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La VOCE 1911 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XXII N°3 | novembre 2019 | PAGINA 6 |
segue da pag.5: la vita al lavoro, il senso dei lavori: pensieri e pratiche femministe
scolarizzazione raggiunta dalle giovani donne e l’alta formazione universitaria che le vede ben più protagoniste dei maschi nelle lauree e nei dottorati non sono più dinamiche capaci di garantire un qualche ascensore sociale al “gentil sesso”. non sono bastate dunque le leggi a garantire diritti sociali e lavorativi reali alle donne all’interno del costrutto patriarcale delle società occidentali: la società e il mondo del lavoro resistono al desiderio di uguaglianza femminile e potranno essere investiti dal cambiamento solo attraverso un’azione di decostruzione culturale che passi per la messa in discussione del ruolo della donna prima che nel lavoro, nella politica, nella famiglia e nelle relazioni di genere fra donna e uomo.
anche l’italiana claudia candeloro ha evidenziato come in ragione del processo di integrazione europea la normativa italiana sul lavoro abbia subito grandi cambiamenti che hanno fatto deragliare il sistema italiano delle tutele da una fase di “universalità” dei diritti guadagnata sulla scia delle lotte del movimento operaio degli anni ‘60 e ‘70 del novecento alla fase attuale, in cui vaste categorie di lavoratori e lavoratrici nella new economy non sono più tutelati nei diritti sindacali, del lavoro e della conciliazione famiglia-lavoro. accanto alla erosione di tutele storiche come il diritto al reintegro nel posto di lavoro per licenziamenti senza giusta causa (che impegnava a tempo pieno avvocati e giudici lavoristi durante le crisi industriali tra gli anni sessanta e novanta), si è evoluta una normativa antidiscriminatoria che ambirebbe alla tutela rafforzata di gruppi di lavoratori considerati potenzialmente a rischio di discriminazione a motivo della loro ideologia, età, genere, orientamento sessuale, o condizioni di disabilità. candeloro denuncia come una siffatta normativa, lungi dall’aver garantito una tutela rafforzata alle lavoratrici - peraltro rimaste oggetto di ricatto su più fronti in ambito lavorativo - le costringa invece ad assumere l’onere quasi sempre insostenibile di dimostrare che la violazione dei loro diritti è conseguenza di un “atteggiamento discriminatorio”, derubricando di fatto a conflitto inter partes ( di natura privatistica) la fondamentale lesione di un diritto alla tutela nel lavoro che è e deve restare universale.
skerdilajda zanaj - economista, professoressa associata e delegata di genere all’università del lussemburgo e consulente del governo albanese per la regolamentazione economica e il processo di adesione all’unione europea - ha presentato il caso del suo paese, l’albania: la nazione europea più povera ma con un tasso di partecipazione delle donne al lavoro maggiore che in italia. nella culture economics le ricerche recenti indagano, formalizzano attraverso dati matematici ed enfatizzano l’impatto dei differenziali di formazione, genere, etnia, e altre variabili socio-economiche tra le discriminanti nell’accesso al lavoro e a migliori opportunità occupazionali, soprattutto dopo l’avvento della new economy. con riferimento a 4 fattori fondamentali attivi sul divario di genere nel lavoro nella generalità dei paesi - fattori storico-geografici, norme sociali e loro trasmissione, sviluppo economico e povertà - s. zanaj ha evidenziato come in albania l’atteggiamento sociale nei confronti delle donne e dei loro ambiti lavorativi sia stato diverso durante l’occupazione ottomana per cinque secoli dal 1478 al 1912, l’occupazione italiana e tedesca dal 1939 al ‘43 e nell’esperienza della repubblica socialista di albania tra ’46 e 1991.
nel 2003 uno studio realizzato da guiso, sapienza e zingales aveva evidenziato come, pur con differenziali fra le diverse religioni, le persone religiose e i fedeli attivi esprimono meno supporto verso i diritti delle donne e verso un ruolo delle donne all’interno della famiglia diverso da quello tradizionale. lo studio telhaj&murphy del 2019, ha analizzato secondo seri criteri econometrici la variabilità della partecipazione al lavoro delle donne nel periodo “antireligioso” successivo al 1967, anno in cui l’albania si era dichiarata primo paese ateo al mondo, vietando ogni forma di espressione religiosa. dalla ricerca emerge il profondo impatto della religione sui ruoli di genere e l’accesso delle donne al mercato del lavoro. da un paese “feudale” fino al 1946, dove la donna lavorava nei campi, sostanzialmente esclusa dal mercato del lavoro, in 20 anni sono state guadagnati grandi diritti al lavoro per le donne, prima nella fase dell’albania comunista, e poi il trend è continuato grazie alla trasmissione intergenerazionale tra madre e figlia albanese del nuovo modello culturale di donna-lavoratrice e le donne non sono più “tornate a casa”. oggi l’accesso alla formazione universitaria delle donne albanesi è in costante crescita e la loro partecipazione al mercato del lavoro è esplosa raggiungendo il 57,7% con un incremento veloce di 8 punti negli ultimi 5 anni, mentre il divario salariale fra donne e uomini è di solo 5,4 punti percentuali, quando la media mondiale è del 18,4% (dati ilo, international labour organization 2018).
tra gli studenti universitari albanesi il 44,6% sono maschi e il 67,9% sono femmine e gli stage di specializzazione all’estero (tirana-lussemburgo per es.) vedono protagoniste quasi solo le studentesse, che si mettono in gioco molto più dei colleghi maschi. oggi le donne in possesso del titolo di professore ordinario nell’università di tirana sono il 45,2%, mentre in lussemburgo sono il 14,2%, e nel 2017 la presenza femminile negli organi accademici dirigenti a tirana è stata del 38,1%.
un aspetto particolare è poi la propensione e l’alto numero di studentesse iscritte alle facoltà di scienze esatte - le cosiddette stem: science, technology, engineering and mathematics - più alto della francia e belgio messi insieme (dati eurostat) pur avendo l’albania un’unica università pubblica fondata nel 1957, l’università statale di tirana da cui è gemmata divenendo autonoma l’università politecnica. fondato nel 1957, l’ateneo di tirana oggi comprende sette facoltà con oltre trenta dipartimenti che coprono le scienze umane e sociali, economiche, naturali e biomediche. gli studenti immatricolati sono circa 14.000 e i professori 600. il fenomeno della propensione alle stem sembra riflettere però anche una scarsa libertà di scelta delle donne ed è stato osservato in vari paesi in via di sviluppo come algeria, tunisia, vietnam, albania, indonesia, dove la scelta delle competenze diventa pregiudiziale per l’inserimento lavorativo nei campi tecnologici dei nuovi lavori, mentre nei paesi a sviluppo socio-economico di più antica data come quelli nord e centro europei (svezia, irlanda svizzera, germania, francia, italia) le donne continuano a scegliere secondo il proprio “gusto” valoriale che appare tuttora legato a modelli culturali tradizionali (facoltà umanistiche, scienze sociali o dell’area medica) che non intercettano le possibilità lavorative offerte dal modello di sviluppo globalizzato e sempre più tecnologizzato.
skerdi zanaj sottolinea anche come, oltre all’alta formazione, un altro fattore che impatta sul lavoro delle donne sono le politiche di genere dello stato (gender policies) risultato dell’attività legislativa prevalentemente parlamentare: ebbene queste politiche di genere aumentano e si qualificano proporzionalmente alla presenza nei parlamenti nazionali e sovranazionali di un alto numero di deputate e senatrici donne: in albania si è passati dal 18% del 2013 al 29% del 2018. molto interessante a questo proposito lo studio lippman del 2019 che in francia ha analizzato l’attività parlamentare nell’arco del 2017 in cui sono stati presentati circa 300.000 emendamenti parlamentari. dallo studio emerge come le donne parlamentari difendano gli interessi e i diritti delle donne più dei deputati maschi, concentrando la propria attività legislativa sulle questioni di genere, seguite dai temi riguardanti i minori e la salute. i parlamentari maschi hanno invece una maggior probabilità di presentare emendamenti sulle questioni elettorali e militari. le donne in parlamento dunque hanno il doppio delle probabilità di avviare emendamenti relativi alle donne, ed è quindi evidente come le quote di genere negli ambiti della rappresentanza politica producano uno spostamento delle decisioni politiche e una maggiore priorità per le questioni femminili in parlamento.
enrica rigo, professoressa associata di filosofia del diritto all’università roma tre è una ricercatrice sui temi giuridici della cittadinanza anche in rapporto ai confini esterni dell’europa e in rapporto al processo di allargamento europeo e alla critica postcoloniale. riga è anche attivista a roma del movimento non una di meno. dalla sua esperienza di direttora della clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza ha riportato osservazioni sulle contraddizioni del rapporto fra donne autoctone e donne migranti: richiamandosi agli scritti di sara farris e raccontando l’esperimento sociale di barbara ehrenreich - la saggista, accademica e opinionista socialdemocratica statunitense che a fine anni novanta visse in prima persona l’esperimento sociale di sopravvivere tre mesi lavorando con un salario minimo come cameriera, donna delle pulizie e commessa nei supermercati walmart -, ci ha ricordato come la liberazione delle donne occidentali si sia poggiata storicamente e continui a fare perno sulla subordinazione delle donne migranti.
denunciando come la mobilità dei lavoratori in europa sia oggi appiattita sotto una definizione e regolamentazione legata al solo lavoro produttivo, rigo ha analizzato il ruolo che la mobilità umana, in particolare delle donne, svolge nel processo di riproduzione sociale e della forza-lavoro, come emerge anche dagli studi di silvia federici e alisa del re, ed evidenziando il grande apporto delle donne migranti alle società di arrivo (sia in termini fiscali e contributivi sia in termini di lavoro di cura e di welfare sociale per donne, bambini e anziani) e naturalmente alle società di partenza in termini di rimesse economiche, fondamentali per la sopravvivenza di interi nuclei familiari nel paese d’origine.
sulle tematiche migratorie è intervenuta anche edda pando, peruviana giunta in italia da lima vari anni fa, nel 1991, e fondatrice di arci todo cambia, dell’università migrante di milano e della rete milano senza frontiere; come attivista per i diritti dei migranti sostiene l’autorganizzazione dei migranti nel capoluogo lombardo e percorsi interculturali fra immigrati e autoctoni. pando parla di “paradigma migrante”, nel senso che i lavoratori e le lavoratrici stranieri immigrati in italia rappresentano sempre più ciò che il sistema vorrebbe estendere come modalità generalizzata di sfruttamento verso i lavoratori e le lavoratrici autoctone: precarietà assoluta, assenza di qualsiasi stabilità lavorativa, mancanza di tutele sindacali, ricattabilità costante e perenne instabilità materiale ed esistenziale.
enrica rigo ed edda pando hanno posto questioni che chiedono una risposta urgente e politica: “per quale motivo in italia i decreti flussi non si fanno più dal 2011 e in italia si entra solo per ricongiungimento o asilo? integravamo 170.000 lavoratori stranieri l’anno; ora dove li prendiamo e perché preferiamo prenderli dalle migrazioni forzate? tra il 2014 e il 2017 le donne richiedenti asilo sono quadruplicate e si muovono per lo più sulla rotta del mediterraneo centrale, mentre su quella balcanica più del 50% sono donne e bambini. perché stiamo chiudendo le frontiere proprio adesso? perché non si rinnovano i permessi di soggiorno? perché la raccolta di pomodori viene pagata 3 euro l’ora e non si costruiscono case ma ghetti per i migranti impiegati nei lavori agricoli? perché si negano i diritti di cittadinanza e lo ius culturae se non per colpire le condizioni di vita delle donne e degli uomini migranti, perpetuando e allargando le occasioni del loro sfruttamento?
la femminista italiana cinzia arruzza è professoressa presso la new school of social research di new york. recentemente, insieme a nancy fraser e tithi bhattacharya, ha pubblicato il volume “un manifesto per un femminismo del 99%”. durante il convegno alla casa delle donne di roma, arruzza è intervenuta in collegamento video riproponendo alcune delle tesi, espresse nel libro, sulla relazione tra capitalismo e patriarcato e tra genere e classe, alla luce della nuova onda femminista su scala internazionale: “il femminismo del 99% è l’alternativa anticapitalista al femminismo liberale che negli ultimi decenni era diventato egemonico per l’estinguersi delle mobilitazioni e delle lotte in tutto il mondo. con l’espressione femminismo liberale ci riferiamo a un femminismo incentrato sulle libertà e sull’uguaglianza formale, che persegue l’eliminazione delle diseguaglianze di genere con strumenti accessibili solo alle donne che appartengono all’élite: si pensi al modello incarnato da personalità come hillary clinton o altre donne che hanno perseguito un empowerment che le mette comunque in posizioni apicali e di privilegio; oppure si pensi al femminismo predicato dalle destre che in europa, soprattutto nei paesi dell’est, sta diventando un alleato di molti governi in tema di politiche islamofobe “in nome dei diritti delle donne”, come ha spiegato sara farris nel suo libro “in the name of women′s rights: the rise of femonationalism”. invece il femminismo del 99% è anche apertamente anticapitalista e antirazzista: non separa l’uguaglianza formale e l’emancipazione dalla necessità di trasformare la società e le relazioni sociali nella loro totalità, non lo separa dalla necessità di superare lo sfruttamento del lavoro, il saccheggio delle risorse naturali, il razzismo, la guerra e l’imperialismo. è parte del transfemminismo, difende i diritti e le necessità delle lavoratrici sessuali, cerca alleanze sociali e politiche con tutti i movimenti che lottano per un mondo che sia migliore per il 99%.
io penso che la recente nuova onda femminista è l’unica mobilitazione esistente a livello transnazionale, che unisce milioni di donne e uomini di tutto il mondo. inoltre in alcuni paesi è già difficile ora distinguere chiaramente tra lotta di classe e movimento femminista: penso soprattutto all’argentina, ma anche alla spagna o all’italia. credo che coloro che sono sinceramente interessati a un ritorno della lotta di classe, dovrebbero lasciare, una volta per tutte, gli atteggiamenti divisori e di disprezzo nei confronti della nuova onda femminista. dovrebbero smettere di pensare che le mobilitazioni femministe sono un’antitesi della lotta di classe o, nel migliore dei casi, un complemento esterno. vorrei invitare a pensare al nuovo movimento femminista come a un processo di radicalizzazione e politicizzazione nel quale la soggettività delle lavoratrici - molto spesso giovani, precarie, sotto pagate o non pagate, sfruttate e molestate sessualmente nei luoghi di lavoro - sta emergendo come una soggettività combattiva e potenzialmente anticapitalista.
a conclusione dell’edizione 2019 di “libertà delle donne nel xxi”, a far sintesi dei molti temi dibattuti, rimbalzano le domande poste da nicoletta pirotta di iniziativa femminista europea: “come si ricostruisce un sistema europeo di welfare e di diritti capace di superare l’ideologia della domesticità e lo sfruttamento della catena globale della cura? è sufficiente rivendicare parità di salario, tempi di lavoro compatibili con la riproduzione, diritto alla maternità e fine delle discriminazioni di genere se non si intaccano le divisioni sessiste e razziste del mondo del lavoro? un salario minimo europeo e un reddito di autodeterminazione possono costruire per le donne percorsi di autonomia e fuoriuscita dalla violenza? le esperienze di autogestione e di neomutualismo, che stanno coinvolgendo molte donne e alludono a modelli alternativi di produzione e riproduzione sociale possono essere obiettivi da lanciare su scala europea? come diffondere la pratica dello sciopero globale delle donne, lanciato da non una di meno contro l’oppressione in ogni ambito della vita e come pratica collettiva di lotta contro la privatizzazione, la femminilizzazione e la razzializzazione del lavoro?”
il califfo: film cia tra fiction e realta'.
comitato promotore della campagna #no guerra #no nato.
italia.
la notizia di manlio dinucci - dietro la maschera «anti-isis».
pandora tv.
1950 iscritti.
dietro la maschera anti-isis, video di scottante attualita', pubblicato su pandora tv il 1° febbraio 2016: mostra le prove di come gli usa e la nato hanno sostenuto e armato l'isis.
manlio dinucci - (il manifesto, 29 ottobre 2019).
«è stato come guardare un film», ha detto il presidente trump dopo aver assistito alla eliminazione di abu bakr al baghdadi, il califfo capo dell’isis, trasmessa nella situation room della casa bianca. qui, nel 2011, il presidente obama assisteva alla eliminazione dell’allora nemico numero uno, osama bin laden, capo di al qaeda.
stessa sceneggiatura:
i servizi segreti usa avevano da tempo localizzato il nemico; questi non viene catturato ma eliminato: bin laden è ucciso, al baghdadi si suicida o è «suicidato»; il corpo sparisce: quello di bin laden è sepolto in mare, i resti al baghdadi disintegrato dalla cintura esplosiva sono anch’essi dispersi in mare.
stessa casa produttrice del film: la comunità di intelligence, formata da 17 organizzazioni federali. oltre alla cia (agenzia centrale di intelligence) vi è la dia (agenzia di intelligence della difesa), ma ogni settore delle forze armate, così come il dipartimento di stato e quello della sicurezza della patria, ha un proprio servizio segreto.
per le azioni militari la comunità di intelligence usa il comando delle forze speciali, dispiegate in almeno 75 paesi, la cui missione ufficiale comprende, oltre alla «azione diretta per eliminare o catturare nemici», la «guerra non-convenzionale condotta da forze esterne, addestrate e organizzate dal comando».
è esattamente quella che viene avviata in siria nel 2011, lo stesso anno in cui la guerra usa/nato demolisce la libia. lo dimostrano documentate prove, già pubblicate sul manifesto.
ad esempio, nel marzo 2013 il new york times pubblica una dettagliata inchiesta sulla rete cia attraverso cui arrivano in turchia e giordania, con il finanziamento di arabia saudita e altre monarchie del golfo, fiumi di armi per i militanti islamici addestrati dal comando delle forze speciali usa prima di essere infiltrati in siria.
nel maggio 2013, un mese dopo aver fondato l’isis, al baghdadi incontra in siria una delegazione del senato degli stati uniti capeggiata da john mccain, come risulta da documentazione fotografica.
nel maggio 2015 viene desecretato da judicial watch un documento del pentagono, datato 12 agosto 2012, in cui si afferma che c’è «la possibilità di stabilire un principato salafita nella siria orientale, e questo è esattamente ciò che vogliono i paesi occidentali, gli stati del golfo e la turchia che sostengono l’opposizione».
..segue ./.
Segue da Pag.5: La vita al lavoro, il senso dei lavori: pensieri e pratiche femministe
scolarizzazione raggiunta dalle giovani donne e l’alta formazione universitaria che le vede ben più protagoniste dei maschi nelle lauree e nei dottorati non sono più dinamiche capaci di garantire un qualche ascensore sociale al “gentil sesso”. Non sono bastate dunque le leggi a garantire diritti sociali e lavorativi reali alle donne all’interno del costrutto patriarcale delle società occidentali: la società e il mondo del lavoro resistono al desiderio di uguaglianza femminile e potranno essere investiti dal cambiamento solo attraverso un’azione di decostruzione culturale che passi per la messa in discussione del ruolo della donna prima che nel lavoro, nella politica, nella famiglia e nelle relazioni di genere fra donna e uomo. Anche l’italiana Claudia Candeloro ha evidenziato come in ragione del processo di integrazione europea la normativa italiana sul lavoro abbia subito grandi cambiamenti che hanno fatto deragliare il sistema italiano delle tutele da una fase di “universalità” dei diritti guadagnata sulla scia delle lotte del movimento operaio degli anni ‘60 e ‘70 del Novecento alla fase attuale, in cui vaste categorie di lavoratori e lavoratrici nella New Economy non sono più tutelati nei diritti sindacali, del lavoro e della conciliazione famiglia-lavoro. Accanto alla erosione di tutele storiche come il diritto al reintegro nel posto di lavoro per licenziamenti senza giusta causa (che impegnava a tempo pieno avvocati e giudici lavoristi durante le crisi industriali tra gli anni Sessanta e Novanta), si è evoluta una normativa antidiscriminatoria che ambirebbe alla tutela rafforzata di gruppi di lavoratori considerati potenzialmente a rischio di discriminazione a motivo della loro ideologia, età, genere, orientamento sessuale, o condizioni di disabilità. Candeloro denuncia come una siffatta normativa, lungi dall’aver garantito una tutela rafforzata alle lavoratrici - peraltro rimaste oggetto di ricatto su più fronti in ambito lavorativo - le costringa invece ad assumere l’onere quasi sempre insostenibile di dimostrare che la violazione dei loro diritti è conseguenza di un “atteggiamento discriminatorio”, derubricando di fatto a conflitto inter partes ( di natura privatistica) la fondamentale lesione di un diritto alla tutela nel Lavoro che è e deve restare universale. Skerdilajda Zanaj - Economista, professoressa associata e delegata di Genere all’Università del Lussemburgo e consulente del governo albanese per la regolamentazione economica e il processo di adesione all’Unione Europea - ha presentato il caso del suo paese, l’Albania: la nazione europea più povera ma con un tasso di partecipazione delle donne al lavoro maggiore che in Italia. Nella Culture Economics le ricerche recenti indagano, formalizzano attraverso dati matematici ed enfatizzano l’impatto dei differenziali di formazione, genere, etnia, e altre variabili socio-economiche tra le discriminanti nell’accesso al lavoro e a migliori opportunità occupazionali, soprattutto dopo l’avvento della New Economy. Con riferimento a 4 fattori fondamentali attivi sul divario di Genere nel Lavoro nella generalità dei Paesi - fattori storico-geografici, norme sociali e loro trasmissione, sviluppo economico e povertà - S. Zanaj ha evidenziato come in Albania l’atteggiamento sociale nei confronti delle donne e dei loro ambiti lavorativi sia stato diverso durante l’occupazione ottomana per cinque secoli dal 1478 al 1912, l’occupazione italiana e tedesca dal 1939 al ‘43 e nell’esperienza della Repubblica Socialista di Albania tra ’46 e 1991. Nel 2003 uno studio realizzato da Guiso, Sapienza e Zingales aveva evidenziato come, pur con differenziali fra le diverse religioni, le persone religiose e i fedeli attivi esprimono meno supporto verso i diritti delle donne e verso un ruolo delle donne all’interno della famiglia diverso da quello tradizionale. Lo studio Telhaj&Murphy del 2019, ha analizzato secondo seri criteri econometrici la variabilità della partecipazione al lavoro delle donne nel periodo “antireligioso” successivo al 1967, anno in cui l’Albania si era dichiarata primo paese ateo al mondo, vietando ogni forma di espressione religiosa. Dalla ricerca emerge il profondo impatto della religione sui ruoli di genere e l’accesso delle donne al mercato del lavoro. Da un paese “feudale” fino al 1946, dove la donna lavorava nei campi, sostanzialmente esclusa dal mercato del lavoro, in 20 anni sono state guadagnati grandi diritti al lavoro per le donne, prima nella fase dell’Albania comunista, e poi il trend è continuato grazie alla trasmissione intergenerazionale tra madre e figlia albanese del nuovo modello culturale di donna-lavoratrice e le donne non sono più “tornate a casa”. Oggi l’accesso alla formazione universitaria delle donne albanesi è in costante crescita e la loro partecipazione al mercato del lavoro è esplosa raggiungendo il 57,7% con un incremento veloce di 8 punti negli ultimi 5 anni, mentre il divario salariale fra donne e uomini è di solo 5,4 punti percentuali, quando la media mondiale è del 18,4% (dati ILO, International Labour Organization 2018). Tra gli studenti universitari albanesi il 44,6% sono maschi e il 67,9% sono femmine e gli stage di specializzazione all’estero (Tirana-Lussemburgo per es.) vedono protagoniste quasi solo le studentesse, che si mettono in gioco molto più dei colleghi maschi. Oggi le donne in possesso del titolo di professore ordinario nell’università di Tirana sono il 45,2%, mentre in Lussemburgo sono il 14,2%, e nel 2017 la presenza femminile negli organi accademici dirigenti a Tirana è stata del 38,1%. Un aspetto particolare è poi la propensione e l’alto numero di studentesse iscritte alle facoltà di scienze esatte - le cosiddette STEM: Science, Technology, Engineering and Mathematics - più alto della Francia e Belgio messi insieme (Dati EUROSTAT) pur avendo l’Albania un’unica università pubblica fondata nel 1957, l’Università statale di Tirana da cui è gemmata divenendo autonoma l’Università Politecnica. Fondato nel 1957, l’ateneo di Tirana oggi comprende sette facoltà con oltre trenta Dipartimenti che coprono le scienze umane e sociali, economiche, naturali e biomediche. Gli studenti immatricolati sono circa 14.000 e i professori 600. Il fenomeno della propensione alle Stem sembra riflettere però anche una scarsa libertà di scelta delle donne ed è stato osservato in vari paesi in via di sviluppo come Algeria, Tunisia, Vietnam, Albania, Indonesia, dove la scelta delle competenze diventa pregiudiziale per l’inserimento lavorativo nei campi tecnologici dei nuovi lavori, mentre nei paesi a sviluppo socio-economico di più antica data come quelli nord e centro europei (Svezia, Irlanda Svizzera, Germania, Francia, Italia) le donne continuano a scegliere secondo il proprio “gusto” valoriale che appare tuttora legato a modelli culturali tradizionali (facoltà umanistiche, scienze sociali o dell’area medica) che non intercettano le possibilità lavorative offerte dal modello di sviluppo globalizzato e sempre più tecnologizzato. Skerdi Zanaj sottolinea anche come, oltre all’alta formazione, un altro fattore che impatta sul lavoro delle donne sono le politiche di genere dello Stato (Gender Policies) risultato dell’attività legislativa prevalentemente parlamentare: ebbene queste politiche di genere aumentano e si qualificano proporzionalmente alla presenza nei Parlamenti nazionali e sovranazionali di un alto numero di deputate e senatrici donne: in Albania si è passati dal 18% del 2013 al 29% del 2018. Molto interessante a questo proposito lo Studio Lippman del 2019 che in Francia ha analizzato l’attività parlamentare nell’arco del 2017 in cui sono stati presentati circa 300.000 emendamenti parlamentari. Dallo studio emerge come le donne parlamentari difendano gli interessi e i diritti delle donne più dei deputati maschi, concentrando la propria attività legislativa sulle questioni di genere, seguite dai temi riguardanti i minori e la salute. I parlamentari maschi hanno invece una maggior probabilità di presentare emendamenti sulle questioni elettorali e militari. Le donne in Parlamento dunque hanno il doppio delle probabilità di avviare emendamenti relativi alle donne, ed è quindi evidente come le Quote di Genere negli ambiti della rappresentanza politica producano uno spostamento delle decisioni politiche e una maggiore priorità per le questioni femminili in Parlamento. Enrica Rigo, professoressa associata di Filosofia del diritto all’Università Roma Tre è una ricercatrice sui temi giuridici della cittadinanza anche in rapporto ai confini esterni dell’Europa e in rapporto al processo di allargamento europeo e alla critica postcoloniale. Riga è anche attivista a Roma del movimento Non Una di Meno. Dalla sua esperienza di direttora della Clinica del Diritto dell’Immigrazione e della Cittadinanza ha riportato osservazioni sulle contraddizioni del rapporto fra donne autoctone e donne migranti: richiamandosi agli scritti di Sara Farris e raccontando l’esperimento sociale di Barbara Ehrenreich - la saggista, accademica e opinionista socialdemocratica statunitense che a fine anni novanta visse in prima persona l’esperimento sociale di sopravvivere tre mesi lavorando con un salario minimo come cameriera, donna delle pulizie e commessa nei supermercati Walmart -, ci ha ricordato come la liberazione delle donne occidentali si sia poggiata storicamente e continui a fare perno sulla subordinazione delle donne migranti. Denunciando come la mobilità dei lavoratori in Europa sia oggi appiattita sotto una definizione e regolamentazione legata al solo lavoro produttivo, Rigo ha analizzato il ruolo che la mobilità umana, in particolare delle donne, svolge nel processo di riproduzione sociale e della forza-lavoro, come emerge anche dagli studi di Silvia Federici e Alisa del Re, ed evidenziando il grande apporto delle donne migranti alle società di arrivo (sia in termini fiscali e contributivi sia in termini di lavoro di cura e di welfare sociale per donne, bambini e anziani) e naturalmente alle società di partenza in termini di rimesse economiche, fondamentali per la sopravvivenza di interi nuclei familiari nel paese d’origine. Sulle tematiche migratorie è intervenuta anche Edda Pando, peruviana giunta in Italia da Lima vari anni fa, nel 1991, e fondatrice di Arci Todo Cambia, dell’Università Migrante di Milano e della rete Milano senza frontiere; come attivista per i diritti dei migranti sostiene l’autorganizzazione dei migranti nel capoluogo lombardo e percorsi interculturali fra immigrati e autoctoni. Pando parla di “paradigma migrante”, nel senso che i lavoratori e le lavoratrici stranieri immigrati in Italia rappresentano sempre più ciò che il sistema vorrebbe estendere come modalità generalizzata di sfruttamento verso i lavoratori e le lavoratrici autoctone: precarietà assoluta, assenza di qualsiasi stabilità lavorativa, mancanza di tutele sindacali, ricattabilità costante e perenne instabilità materiale ed esistenziale. |
Enrica Rigo ed Edda Pando hanno posto questioni che chiedono una risposta urgente e politica: “Per quale motivo in Italia i Decreti Flussi non si fanno più dal 2011 e in Italia si entra solo per ricongiungimento o Asilo? Integravamo 170.000 lavoratori stranieri l’anno; ora dove li prendiamo e perché preferiamo prenderli dalle migrazioni forzate? Tra il 2014 e il 2017 le donne richiedenti asilo sono quadruplicate e si muovono per lo più sulla rotta del Mediterraneo centrale, mentre su quella Balcanica più del 50% sono donne e bambini. Perché stiamo chiudendo le frontiere proprio adesso? Perché non si rinnovano i permessi di soggiorno? Perché la raccolta di pomodori viene pagata 3 euro l’ora e non si costruiscono case ma ghetti per i migranti impiegati nei lavori agricoli? Perché si negano i diritti di cittadinanza e lo ius culturae se non per colpire le condizioni di vita delle donne e degli uomini migranti, perpetuando e allargando le occasioni del loro sfruttamento?
La femminista italiana Cinzia Arruzza è professoressa presso la New School of Social Research di New York. Recentemente, insieme a Nancy Fraser e Tithi Bhattacharya, ha pubblicato il volume “Un Manifesto per un femminismo del 99%”. Durante il convegno alla Casa delle Donne di Roma, Arruzza è intervenuta in collegamento video riproponendo alcune delle tesi, espresse nel libro, sulla relazione tra capitalismo e patriarcato e tra genere e classe, alla luce della nuova onda femminista su scala internazionale: “Il femminismo del 99% è l’alternativa anticapitalista al femminismo liberale che negli ultimi decenni era diventato egemonico per l’estinguersi delle mobilitazioni e delle lotte in tutto il mondo. Con l’espressione femminismo liberale ci riferiamo a un femminismo incentrato sulle libertà e sull’uguaglianza formale, che persegue l’eliminazione delle diseguaglianze di genere con strumenti accessibili solo alle donne che appartengono all’élite: si pensi al modello incarnato da personalità come Hillary Clinton o altre donne che hanno perseguito un empowerment che le mette comunque in posizioni apicali e di privilegio; oppure si pensi al femminismo predicato dalle destre che in Europa, soprattutto nei paesi dell’Est, sta diventando un alleato di molti governi in tema di politiche islamofobe “in nome dei diritti delle donne”, come ha spiegato Sara Farris nel suo libro “In the Name of Women′s Rights: The Rise of Femonationalism”. Invece il femminismo del 99% è anche apertamente anticapitalista e antirazzista: non separa l’uguaglianza formale e l’emancipazione dalla necessità di trasformare la società e le relazioni sociali nella loro totalità, non lo separa dalla necessità di superare lo sfruttamento del lavoro, il saccheggio delle risorse naturali, il razzismo, la guerra e l’imperialismo. È parte del transfemminismo, difende i diritti e le necessità delle lavoratrici sessuali, cerca alleanze sociali e politiche con tutti i movimenti che lottano per un mondo che sia migliore per il 99%. Io penso che la recente nuova onda femminista è l’unica mobilitazione esistente a livello transnazionale, che unisce milioni di donne e uomini di tutto il mondo. Inoltre in alcuni paesi è già difficile ora distinguere chiaramente tra lotta di classe e movimento femminista: penso soprattutto all’Argentina, ma anche alla Spagna o all’Italia. Credo che coloro che sono sinceramente interessati a un ritorno della lotta di classe, dovrebbero lasciare, una volta per tutte, gli atteggiamenti divisori e di disprezzo nei confronti della nuova onda femminista. Dovrebbero smettere di pensare che le mobilitazioni femministe sono un’antitesi della lotta di classe o, nel migliore dei casi, un complemento esterno. Vorrei invitare a pensare al nuovo movimento femminista come a un processo di radicalizzazione e politicizzazione nel quale la soggettività delle lavoratrici - molto spesso giovani, precarie, sotto pagate o non pagate, sfruttate e molestate sessualmente nei luoghi di lavoro - sta emergendo come una soggettività combattiva e potenzialmente anticapitalista. A conclusione dell’edizione 2019 di “Libertà delle donne nel XXI”, a far sintesi dei molti temi dibattuti, rimbalzano le domande poste da Nicoletta Pirotta di Iniziativa Femminista Europea: “Come si ricostruisce un sistema europeo di welfare e di diritti capace di superare l’ideologia della domesticità e lo sfruttamento della catena globale della cura? È sufficiente rivendicare parità di salario, tempi di lavoro compatibili con la riproduzione, diritto alla maternità e fine delle discriminazioni di genere se non si intaccano le divisioni sessiste e razziste del mondo del lavoro? Un salario minimo europeo e un reddito di autodeterminazione possono costruire per le donne percorsi di autonomia e fuoriuscita dalla violenza? Le esperienze di autogestione e di neomutualismo, che stanno coinvolgendo molte donne e alludono a modelli alternativi di produzione e riproduzione sociale possono essere obiettivi da lanciare su scala europea? Come diffondere la pratica dello sciopero globale delle donne, lanciato da Non Una di Meno contro l’oppressione in ogni ambito della vita e come pratica collettiva di lotta contro la privatizzazione, la femminilizzazione e la razzializzazione del lavoro?” IL CALIFFO: FILM CIA TRA FICTION E REALTA'Italia La Notizia di Manlio Dinucci - Dietro la maschera «anti-Isis» Pandora TV 1950 iscritti DIETRO LA MASCHERA ANTI-ISIS, VIDEO DI SCOTTANTE ATTUALITA', PUBBLICATO SU PANDORA TV IL 1° FEBBRAIO 2016: MOSTRA LE PROVE DI COME GLI USA E LA NATO HANNO SOSTENUTO E ARMATO L'ISIS. Manlio Dinucci - (il manifesto, 29 ottobre 2019) «È stato come guardare un film», ha detto il presidente Trump dopo aver assistito alla eliminazione di Abu Bakr al Baghdadi, il Califfo capo dell’Isis, trasmessa nella Situation Room della Casa Bianca. Qui, nel 2011, il presidente Obama assisteva alla eliminazione dell’allora nemico numero uno, Osama Bin Laden, capo di Al Qaeda. Stessa sceneggiatura: i servizi segreti Usa avevano da tempo localizzato il nemico; questi non viene catturato ma eliminato: Bin Laden è ucciso, al Baghdadi si suicida o è «suicidato»; il corpo sparisce: quello di Bin Laden è sepolto in mare, i resti al Baghdadi disintegrato dalla cintura esplosiva sono anch’essi dispersi in mare. Stessa casa produttrice del film: la Comunità di intelligence, formata da 17 organizzazioni federali. Oltre alla Cia (Agenzia centrale di intelligence) vi è la Dia (Agenzia di intelligence della Difesa), ma ogni settore delle Forze armate, così come il Dipartimento di stato e quello della Sicurezza della patria, ha un proprio servizio segreto. Per le azioni militari la Comunità di intelligence usa il Comando delle forze speciali, dispiegate in almeno 75 paesi, la cui missione ufficiale comprende, oltre alla «azione diretta per eliminare o catturare nemici», la «guerra non-convenzionale condotta da forze esterne, addestrate e organizzate dal Comando». È esattamente quella che viene avviata in Siria nel 2011, lo stesso anno in cui la guerra Usa/Nato demolisce la Libia. Lo dimostrano documentate prove, già pubblicate sul manifesto. Ad esempio, nel marzo 2013 il New York Times pubblica una dettagliata inchiesta sulla rete Cia attraverso cui arrivano in Turchia e Giordania, con il finanziamento di Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo, fiumi di armi per i militanti islamici addestrati dal Comando delle forze speciali Usa prima di essere infiltrati in Siria. Nel maggio 2013, un mese dopo aver fondato l’Isis, al Baghdadi incontra in Siria una delegazione del Senato degli Stati uniti capeggiata da John McCain, come risulta da documentazione fotografica. Nel maggio 2015 viene desecretato da Judicial Watch un documento del Pentagono, datato 12 agosto 2012, in cui si afferma che c’è «la possibilità di stabilire un principato salafita nella Siria orientale, e questo è esattamente ciò che vogliono i paesi occidentali, gli stati del Golfo e la Turchia che sostengono l’opposizione». ..segue ./.
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