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La VOCE 1911

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La VOCE ANNO XXII N°3

novembre 2019

PAGINA 8

segue da pag.7: l’attesa di tempi migliori: il documento di economia e finanza e l’assenza di misure per la crescita. all’italia di inizi novecento, quando, soprattutto per impulso del lucano francesco saverio nitti, si avviò un programma di espansione dell’azione pubblica a tutela della salute, si realizzarono opere infrastrutturali e di riassetto idrogeologico (in basilicata nel 1904, in calabria nel 1906) e si attuò la legge speciale per napoli (nel luglio del 1904). si trattò di interventi non sempre di successo, ma che comunque alleviarono condizioni di estrema povertà – soprattutto al sud – e che avviarono il processo di modernizzazione del paese e il suo lento e faticoso aggancio al salto tecnologico della prima e della seconda rivoluzione industriale. la riuscita manovra di riequilibrio dei conti pubblici, attraverso il rinnovo di titoli fissi in scadenza a tassi di interesse più bassi, ebbe l’esito di creare un clima di fiducia sui mercati internazionali, riattivando la crescita economica e facendo aumentare il gettito fiscale. il fisco, appunto, costituisce un elemento cardine – nelle condizioni date – per provare a far ripartire l’economia italiana. dopo le ‘riforme’ degli scorsi decenni, che lo hanno reso sempre meno progressivo, occorrerebbe mettere mano al sistema tributario per accentuarne il profilo di giustizia distributiva, come peraltro sancito dalla nostra costituzione. la nadef è poi estremamente timida nei confronti di un settore strategico per la crescita economica, ovvero la ricerca e sviluppo. è vero che un recente provvedimento del miur ha avviato un percorso di riduzione dell’ipertrofia normativa che paralizza il settore (ci si riferisce al venir meno dell’obbligo di acquisto di beni e servizi tramite mercato elettronico, dunque ampliando la libertà di scelta dei fornitori) ma è anche vero che università, fondazioni, centri di ricerca rimangono drammaticamente sottofinanziati in modo selettivo, a danno soprattutto di quasi tutte le sedi meridionali. d’altra parte, si può registrare il dato per il quale le èlites italiane hanno sempre mostrato disinteresse per l’istruzione. è celebre, a riguardo, la domanda retorica che si pose alessandro manzoni: “quando saranno tutti dotti, a chi toccherà coltivare la terra?”. si calcola che nel 1901 il tasso di analfabetismo si assestava a quasi il 50% rispetto al totale della popolazione residente e a ciò si può aggiungere che all’atto dell’unificazione esisteva un sistema di istruzione gratuita e obbligatoria, il cui finanziamento era però lasciato ai comuni, che, soprattutto nel mezzogiorno, non disponevano di finanziamenti sufficienti[1]. il punto politico in discussione riguarda, ancora una volta, l’assenza di una visione strategica per lo sviluppo del paese. va precisato che l’economia italiana è di fatto in una traiettoria recessiva da molti anni (alcuni analisti datano il cosiddetto declino economico italiano all’inizio degli anni novanta) e il principale indicatore riguarda il continuo calo del tasso di crescita della produttività del lavoro, peraltro quasi sempre inferiore alla media europea quantomeno nell’ultimo decennio. la bassa crescita della produttività del lavoro è fondamentalmente imputabile al calo degli investimenti pubblici e privati. proviamo a capire perché ciò è accaduto, a partire da alcune considerazioni sulle recenti vicende della nostra economia. terminato il ‘miracolo economico’ degli anni cinquanta-sessanta e dunque la stagione di una crescita trainata dalle esportazioni, negli anni settanta si registra un imponente ciclo di lotte operaie. aumentano gli scioperi, diminuiscono le ore lavorate, aumentano i salari monetari. aumenta considerevolmente il tasso di inflazione, soprattutto a seguito dello shock petrolifero del 1973. le imprese del ‘triangolo industriale’, nel tentativo di contenere la conflittualità operaia e recuperare competitività di prezzo, avviano processi di decentramento produttivo, spostando la produzione in unità di piccole dimensioni inizialmente nel nord est. si indebolisce, per conseguenza, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’inflazione comincia a essere ridotta. l’arrivo della crisi del 2008 fa deflagrare tutti i problemi sedimentatisi nei decenni precedenti e si innesta su una struttura produttiva divenuta progressivamente sempre più fragile e caratterizzata da piccole dimensioni aziendali, forte dipendenza dal credito bancario, specializzazione in settori tecnologicamente maturi (turismo, agroalimentare, beni di lusso). negli anni più recenti, nessun governo ha provato a invertire la rotta, ovvero a rendere il nostro sistema produttivo più forte e più competitivo su scala internazionale attraverso investimenti in innovazione. per contro, gli investimenti pubblici si sono continuamente ridotti e si è continuamente ridotta la spesa pubblica in ricerca e sviluppo (a fronte peraltro di una spesa privata in ricerca e sviluppo di dimensioni irrisorie). ciò è probabilmente da imputare all’estrema difficoltà di recuperare il terreno perso (è difficile re-industrializzare un paese dopo decenni di politiche di de-industrializzazione), alla convinzione che l’italia possa crescere in virtù della presunta eccellenza del ‘piccolo è bello’ e delle sue produzioni artigianali, alla scorciatoia politica di rinunciare a interventi sulla struttura produttiva con investimenti pubblici il cui effetto si vedrebbe nel lungo periodo. si aumenta dunque la spesa corrente, quella che maggiormente si presume abbia effetti sull’acquisizione di consenso. si arriva al 2018. il cosiddetto governo del cambiamento, a trazione leghista, fa propria la convinzione che questi problemi dipendano dai vincoli europei, sulla scia di una ormai decennale elaborazione teorica per la quale le condizioni materiali di vita dei cittadini italiani migliorerebbero se si potesse fare a meno dell’euro. si tratta di una tesi errata e che non coglie la reale portata del problema (economico e politico). va ricordato che le svalutazioni della lira (7 casi dal 1979 al 1992) si sono sempre accompagnate a cali di produttività, per effetto della possibilità accordata alle imprese di competere con un cambio favorevole rinunciando a innovare. a ciò si può aggiungere il fatto che, poiché soprattutto negli ultimi decenni le imprese italiane esportatrici sono localizzate prevalentemente a nord, le svalutazioni della lira hanno di norma prodotto un ampliamento dei divari regionali. il governo del cambiamento ripropone una linea di politica economica eccessivamente sbilanciata sulla spesa corrente: trasferimenti monetari alle famiglie (reddito di cittadinanza e quota 100 in primis) – rispetto alla spesa per investimenti. gli investimenti pubblici rispetto ai trasferimenti monetari presentano un duplice vantaggio ai fini della crescita: 1. creano uno stock di capitale fisso (si pensi alla messa in sicurezza del territorio, alle opere pubbliche, alle infrastrutture) che attiva effetti di complementarietà rispetto agli investimenti privati: si pensi, a titolo esemplificativo, al potenziamento della logistica (dunque al potenziamento della rete dei trasporti) e agli effetti che questa misura potrebbe avere per l’aumento degli investimenti o per l’attrazione di investimenti dall’estero. 2. se rivolti al finanziamento della ricerca (che, per sua natura, dà risultati incerti e di lungo periodo) possono attivare crescita attraverso la generazione di innovazioni. si può considerare, a riguardo, che – come ampiamente mostrato – pressoché tutte le innovazioni del novecento nel settore privato si sono rese possibili a seguito di una preventiva spesa dello stato per il finanziamento di centri di ricerca. la scelta di allocare gran parte delle risorse pubbliche disponibili per spesa corrente – oltre a essere finalizzata all’acquisizione di consenso in un’ottica di breve periodo – risponde anche alla base elettorale dei partiti del governo conte 1[2]. si tutelano, in tal modo, gli interessi della piccola impresa che opera su mercati locali, che non esporta e che produce prevalentemente beni di consumo per i quali non occorrono innovazioni. assecondare questi interessi significa far sopravvivere imprese che diversamente fallirebbero nella competizione globale e soprattutto – dati i vincoli del bilancio pubblico – rinunciare a politiche alternative, in primis di incentivazione alle innovazioni, che costituirebbero il presupposto per il rilancio dell’economia italiana. il governo conte 2 non sembra in grado di abbandonare le line di policy ereditate: si tratta di un fattore di inerzia, probabilmente di assenza di coraggio e di una visione di lungo periodo, di certo si tratta di un temporeggiare in attesa di tempi migliori, sperando innanzitutto nella cessazione delle guerre commerciali e nella ripresa del commercio internazionale. note. [1] v. tullio de mauro (1970). storia linguistica dell’italia unita, ripubblicato nel 2011. roma-bari: laterza. [2] e’ quello che il compianto marcello del cecco definiva “keynesismo criminale” con riferimento all’esplosione del debito pubblico negli anni ottanta (cfr. riccardo bellofiore, la lezione di marcello de cecco, “sbilanciamoci”, 23 novembre 2016: http://sbilanciamoci.info/la-lezione-un-conservatore-illuminato/). dichiarazione della commissione internazionale buchenwald dora e kommandos (cibd). written by r.soave. 8 ottobre 2019. comitato di buchenwald: “la commissione internazionale buchenwald dora e kommandos (cibd) esprime profonda preoccupazione per la risoluzione del parlamento europeo del 19.9.2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’europa. la cibd ritiene che il testo di questa prima risoluzione del neoeletto parlamento europeo sul ruolo della memoria storica nell’educazione dei giovani e nella costruzione di un’europa.
libera e democratica sia un insulto intollerabile alle vittime del fascismo e del nazismo, nonché ai costruttori di un’europa pacifica, democratica e libera. la risoluzione di cui sopra è giustamente preoccupata, nell’ultima parte del testo, per l’aumento dell’odio basato sull’identità in europa. chiede di vietare i gruppi neofascisti e neonazisti (punto 20). sottolinea inoltre che “è necessario continuare a trarre dal tragico passato europeo l’ispirazione morale e politica necessaria per affrontare le sfide del mondo contemporaneo e, in particolare, lottare per un mondo più giusto, costruire società e comunità tolleranti e aperte che accolgano le minoranze sessuali, religiose ed etniche, e garantire che i valori europei vadano a beneficio di tutti” (punto 21). tuttavia, questa risoluzione rimane il risultato di compromessi malsani e sviluppa argomenti fallaci e inaccettabili che maltrattano la verità storica. la cibd chiede pertanto il ritiro immediato della risoluzione p9_ta-prov(2019)0021. la cibd si basa sulla seguente motivazione in questa dichiarazione: 1. l’ibcd si rammarica che la risoluzione del parlamento europeo sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’europa non menzioni nel suo testo la risoluzione decisiva del parlamento europeo dell’11 febbraio 1993 sulla “protezione e conservazione dei siti della memoria degli ex campi di concentramento”. 2.la cibd ricorda che in nessun caso possiamo mettere sullo stesso piano il nazismo di hitler e il comunismo di stalin e definirli sotto il termine generale di “totalitarismo” così come è stato applicato dal 1930 al regime di mussolini. alcuni parlamentari dimenticano che i loro paesi, situati nell’orbita nazista, hanno sviluppato in questi anni una propria forma di totalitarismo: finlandia, spagna, portogallo, ungheria, polonia….. la cibd chiede che una risoluzione del parlamento europeo sulla consapevolezza del passato non ignori le specificità del nazismo; razzismo, antisemitismo, genocidio di ebrei, sinti e rom, crimini contro i malati mentali e fisici sono alla base di quella che fu la politica nazista, insieme ai previsti e sistematici massacri contro le popolazioni slave, nonché la schiavitù di milioni di uomini, donne e bambini costretti al lavoro forzato in germania e nei paesi occupati dal terzo reich. fu questa ideologia criminale che fu combattuta da tutte le nazioni che si riunirono alle nazioni unite nel 1945. 3. la cibd, contrariamente al testo della risoluzione del parlamento europeo del 19.9.2019 (punto 2), si oppone all’affermazione che il patto tedesco-sovietico (noto come molotov-ribbentrop) è l’origine della seconda guerra mondiale. questo per trascurare in questo testo altre cause come: il trattato di versailles, la crisi economica del 1929, la rioccupazione del saarland (1935), il patto anti-komintern (novembre 1936), l’asse roma-berlino (novembre 1936), l’annessione concordata dell’austria (marzo 1938), gli accordi di monaco (settembre 1938): non dimentichiamo le famose parole di winston churchill al primo ministro britannico chamberlain: “volevate evitare la guerra al prezzo del disonore, avete disonore e avrete la guerra”. la risoluzione ignora anche l’occupazione nazista della regione dei sudeti (ottobre 1938), l’invasione della cecoslovacchia da parte delle truppe tedesche (marzo 1939). 4. la cibd deplora una visione limitata nella risoluzione di quella che è stata la sofferenza inflitta alla russia, descritta come “la più grande vittima del totalitarismo comunista” (punto 15). significa dimenticare le sofferenze e le perdite inflitte all’unione sovietica dall’aggressione nazista a ovest e dalle forze giapponesi a est. 5. la cibd condanna che la risoluzione ignora completamente il genocidio e le sofferenze dei sinti e dei rom, così come ignora le persecuzioni contro gli omosessuali. anche le persecuzioni politiche, l’internamento e la deportazione di milioni di esseri umani in europa e il loro sfruttamento selvaggio nelle fabbriche di guerra naziste sono lasciati nella più totale ignoranza. nel 2020 sarà aperto a weimar un museo sul tema del lavoro forzato sotto il nazionalsocialismo, che porterà all’attenzione del grande pubblico il tragico destino degli internati e dei deportati del regime nazista. 6. la cibd ricorda – e nota che in questo testo non c’è nulla – che molti comunisti tedeschi furono le prime vittime dei campi di concentramento nazisti non appena furono aperti. la loro memoria non può essere dimenticata. gli ex deportati del campo di buchenwald e dei suoi campi esterni hanno vissuto nei loro cuori e nelle loro menti questi eventi senza precedenti, che sono le specificità dell’ideologia nazista. per questi motivi, a nome dei sopravvissuti del campo di tutte le nazioni e delle vittime di buchenwald e dei suoi 139 kommandos, a nome di tutte le vittime della barbarie nazista, la cibd considera questo testo un insulto inaccettabile per la memoria di queste vittime e di coloro che hanno combattuto per un’europa umanista e respinge categoricamente la risoluzione del parlamento europeo del 19.9.2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’europa”. se la costruzione di una coscienza europea del passato per il futuro dell’europa deve “basarsi” sulla denuncia di tutte le violazioni dei diritti umani e delle libertà, la cibd dichiara che ciò deve avvenire nel rispetto della verità storica, senza confronti forzati o amalgamazioni politiche.” comitato internazionale buchenwald dora e kommandos il sistema di difesa italo-francese. è già in turchia. manlio dinucci | ilmanifesto.it - 15/10/2019. germania, francia, italia e altri paesi, che in veste di membri della ue condannano la turchia per l'attacco in siria, sono insieme alla turchia membri della nato, la quale, mentre era già in corso l'attacco, ha ribadito il suo sostegno ad ankara. lo ha fatto ufficialmente il segretario generale della nato jean stoltenberg, incontrando l'11 ottobre in turchia il presidente erdogan e il ministro degli esteri çavusoglu. «la turchia è in prima linea in questa regione molto volatile, nessun altro alleato ha subito più attacchi terroristici della turchia, nessun altro è più esposto alla violenza e alla turbolenza proveniente dal medioriente», ha esordito stoltenberg, riconoscendo che la turchia ha «legittime preoccupazioni per la propria sicurezza». dopo averle diplomaticamente consigliato di «agire con moderazione», stoltenberg ha sottolineato che la turchia è «un forte alleato nato, importante per la nostra difesa collettiva», e che la nato è «fortemente impegnata a difendere la sua sicurezza». a tal fine - ha specificato - la nato ha accresciuto la sua presenza aerea e navale in turchia e vi ha investito oltre 5 miliardi di dollari in basi e infrastrutture militari. oltre a queste, vi ha dislocato un importante comando (non ricordato da stoltenberg): il landcom, responsabile del coordinamento di tutte le forze terrestri dell'alleanza. stoltenberg ha evidenziato l'importanza dei «sistemi di difesa missilistica» dispiegati dalla nato per «proteggere il confine meridionale della turchia», forniti a rotazione dagli alleati. a tale proposito il ministro degli esteri çavusoglu ha ringraziato in particolare l'italia. è dal giugno 2016 che l'italia ha dispiegato nella provincia turca sudorientale di kahramanmaras il «sistema di difesa aerea» samp-t, coprodotto con la francia. una unità samp-t comprende un veicolo di comando e controllo e sei veicoli lanciatori armati ciascuno di otto missili. situati a ridosso della siria, essi possono abbattere qualsiasi velivolo all'interno dello spazio aereo siriano. la loro funzione, quindi, è tutt'altro che difensiva. lo scorso luglio la camera e il senato, in base a quanto deciso dalle commissioni estere congiunte, hanno deliberato di estendere fino al 31 dicembre la presenza dell'unità missilistica italiana in turchia. stoltenberg ha inoltre informato che sono in corso colloqui tra italia e francia, coproduttrici del sistema missilistico samp-t, e la turchia che lo vuole acquistare. a questo punto, in base al decreto annunciato dal ministro degli esteri di maio di bloccare l'export di armamenti verso la turchia, l'italia dovrebbe ritirare immediatamente il sistema missilistico samp-t dal territorio turco e impegnarsi a non venderlo alla turchia. continua così il tragico teatrino della politica, mentre in siria continua a scorrere sangue. coloro che oggi inorridiscono di fronte alle nuove stragi e chiedono di bloccare l'export di armi alla turchia, sono gli stessi che voltavano la testa dall'altra parte quando lo stesso new york times pubblicava una dettagliata inchiesta sulla rete cia attraverso cui arrivavano in turchia, anche dalla croazia, fiumi di armi per la guerra coperta in siria (il manifesto, 27 marzo 2013). dopo aver demolito la federazione jugoslava e la libia, la nato tentava la stessa operazione in siria. la forza d'urto era costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da washington come terroristi) provenienti da afghanistan, bosnia, cecenia, libia e altri paesi. essi affluivano nelle province turche di adana e hatai, confinante con la siria, dove la cia aveva aperto centri di formazione militare. il comando delle operazioni era a bordo di navi nato nel porto di alessandretta. tutto questo viene cancellato e la turchia viene presentata dal segretario generale della nato come l'alleato «più esposto alla violenza e alla turbolenza proveniente dal medioriente».
Segue da Pag.7: L’attesa di tempi migliori: il documento di Economia e Finanza e l’assenza di misure per la crescita

all’Italia di inizi Novecento, quando, soprattutto per impulso del lucano Francesco Saverio Nitti, si avviò un programma di espansione dell’azione pubblica a tutela della salute, si realizzarono opere infrastrutturali e di riassetto idrogeologico (in Basilicata nel 1904, in Calabria nel 1906) e si attuò la legge speciale per Napoli (nel luglio del 1904). Si trattò di interventi non sempre di successo, ma che comunque alleviarono condizioni di estrema povertà – soprattutto al Sud – e che avviarono il processo di modernizzazione del Paese e il suo lento e faticoso aggancio al salto tecnologico della prima e della seconda rivoluzione industriale. La riuscita manovra di riequilibrio dei conti pubblici, attraverso il rinnovo di titoli fissi in scadenza a tassi di interesse più bassi, ebbe l’esito di creare un clima di fiducia sui mercati internazionali, riattivando la crescita economica e facendo aumentare il gettito fiscale.

Il fisco, appunto, costituisce un elemento cardine – nelle condizioni date – per provare a far ripartire l’economia italiana. Dopo le ‘riforme’ degli scorsi decenni, che lo hanno reso sempre meno progressivo, occorrerebbe mettere mano al sistema tributario per accentuarne il profilo di giustizia distributiva, come peraltro sancito dalla nostra Costituzione.

La NAdef è poi estremamente timida nei confronti di un settore strategico per la crescita economica, ovvero la ricerca e sviluppo. È vero che un recente provvedimento del MIUR ha avviato un percorso di riduzione dell’ipertrofia normativa che paralizza il settore (ci si riferisce al venir meno dell’obbligo di acquisto di beni e servizi tramite mercato elettronico, dunque ampliando la libertà di scelta dei fornitori) ma è anche vero che Università, fondazioni, centri di ricerca rimangono drammaticamente sottofinanziati in modo selettivo, a danno soprattutto di quasi tutte le sedi meridionali. D’altra parte, si può registrare il dato per il quale le èlites italiane hanno sempre mostrato disinteresse per l’istruzione.

È celebre, a riguardo, la domanda retorica che si pose Alessandro Manzoni: “quando saranno tutti dotti, a chi toccherà coltivare la terra?”. Si calcola che nel 1901 il tasso di analfabetismo si assestava a quasi il 50% rispetto al totale della popolazione residente e a ciò si può aggiungere che all’atto dell’unificazione esisteva un sistema di istruzione gratuita e obbligatoria, il cui finanziamento era però lasciato ai comuni, che, soprattutto nel Mezzogiorno, non disponevano di finanziamenti sufficienti[1].

Il punto politico in discussione riguarda, ancora una volta, l’assenza di una visione strategica per lo sviluppo del Paese. Va precisato che l’economia italiana è di fatto in una traiettoria recessiva da molti anni (alcuni analisti datano il cosiddetto declino economico italiano all’inizio degli anni novanta) e il principale indicatore riguarda il continuo calo del tasso di crescita della produttività del lavoro, peraltro quasi sempre inferiore alla media europea quantomeno nell’ultimo decennio.

La bassa crescita della produttività del lavoro è fondamentalmente imputabile al calo degli investimenti pubblici e privati. Proviamo a capire perché ciò è accaduto, a partire da alcune considerazioni sulle recenti vicende della nostra economia.

Terminato il ‘miracolo economico’ degli anni cinquanta-sessanta e dunque la stagione di una crescita trainata dalle esportazioni, negli anni settanta si registra un imponente ciclo di lotte operaie. Aumentano gli scioperi, diminuiscono le ore lavorate, aumentano i salari monetari. Aumenta considerevolmente il tasso di inflazione, soprattutto a seguito dello shock petrolifero del 1973. Le imprese del ‘triangolo industriale’, nel tentativo di contenere la conflittualità operaia e recuperare competitività di prezzo, avviano processi di decentramento produttivo, spostando la produzione in unità di piccole dimensioni inizialmente nel Nord Est. Si indebolisce, per conseguenza, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’inflazione comincia a essere ridotta.

L’arrivo della crisi del 2008 fa deflagrare tutti i problemi sedimentatisi nei decenni precedenti e si innesta su una struttura produttiva divenuta progressivamente sempre più fragile e caratterizzata da piccole dimensioni aziendali, forte dipendenza dal credito bancario, specializzazione in settori tecnologicamente maturi (turismo, agroalimentare, beni di lusso).

Negli anni più recenti, nessun Governo ha provato a invertire la rotta, ovvero a rendere il nostro sistema produttivo più forte e più competitivo su scala internazionale attraverso investimenti in innovazione. Per contro, gli investimenti pubblici si sono continuamente ridotti e si è continuamente ridotta la spesa pubblica in ricerca e sviluppo (a fronte peraltro di una spesa privata in ricerca e sviluppo di dimensioni irrisorie). Ciò è probabilmente da imputare all’estrema difficoltà di recuperare il terreno perso (è difficile re-industrializzare un Paese dopo decenni di politiche di de-industrializzazione), alla convinzione che l’Italia possa crescere in virtù della presunta eccellenza del ‘piccolo è bello’ e delle sue produzioni artigianali, alla scorciatoia politica di rinunciare a interventi sulla struttura produttiva con investimenti pubblici il cui effetto si vedrebbe nel lungo periodo. Si aumenta dunque la spesa corrente, quella che maggiormente si presume abbia effetti sull’acquisizione di consenso.

Si arriva al 2018. Il cosiddetto Governo del cambiamento, a trazione leghista, fa propria la convinzione che questi problemi dipendano dai vincoli europei, sulla scia di una ormai decennale elaborazione teorica per la quale le condizioni materiali di vita dei cittadini italiani migliorerebbero se si potesse fare a meno dell’euro. Si tratta di una tesi errata e che non coglie la reale portata del problema (economico e politico). Va ricordato che le svalutazioni della lira (7 casi dal 1979 al 1992) si sono sempre accompagnate a cali di produttività, per effetto della possibilità accordata alle imprese di competere con un cambio favorevole rinunciando a innovare. A ciò si può aggiungere il fatto che, poiché soprattutto negli ultimi decenni le imprese italiane esportatrici sono localizzate prevalentemente a Nord, le svalutazioni della lira hanno di norma prodotto un ampliamento dei divari regionali.

Il Governo del cambiamento ripropone una linea di politica economica eccessivamente sbilanciata sulla spesa corrente: trasferimenti monetari alle famiglie (reddito di cittadinanza e quota 100 in primis) – rispetto alla spesa per investimenti.

Gli investimenti pubblici rispetto ai trasferimenti monetari presentano un duplice vantaggio ai fini della crescita:
1. Creano uno stock di capitale fisso (si pensi alla messa in sicurezza del territorio, alle opere pubbliche, alle infrastrutture) che attiva effetti di complementarietà rispetto agli investimenti privati: si pensi, a titolo esemplificativo, al potenziamento della logistica (dunque al potenziamento della rete dei trasporti) e agli effetti che questa misura potrebbe avere per l’aumento degli investimenti o per l’attrazione di investimenti dall’estero.
2. Se rivolti al finanziamento della ricerca (che, per sua natura, dà risultati incerti e di lungo periodo) possono attivare crescita attraverso la generazione di innovazioni. Si può considerare, a riguardo, che – come ampiamente mostrato – pressoché tutte le innovazioni del Novecento nel settore privato si sono rese possibili a seguito di una preventiva spesa dello Stato per il finanziamento di centri di ricerca.
La scelta di allocare gran parte delle risorse pubbliche disponibili per spesa corrente – oltre a essere finalizzata all’acquisizione di consenso in un’ottica di breve periodo – risponde anche alla base elettorale dei partiti del Governo Conte 1[2]. Si tutelano, in tal modo, gli interessi della piccola impresa che opera su mercati locali, che non esporta e che produce prevalentemente beni di consumo per i quali non occorrono innovazioni. Assecondare questi interessi significa far sopravvivere imprese che diversamente fallirebbero nella competizione globale e soprattutto – dati i vincoli del bilancio pubblico – rinunciare a politiche alternative, in primis di incentivazione alle innovazioni, che costituirebbero il presupposto per il rilancio dell’economia italiana.

Il Governo Conte 2 non sembra in grado di abbandonare le line di policy ereditate: si tratta di un fattore di inerzia, probabilmente di assenza di coraggio e di una visione di lungo periodo, di certo si tratta di un temporeggiare in attesa di tempi migliori, sperando innanzitutto nella cessazione delle guerre commerciali e nella ripresa del commercio internazionale.

NOTE
[1] V. Tullio De Mauro (1970). Storia linguistica dell’Italia unita, ripubblicato nel 2011. Roma-Bari: Laterza.
[2] E’ quello che il compianto Marcello del Cecco definiva “keynesismo criminale” con riferimento all’esplosione del debito pubblico negli anni ottanta (Cfr. Riccardo Bellofiore, La lezione di Marcello De Cecco, “Sbilanciamoci”, 23 novembre 2016: http://sbilanciamoci.info/la-lezione-un-conservatore-illuminato/).

Dichiarazione della Commissione Internazionale Buchenwald Dora e Kommandos (CIBD).

written by r.soave
8 Ottobre 2019
Comitato di Buchenwald:

“La commissione internazionale Buchenwald Dora e Kommandos (CIBD) esprime profonda preoccupazione per la risoluzione del Parlamento europeo del 19.9.2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa.

La CIBD ritiene che il testo di questa prima risoluzione del neoeletto Parlamento europeo sul ruolo della memoria storica nell’educazione dei giovani e nella costruzione di un’Europa
libera e democratica sia un insulto intollerabile alle vittime del fascismo e del nazismo, nonché ai costruttori di un’Europa pacifica, democratica e libera.
La risoluzione di cui sopra è giustamente preoccupata, nell’ultima parte del testo, per l’aumento dell’odio basato sull’identità in Europa. Chiede di vietare i gruppi neofascisti e neonazisti (punto 20). Sottolinea inoltre che “è necessario continuare a trarre dal tragico passato europeo l’ispirazione morale e politica necessaria per affrontare le sfide del mondo contemporaneo e, in particolare, lottare per un mondo più giusto, costruire società e comunità tolleranti e aperte che accolgano le minoranze sessuali, religiose ed etniche, e garantire che i valori europei vadano a beneficio di tutti” (punto 21). Tuttavia, questa risoluzione rimane il risultato di compromessi malsani e sviluppa argomenti fallaci e inaccettabili che maltrattano la verità storica.

La CIBD chiede pertanto il ritiro immediato della risoluzione P9_TA-PROV(2019)0021.

La CIBD si basa sulla seguente motivazione in questa dichiarazione:

1. L’IBCD si rammarica che la risoluzione del Parlamento europeo sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa non menzioni nel suo testo la risoluzione decisiva del Parlamento europeo dell’11 febbraio 1993 sulla “Protezione e conservazione dei siti della memoria degli ex campi di concentramento”.
2.La CIBD ricorda che in nessun caso possiamo mettere sullo stesso piano il nazismo di Hitler e il comunismo di Stalin e definirli sotto il termine generale di “totalitarismo” così come è stato applicato dal 1930 al regime di Mussolini. Alcuni parlamentari dimenticano che i loro paesi, situati nell’orbita nazista, hanno sviluppato in questi anni una propria forma di totalitarismo: Finlandia, Spagna, Portogallo, Ungheria, Polonia….. La CIBD chiede che una risoluzione del Parlamento europeo sulla consapevolezza del passato non ignori le specificità del nazismo; razzismo, antisemitismo, genocidio di ebrei, sinti e rom, crimini contro i malati mentali e fisici sono alla base di quella che fu la politica nazista, insieme ai previsti e sistematici massacri contro le popolazioni slave, nonché la schiavitù di milioni di uomini, donne e bambini costretti al lavoro forzato in Germania e nei paesi occupati dal Terzo Reich. Fu questa ideologia criminale che fu combattuta da tutte le nazioni che si riunirono alle Nazioni Unite nel 1945.
3. La CIBD, contrariamente al testo della risoluzione del Parlamento europeo del 19.9.2019 (punto 2), si oppone all’affermazione che il patto tedesco-sovietico (noto come Molotov-Ribbentrop) è l’origine della seconda guerra mondiale. Questo per trascurare in questo testo altre cause come: il Trattato di Versailles, la crisi economica del 1929, la rioccupazione del Saarland (1935), il Patto Anti-Komintern (novembre 1936), l’asse Roma-Berlino (novembre 1936), l’annessione concordata dell’Austria (marzo 1938), gli Accordi di Monaco (settembre 1938): Non dimentichiamo le famose parole di Winston Churchill al primo ministro britannico Chamberlain: “Volevate evitare la guerra al prezzo del disonore, avete disonore e avrete la guerra”. La risoluzione ignora anche l’occupazione nazista della regione dei Sudeti (ottobre 1938), l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe tedesche (marzo 1939).
4. La CIBD deplora una visione limitata nella risoluzione di quella che è stata la sofferenza inflitta alla Russia, descritta come “la più grande vittima del totalitarismo comunista” (punto 15). Significa dimenticare le sofferenze e le perdite inflitte all’Unione Sovietica dall’aggressione nazista a ovest e dalle forze giapponesi a est.
5. La CIBD condanna che la risoluzione ignora completamente il genocidio e le sofferenze dei sinti e dei rom, così come ignora le persecuzioni contro gli omosessuali. Anche le persecuzioni politiche, l’internamento e la deportazione di milioni di esseri umani in Europa e il loro sfruttamento selvaggio nelle fabbriche di guerra naziste sono lasciati nella più totale ignoranza. Nel 2020 sarà aperto a Weimar un museo sul tema del lavoro forzato sotto il nazionalsocialismo, che porterà all’attenzione del grande pubblico il tragico destino degli internati e dei deportati del regime nazista.
6. La CIBD ricorda – e nota che in questo testo non c’è nulla – che molti comunisti tedeschi furono le prime vittime dei campi di concentramento nazisti non appena furono aperti. La loro memoria non può essere dimenticata.

Gli ex deportati del campo di Buchenwald e dei suoi campi esterni hanno vissuto nei loro cuori e nelle loro menti questi eventi senza precedenti, che sono le specificità dell’ideologia nazista.

Per questi motivi,
A nome dei sopravvissuti del campo di tutte le nazioni e delle vittime di Buchenwald e dei suoi 139 kommandos,

A nome di tutte le vittime della barbarie nazista,

La CIBD considera questo testo un insulto inaccettabile per la memoria di queste vittime e di coloro che hanno combattuto per un’Europa umanista e respinge categoricamente la risoluzione del Parlamento europeo del 19.9.2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”.

Se la costruzione di una coscienza europea del passato per il futuro dell’Europa deve “basarsi” sulla denuncia di tutte le violazioni dei diritti umani e delle libertà, la CIBD dichiara che ciò deve avvenire nel rispetto della verità storica, senza confronti forzati o amalgamazioni politiche.”

Comitato internazionale Buchenwald Dora e Kommandos

Il sistema di difesa italo-francese
è già in Turchia

Manlio Dinucci | ilmanifesto.it - 15/10/2019

Germania, Francia, Italia e altri paesi, che in veste di membri della Ue condannano la Turchia per l'attacco in Siria, sono insieme alla Turchia membri della Nato, la quale, mentre era già in corso l'attacco, ha ribadito il suo sostegno ad Ankara. Lo ha fatto ufficialmente il segretario generale della Nato Jean Stoltenberg, incontrando l'11 ottobre in Turchia il presidente Erdogan e il ministro degli esteri Çavusoglu.

«La Turchia è in prima linea in questa regione molto volatile, nessun altro Alleato ha subito più attacchi terroristici della Turchia, nessun altro è più esposto alla violenza e alla turbolenza proveniente dal Medioriente», ha esordito Stoltenberg, riconoscendo che la Turchia ha «legittime preoccupazioni per la propria sicurezza». Dopo averle diplomaticamente consigliato di «agire con moderazione», Stoltenberg ha sottolineato che la Turchia è «un forte Alleato Nato, importante per la nostra difesa collettiva», e che la Nato è «fortemente impegnata a difendere la sua sicurezza».

A tal fine - ha specificato - la Nato ha accresciuto la sua presenza aerea e navale in Turchia e vi ha investito oltre 5 miliardi di dollari in basi e infrastrutture militari. Oltre a queste, vi ha dislocato un importante comando (non ricordato da Stoltenberg): il LandCom, responsabile del coordinamento di tutte le forze terrestri dell'Alleanza. Stoltenberg ha evidenziato l'importanza dei «sistemi di difesa missilistica» dispiegati dalla Nato per «proteggere il confine meridionale della Turchia», forniti a rotazione dagli Alleati. A tale proposito il ministro degli esteri Çavusoglu ha ringraziato in particolare l'Italia. È dal giugno 2016 che l'Italia ha dispiegato nella provincia turca sudorientale di Kahramanmaras il «sistema di difesa aerea» Samp-T, coprodotto con la Francia.

Una unità SAMP-T comprende un veicolo di comando e controllo e sei veicoli lanciatori armati ciascuno di otto missili.
Situati a ridosso della Siria, essi possono abbattere qualsiasi velivolo all'interno dello spazio aereo siriano. La loro funzione, quindi, è tutt'altro che difensiva. Lo scorso luglio la Camera e il Senato, in base a quanto deciso dalle commissioni estere congiunte, hanno deliberato di estendere fino al 31 dicembre la presenza dell'unità missilistica italiana in Turchia.

Stoltenberg ha inoltre informato che sono in corso colloqui tra Italia e Francia, coproduttrici del sistema missilistico Samp-T, e la Turchia che lo vuole acquistare.

A questo punto, in base al decreto annunciato dal ministro degli Esteri Di Maio di bloccare l'export di armamenti verso la Turchia, l'Italia dovrebbe ritirare immediatamente il sistema missilistico Samp-T dal territorio turco e impegnarsi a non venderlo alla Turchia. Continua così il tragico teatrino della politica, mentre in Siria continua a scorrere sangue.

Coloro che oggi inorridiscono di fronte alle nuove stragi e chiedono di bloccare l'export di armi alla Turchia, sono gli stessi che voltavano la testa dall'altra parte quando lo stesso New York Times pubblicava una dettagliata inchiesta sulla rete Cia attraverso cui arrivavano in Turchia, anche dalla Croazia, fiumi di armi per la guerra coperta in Siria (il manifesto, 27 marzo 2013). Dopo aver demolito la Federazione Jugoslava e la Libia, la Nato tentava la stessa operazione in Siria. La forza d'urto era costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi.

Essi affluivano nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia aveva aperto centri di formazione militare. Il comando delle operazioni era a bordo di navi Nato nel porto di Alessandretta. Tutto questo viene cancellato e la Turchia viene presentata dal segretario generale della Nato come l'Alleato «più esposto alla violenza e alla turbolenza proveniente dal Medioriente».

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  

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