato italiano, non si rilevano apprezzabili cambiamenti soprattutto per quanto attiene alla prosecuzione delle misure di moderazione salariale e della conseguente deflazione. Sia chiaro che la deflazione (ovvero il rallentamento del tasso di inflazione) comporta riduzioni del tasso di crescita, dal momento che, da un lato, induce i consumatori a posticipare gli acquisti, attendendosi ulteriori riduzioni dei prezzi, e, dall’altro, spinge le imprese a posticipare i loro investimenti, in considerazione del fatto che i costi sostenuti sono minori dei profitti attesi.

La nota di aggiornamento al documento di Economia e Finanza (NADef) recentemente pubblicata si muove nella direzione corretta, soprattutto mediante la pressoché obbligata sterilizzazione dell’aumento dell’IVA. Ma non va oltre, affidandosi a un recupero dell’evasione fiscale verosimilmente sovrastimato, come osservato da molti commentatori. Ciò è probabilmente dovuto all’urgenza con la quale questo esecutivo intende procedere e, ancor più, al tentativo (a quanto pare al momento di successo) di ripristinare rapporti ‘di buon vicinato’ con le Istituzioni europee.

Occorrerebbe maggior coraggio nel riformare il mercato del lavoro (pare insufficiente, in tal senso, la riduzione del cuneo fiscale), nel senso di renderlo meno ‘flessibile’, per esempio attraverso clausole più stringenti in ordine alla somministrazione di contratti a termine, precari, non solo perché – come ampiamente dimostrato sul piano teorico ed empirico – la precarizzazione del lavoro riduce il tasso di crescita della produttività del lavoro (generando effetti di demotivazione dei lavoratori), ma anche perché una maggiore regolamentazione del mercato del lavoro potrebbe spingere le imprese a provare a recuperare competitività attraverso l’introduzione di innovazioni: cosa di cui l’economia italiana ha davvero bisogno.

L’esperienza storica, sebbene ovviamente in un contesto istituzionale profondamente mutato, può insegnare a comprendere che nei periodi nei quali l’intervento dello Stato, non solo sotto forma di regolamentazione ma anche di azione diretta nella fornitura di servizi di Welfare, è stato più incisivo, si è avuta una più equa distribuzione del reddito e tassi di crescita relativamente più sostenuti di quelli attuali. Ci si riferisce, fra i tanti possibili esempi,
..segue ./.

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