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La VOCE 1911 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XXII N°3 | novembre 2019 | PAGINA 5 |
segue da pag.3: rom e sinti.
per quanto riguarda il nostro paese l’apice della persecuzione dei rom si raggiunge alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando il regime fascista, per volontà esplicita di mussolini, inaugura una politica di pesantissime discriminazioni “razziali”, legalizzate nel 1938, che colpiscono le principali minoranze etniche e religiose, in primo luogo ebrei e rom. questi ultimi, in particolare, subiscono la tragica sorte delle popolazioni coloniali africane che non avevano adeguatamente sostenuto il dominio imposto dall’imperialismo straccione italiano. furono anch’essi in massa deportati in campi di concentramento dove in larga parte trovarono, come già era avvenuto per le popolazioni coloniali, una terribile morte di stenti.
ancora più terribile fu la persecuzione che destinò ai sinti e rom la germania nazista, da diligente allieva del fascismo in grado di “superare” in diversi campi il maestro. nel corso della guerra, via via che le cose si mettevano male per l’esercito nazista, che inizialmente era ritenuto irresistibile, ma aveva poi subito un’autentica disfatta da parte dell’armata rossa dopo l’aggressione all’urss, anche i rom finirono per essere utilizzati, come gli ebrei, da capro espiatorio, sempre sulla base dell’irrazionalistico mito della purezza razziale. per cui i rom, come gli ebrei, erano accusati di essere razze inferiori che contaminavano la superiore razza ariana.
paradossalmente il genocidio cui andarono incontro sinti e rom fu meno sistematico di quello degli ebrei, perché a differenza di questi ultimi, che in larga misura erano stati o si erano integrati, i rom erano stati lasciati maggiormente ai margini della società, tanto che anche nella democratica repubblica di weimar era stato creato, già nel 1929, un “ufficio centrale per la lotta contro la piaga zingara”. lo scopo era di fare dei rom un capro espiatorio per la terribile crisi economica che colpiva tutti i paesi a capitalismo avanzato. così, sebbene non pianificata come quella degli ebrei, anche rom e sinti verso la fine della guerra furono nei fatti condannati alla soluzione finale nei campi di sterminio. d’altra parte nel momento che compresero a quale sorte erano condannati, furono gli unici a trovare la forza e il coraggio di organizzare una significativa resistenza nei campi di sterminio, riuscendo a resistere per ben tre mesi prima di essere passati per le armi.
d’altra parte, proprio perché più integrati e considerati a tutti gli effetti occidentali, gli ebrei, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, non furono più generalmente discriminati, ghettizzati e soggetti addirittura a veri e propri pogrom come avviene ancora ai giorni nostri ai rom. addirittura si potrebbe pensare che la discriminazione verso rom e sinti sia considerata quasi come un segno di adesione al mondo occidentale. tanto che nella maggior parte dei paesi dell’est europeo, dopo che negli anni della abortita transizione al socialismo sinti e rom erano stati generalmente integrati nel caso lo volessero, o valorizzati nelle professioni che avevano tradizionalmente praticato (in particolare in jugoslavia), tutt’oggi sono sempre più apertamente discriminati in paesi che sono entrati nella nato e nell’ue come l’ungheria, o aspirano a entrarvi come l’ucraina.
si tratta certo di casi limite, in cui ancora oggi vi sono veri e propri pogrom contro sinti e rom, ma più in generale con la vittoria della controrivoluzione nei paesi dell’est europeo è aumentato il razzismo, la maggioranza della popolazione si è impoverita e molti, fra cui anche diversi rom, sono stati più o meno costretti a emigrare. da questo punto di vista particolarmente devastante è stata l’aggressione imperialista che ha dissolto la jugoslavia. si sono così riversati in occidente come profughi diversi rom, che da secoli erano stanziati nell’europa orientale.
questo ha favorito la ripresa della propaganda razzista del populismo di destra, che alimenta il mito secondo cui gli zingari sarebbero tradizionalmente dei ladri. si tratta al solito di un pregiudizio che si afferma solo grazie all’ignoranza. in effetti la grande maggioranza dei rom è stanziale e vive (circa il 90%) ancora nei balcani e, soprattutto, in romania. in questi paesi dove per lo più risiedono, i tassi di criminalità non sono mai stati superiori a quelli della restante parte della popolazione.
in italia rom e sinti sono circa 150.000, in gran parte stanziali in italia dal medioevo. anche in questo caso il tasso di criminalità non è diverso dagli altri italiani. i problemi riguardano l’esigua porzione di rom recentemente giunti in italia in condizioni di profughi, costretti a sopravvivere in condizioni disumane in veri e propri campi di segregazione. non avendo nulla, non avendo quasi mai la possibilità di avere un lavoro normale - in quanto praticamente nessuno assume un rom proveniente da un campo profughi - con un numero molto alto di minori (nei campi il 50% della popolazione ha meno di 16 anni) scarsamente alfabetizzata, è evidente che vi siano tassi di micro criminalità più elevati della media e di grande criminalità decisamente inferiore. bisogna, infine, considerare che questa minoranza, costretta a sopravvivere in condizioni disastrose, in italia è davvero ultraminoritaria, appena lo 0,25% della popolazione, ovvero la percentuale più bassa d’europa.
note:
[1] da questa presunta provenienza egiziana deriva il termine gypsies, che sarebbe stato in seguito ulteriormente storpiato in gitani, termine con cui vengono ancora definiti, con un’accezione per lo più negativa, queste popolazioni. prendiamo questa e altre informazioni da un’interessante intervista a uno dei più significativi intellettuali rom viventi, santino spinelli, a cura di damiano tavoliere, intitolata la cultura millenaria di un popolo, pubblicata su “il manifesto” del 10/8/2019. sullo stesso numero si trova un altro articolo molto interessante, opera anch’esso di damiano tavoliere, intitolato un genocidio dimenticato da cui abbiamo tratto dati importanti per la stesura di questo articolo.
la vita al lavoro, il senso dei lavori: pensieri e pratiche femministe.
considerazioni dal convegno “libertà delle donne nel xxi secolo” che si è tenuto a roma alla casa internazionale. delle donne.
di ida paola sozzani 27/10/2019.
roma. molto frequentato e intenso il convegno del 11, 12 e 13 ottobre alla casa internazionale delle donne in via della lungara a roma, indetto raccogliendo l’invito lanciato dal gruppo di lavoro libertà delle donne nel xxi secolo in partnership con la casa e transform europe: una quarantina di relatrici, attiviste e studiose internazionali di diverse generazioni hanno apportato contributi di analisi, resoconto di casi emblematici e riflessioni sul tema del lavoro, sul suo senso per le donne oggi, e sulle prospettive che i nuovi lavori possono dare alle più giovani: una riflessione in ottica femminista, che si è sforzata di tenere insieme teoria e pratiche, desideri e realtà, ricerca del lavoro e ricerca di sé.
la necessità di un’economia politica femminista che ci consenta di svelare la connessione fra diseguaglianza e radici sociali della violenza e delle guerra è stata la chiave del significativo intervento della tedesca heidi meinzolt, responsabile per l’europa della wilpf, women’s international league for peace and freedom, e coordinatrice del gruppo di lavoro women&gender della civic solidarity platform dell’osce organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in europa istituita in seguito agli accordi di helsinki del 1975.
da esperta in tema di sicurezza delle persone, rispetto dei diritti delle donne e della pace, prevenzione e soluzione non violenta dei conflitti, con particolare attenzione al ruolo delle donne nei processi di pace, meinzolt ha approfondito l’impatto delle politiche neoliberiste sui contesti sociali e sull’innesco di misure di austerità e conseguente impoverimento, crescita delle spese militari, perdita dei diritti umani e povertà delle donne.
la relatrice tedesca ha ricordato come non sia stato di aiuto nell’immettere dinamiche trasformative nel modo di fare economia negli ultimi venti anni neanche il global compact for business and human rights, un patto volontario senza però vincolo legale per implementare un insieme di valori chiave nelle aree dei diritti umani, delle donne, delle tutele sindacali e standard del lavoro, legalità, contrasto alla discriminazione e al lavoro minorile e tutela ambientale. si tratta di un’iniziativa accesa a new york nel 1999 dalle nazioni unite di kofi annan con i business leader riuniti a davos, e nel corso di questi decenni è stato sottoscritto dai top manager di oltre 18.000 aziende da 160 paesi del mondo che aderendo a una piattaforma di valori condivisi e linee guida, e attraverso un forum di verifica periodico, si propongono di contribuire a una nuova fase della globalizzazione che dovrebbe essere caratterizzata dal coinvolgimento di aziende, sindacati e associazioni di categoria con azioni precise di sostenibilità nel lungo periodo, cooperazione internazionale e partnership, con il fine di immettere nelle leggi economiche anche la prospettiva di portatori di interesse sociale diverse dalle imprese, quali l’ambiente e il clima, le minoranze discriminate di tipo etnico, di genere e di orientamento sessuale, etc.
un ottimismo progressista che si infrange però sulla realtà del business globalizzato fatto oggi di imponenti cambiamenti climatici, recessione economica, competizione per le risorse divenute insufficienti per garantire i tassi di crescita: uno scenario che allarga il divario economico fra paesi e produce nuovi conflitti e guerre che negli ultimi anni sono apparsi esplodere in contesti geopolitici locali apparentemente circoscritti - spesso connotati da dinamiche di tribalismo - ma che a un’analisi attenta sono il riflesso e il portato di interessi di profitto globali, e criticità volutamente immesse nel sistema dal neoliberismo forzato dalle élite economico-politiche sulle masse della popolazione mondiale.
nei conflitti bellici l’allentamento e la dissoluzione della compagine sociale sovvertita dalle dinamiche militari - con immancabile corollario di pulizia etnica, rapimenti, stupri di guerra e sostituzione di popolazioni - espone le donne in maniera spropositata alla violenza e allo sfruttamento sessuale, come abbiamo visto emblematicamente succedere nella guerra contro l’isis/daesh e nei conflitti africani. questa condizione di insicurezza persiste poi nelle fasi - o intervalli - postbellici connotandosi stabilmente come tratta verso il nord del mondo e traffico di esseri umani. l’aggressività della dinamica capitalista nelle comunità rurali del sud america, portata avanti dalle multinazionali anche recentemente in amazzonia, produce devastazioni ambientali inusitate, e l’impatto violento e il prezzo maggiore lo pagano le donne e i bambini, ricacciati e costretti in contesti depauperati, inquinati e privi di qualsiasi diritto e protezione sociale.
nel continente europa il capitalismo finanziarizzato sta perseguendo la flessibilità nel lavoro, l’outsourcing cioè le esternalizzazioni e le delocalizzazioni selvagge e i conseguenti licenziamenti di massa, per trarre profitto dal dumping intraeuropeo, e nel caso delle multinazionali da un regime di sostanziale impunità ed “evasione fiscale” legalizzate: secondo i dati della cgia di mestre le big corporation pagano il 5% di tasse sui profitti godendo un vantaggio sistematico rispetto alle altre categorie produttive che sono tassate al 42,4%. questi dati si riferiscono al 2017, con l’italia al sesto posto per imposizione fiscale tra i grandi paesi industrializzati. sempre più la finanziarizzazione dell’economia - una dinamica parassitaria in cui si vorrecche che il denaro creasse altro denaro senza immettere lavoro nelle società - mette le ali ai paradisi fiscali anche all’interno della ue sottraendo risorse e minando pesantemente il welfare europeo, che aveva tentato timidamente dal dopoguerra di “socializzare i costi” della “riproduzione sociale” gravante solo sulle spalle delle donne. ora il welfare sta declinando rapidamente e sono soprattutto le donne a pagarne il conto: dover scegliere se lavorare o fare figli (in italia nel 2018 ci sono stati 35.000 abbandoni lavorativi di donne con figli).
si allarga anche la fascia dei working poors: nel 2017 un lavoratore su dieci rientrava in quest’area grigia, cioè di quanti, soprattutto donne, pur avendo un impiego sono ricacciati in una condizione di povertà relativa. intanto al crollo del welfare sociale la ricetta capitalistica contrappone la privatizzazione e conseguente monetizzazione dei rischi sociali - vera manna per enti assicurativi e fondi di investimento - peccato che le europee guadagnino troppo poco per permettersi assicurazioni e secondi e terzi pilastri pensionistici.
al culmine di questo “psicodramma” economico anche gli stati, aggrediti dalle agenzie di rating, vengono batostati dalle politiche di austerità imposte dagli organismi di controllo sovranazionali che hanno abbracciato la filosofia del “debito pubblico”.
in questo contesto la questione migratoria - malgestita e maldigerita - anziché essere letta come epifenomeno e conseguenza delle contraddizioni della attuale fase capitalistica, ha finito per intercettare e aumentare il senso di frustrazione del corpo sociale europeo, che la utilizza come “capro espiatorio” deresponsabilizzante, mentre si assiste all’esplosione di grandi conflitti sociali tra cui emblematiche sono state le recenti proteste dei gilet gialli nei principali centri urbani della francia.
questa fase dell’europa si traduce a livello antropologico in individualismo sociale, sfiducia istituzionale, diserzione dal voto e dalla partecipazione, mentre a livello politico assume un volto ideologico, con la rinascita di istanze identitarie, da cui emergono atteggiamenti di nazionalismo esasperato, populismo e razzismo, attacco ai diritti delle donne, come si osserva in particolare nei paesi del gruppo di visegrad e in italia, ma un po’ dappertutto in europa: atteggiamenti che si coagulano in rivendicazioni localistiche - delle minoranze sudtirolesi in italia e dei danesi in germania - e in istanze di “decontestualizzazione” e autonomia, come in catalogna o nella richieste di “andarsene” da parte delle ristrette élite economiche della brexit inglese.
sul pericolo di arretramento dei diritti delle donne nei paesi centro europei si è concentrato anche l’intervento dell’ungherese borbála juhász, storica del femminismo e attivista in ungheria della european women’s lobby. la strumentalizzazione del dibattito sul “gender” nell’ungheria di orban, e l’enfasi sul ruolo tradizionale della donna nella famiglia, posta da ideologie nazionalistiche e religiose reazionarie, è stato il pretesto per rilanciare una politica demografica familistica che attraverso strumenti come il congedo di maternità di tre anni per le mamme sta espellendo le donne dal mercato del lavoro.
meinzolt ha anche portato l’esempio della società tedesca dove lo split sociale e il differenziale nelle opportunità sono in questi anni drammaticamente aumentati: traumi che producono paura e frustrazione, e grande rabbia sociale che innesca un cortocircuito di atteggiamenti di ansia, diffidenza, e aumento della violenza anche nelle relazioni interpersonali e di genere: “anche nel cuore dell’europa la gente sta acquistando armi, e ci troviamo ormai in presenza anche da noi di una popolazione armata: il 25% dei tedeschi tiene in casa armi leggere a cui ricorre per difesa e sempre più in caso di violenza domestica: si registra infatti un aumento di omicidi e femminicidi”.
dalla crisi del 2008, in germania il mantra di “mettere le donne al lavoro” e del loro “business empowerment” per sostenere la società viene ancora continuamente ripetuto, e oggi rimotivato secondo la precettistica della moderna womenomics, senza mai mettere in discussione le contraddizioni prodotte dalla crescita economica capitalistica. anche nella discussione sul clima, anticipate dalla grande tradizione dei verdi tedeschi, la pregiudiziale che viene sempre portata dalla politica è che gli interventi correttivi devono salvaguardare la crescita. nelle università tedesche in generale non si prendono in considerazione modelli alternativi, ma alcune economiste hanno incominciato a introdurre nell’insegnamento elementi di economia femminista alla ricerca di un’alternativa alla crescita spasmodica e obbligatoria. “a questo punto è compito delle donne e delle femministe in particolare mettere in discussione questi assiomi: le donne spagnole e perfino le svizzere a modo loro l’hanno fatto nel 2018, scendendo in strada e reclamando un cambiamento di sistema e della filosofia stessa del lavoro, mentre le donne tedesche per ora si rifiutano di ripetere la storica esperienza delle ‘suffragette’ per chiedere i propri diritti”.
un atteggiamento che secondo heidi meinzolt il movimento delle donne contemporaneo dovrebbe rilanciare in tutta l’europa, mutuando per esempio la campagna lanciata da wilpf move the money from war to peace per ridurre le spese militari e ri-orientarle verso voci di welfare sociale come lavoro, salute, scuola. le donne devono spingere a livello istituzionale governi e ue a implementare gli obiettivi della piattaforma di pechino promossa dall’onu nel 1995 e rinnovata in varie conferenze mondiali delle donne; un impegno sottoscritto da quasi tutti i paesi europei per implementare 12 aree critiche per le donne, che sono state enfatizzate anche dalla recente campagna onu “pianeta 50-50 entro il 2030”: povertà, istruzione e formazione, salute, diritti delle bambine e violenza contro le donne, conflitti armati, economia, potere e processi decisionali, meccanismi per favorire il progresso, diritti fondamentali, media, ambiente.
annick coupé, sindacalista e presidente di attac france, associazione che si batte per i diritti ambientali, della casa, del lavoro e contro l’impunità delle multinazionali ha portato il caso francia come esemplare della situazione dei paesi europei a sviluppo consolidato dove, a fronte di 40 anni di occupazione di massa - con 16 milioni di uomini e 14 milioni di donne nella forza-lavoro -, persiste l’ineguaglianza delle donne sia nel lavoro domestico - che resiste nelle famiglie a ogni redistribuzione tra i generi - sia nel mercato del lavoro sotto vari aspetti: il tasso delle donne sottoccupate, cioè di quelle costrette a lavorare meno di quanto vorrebbero, resta alto e il lavoro discontinuo e part-time le vede all’82% del totale, riflettendosi in un futuro di pensioni povere e svilimento sociale per le donne che già oggi subiscono un differenziale pensionistico pari al 40%, mentre per le occupate il differenziale salariale con gli uomini raggiunge il 20%.
le donne nella loro generalità in europa non sono state in questi decenni risparmiate dall’aderire a quel dispositivo messo in gioco dal capitalismo sviluppista che è consistito nell’espansione della (bassa) classe media, una dinamica del desiderio che ha saputo creare l’illusione di una forma di mobilità sociale che appaga soprattutto il bisogno e le aspirazioni di autorealizzazione individuali. e allora nel corso delle generazioni novecentesche molte si sono gettate negli studi e nel perseguire carriere professionali un tempo riservate agli uomini: peccato che nel mercato del lavoro francese oggi le donne continuino a vivere nel demansionamento cronico - 2/3 dello smic, il salario minimo introdotto in francia nel 1950, finisce nelle buste paga delle donne - con limitate filiere professionali accessibili, blocco delle carriere, prepensionamento forzato.
soprattutto, le giovani donne oggi sono costrette a vivere all’ombra della sottoccupazione e di salari parziali frutto di “lavoretti” e patchwork esistenziali insostenibili. l’alta
..segue ./.
Segue da Pag.3: Rom e Sinti
Per quanto riguarda il nostro paese l’apice della persecuzione dei rom si raggiunge alla vigilia della Seconda guerra mondiale, quando il regime fascista, per volontà esplicita di Mussolini, inaugura una politica di pesantissime discriminazioni “razziali”, legalizzate nel 1938, che colpiscono le principali minoranze etniche e religiose, in primo luogo ebrei e rom. Questi ultimi, in particolare, subiscono la tragica sorte delle popolazioni coloniali africane che non avevano adeguatamente sostenuto il dominio imposto dall’imperialismo straccione italiano. Furono anch’essi in massa deportati in campi di concentramento dove in larga parte trovarono, come già era avvenuto per le popolazioni coloniali, una terribile morte di stenti. Ancora più terribile fu la persecuzione che destinò ai sinti e rom la Germania nazista, da diligente allieva del fascismo in grado di “superare” in diversi campi il maestro. Nel corso della guerra, via via che le cose si mettevano male per l’esercito nazista, che inizialmente era ritenuto irresistibile, ma aveva poi subito un’autentica disfatta da parte dell’Armata rossa dopo l’aggressione all’Urss, anche i rom finirono per essere utilizzati, come gli ebrei, da capro espiatorio, sempre sulla base dell’irrazionalistico mito della purezza razziale. Per cui i rom, come gli ebrei, erano accusati di essere razze inferiori che contaminavano la superiore razza ariana. Paradossalmente il genocidio cui andarono incontro sinti e rom fu meno sistematico di quello degli ebrei, perché a differenza di questi ultimi, che in larga misura erano stati o si erano integrati, i rom erano stati lasciati maggiormente ai margini della società, tanto che anche nella democratica Repubblica di Weimar era stato creato, già nel 1929, un “Ufficio centrale per la lotta contro la piaga zingara”. Lo scopo era di fare dei rom un capro espiatorio per la terribile crisi economica che colpiva tutti i paesi a capitalismo avanzato. Così, sebbene non pianificata come quella degli ebrei, anche rom e sinti verso la fine della guerra furono nei fatti condannati alla soluzione finale nei campi di sterminio. D’altra parte nel momento che compresero a quale sorte erano condannati, furono gli unici a trovare la forza e il coraggio di organizzare una significativa resistenza nei campi di sterminio, riuscendo a resistere per ben tre mesi prima di essere passati per le armi. D’altra parte, proprio perché più integrati e considerati a tutti gli effetti occidentali, gli ebrei, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, non furono più generalmente discriminati, ghettizzati e soggetti addirittura a veri e propri pogrom come avviene ancora ai giorni nostri ai rom. Addirittura si potrebbe pensare che la discriminazione verso rom e sinti sia considerata quasi come un segno di adesione al mondo occidentale. Tanto che nella maggior parte dei paesi dell’est europeo, dopo che negli anni della abortita transizione al socialismo sinti e rom erano stati generalmente integrati nel caso lo volessero, o valorizzati nelle professioni che avevano tradizionalmente praticato (in particolare in Jugoslavia), tutt’oggi sono sempre più apertamente discriminati in paesi che sono entrati nella Nato e nell’UE come l’Ungheria, o aspirano a entrarvi come l’Ucraina. Si tratta certo di casi limite, in cui ancora oggi vi sono veri e propri pogrom contro sinti e rom, ma più in generale con la vittoria della controrivoluzione nei paesi dell’est europeo è aumentato il razzismo, la maggioranza della popolazione si è impoverita e molti, fra cui anche diversi rom, sono stati più o meno costretti a emigrare. Da questo punto di vista particolarmente devastante è stata l’aggressione imperialista che ha dissolto la Jugoslavia. Si sono così riversati in occidente come profughi diversi rom, che da secoli erano stanziati nell’Europa orientale. Questo ha favorito la ripresa della propaganda razzista del populismo di destra, che alimenta il mito secondo cui gli zingari sarebbero tradizionalmente dei ladri. Si tratta al solito di un pregiudizio che si afferma solo grazie all’ignoranza. In effetti la grande maggioranza dei rom è stanziale e vive (circa il 90%) ancora nei Balcani e, soprattutto, in Romania. In questi paesi dove per lo più risiedono, i tassi di criminalità non sono mai stati superiori a quelli della restante parte della popolazione. In Italia rom e sinti sono circa 150.000, in gran parte stanziali in Italia dal medioevo. Anche in questo caso il tasso di criminalità non è diverso dagli altri italiani. I problemi riguardano l’esigua porzione di rom recentemente giunti in Italia in condizioni di profughi, costretti a sopravvivere in condizioni disumane in veri e propri campi di segregazione. Non avendo nulla, non avendo quasi mai la possibilità di avere un lavoro normale - in quanto praticamente nessuno assume un rom proveniente da un campo profughi - con un numero molto alto di minori (nei campi il 50% della popolazione ha meno di 16 anni) scarsamente alfabetizzata, è evidente che vi siano tassi di micro criminalità più elevati della media e di grande criminalità decisamente inferiore. Bisogna, infine, considerare che questa minoranza, costretta a sopravvivere in condizioni disastrose, in Italia è davvero ultraminoritaria, appena lo 0,25% della popolazione, ovvero la percentuale più bassa d’Europa. Note: [1] Da questa presunta provenienza egiziana deriva il termine gypsies, che sarebbe stato in seguito ulteriormente storpiato in gitani, termine con cui vengono ancora definiti, con un’accezione per lo più negativa, queste popolazioni. Prendiamo questa e altre informazioni da un’interessante intervista a uno dei più significativi intellettuali rom viventi, Santino Spinelli, a cura di Damiano Tavoliere, intitolata La cultura millenaria di un popolo, pubblicata su “Il manifesto” del 10/8/2019. Sullo stesso numero si trova un altro articolo molto interessante, opera anch’esso di Damiano Tavoliere, intitolato Un genocidio dimenticato da cui abbiamo tratto dati importanti per la stesura di questo articolo. La vita al lavoro, il senso dei lavori: pensieri e pratiche femministedi Ida Paola Sozzani 27/10/2019 Roma. Molto frequentato e intenso il convegno del 11, 12 e 13 ottobre alla Casa internazionale delle Donne in via della Lungara a Roma, indetto raccogliendo l’invito lanciato dal gruppo di lavoro Libertà delle donne nel XXI secolo in partnership con la Casa e Transform Europe: una quarantina di relatrici, attiviste e studiose internazionali di diverse generazioni hanno apportato contributi di analisi, resoconto di casi emblematici e riflessioni sul tema del Lavoro, sul suo senso per le donne oggi, e sulle prospettive che i nuovi lavori possono dare alle più giovani: una riflessione in ottica femminista, che si è sforzata di tenere insieme teoria e pratiche, desideri e realtà, ricerca del lavoro e ricerca di sé. La necessità di un’economia politica femminista che ci consenta di svelare la connessione fra diseguaglianza e radici sociali della violenza e delle guerra è stata la chiave del significativo intervento della tedesca Heidi Meinzolt, responsabile per l’Europa della WILPF, Women’s International League for Peace and Freedom, e coordinatrice del gruppo di lavoro women&gender della Civic Solidarity Platform dell’OSCE Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa istituita in seguito agli accordi di Helsinki del 1975. Da esperta in tema di sicurezza delle persone, rispetto dei diritti delle donne e della pace, prevenzione e soluzione non violenta dei conflitti, con particolare attenzione al ruolo delle donne nei processi di pace, Meinzolt ha approfondito l’impatto delle politiche neoliberiste sui contesti sociali e sull’innesco di misure di austerità e conseguente impoverimento, crescita delle spese militari, perdita dei diritti umani e povertà delle donne. La relatrice tedesca ha ricordato come non sia stato di aiuto nell’immettere dinamiche trasformative nel modo di fare economia negli ultimi venti anni neanche il Global Compact for Business and Human Rights, un patto volontario senza però vincolo legale per implementare un insieme di valori chiave nelle aree dei diritti umani, delle donne, delle tutele sindacali e standard del lavoro, legalità, contrasto alla discriminazione e al lavoro minorile e tutela ambientale. Si tratta di un’iniziativa accesa a New York nel 1999 dalle Nazioni Unite di Kofi Annan con i business leader riuniti a Davos, e nel corso di questi decenni è stato sottoscritto dai top manager di oltre 18.000 aziende da 160 Paesi del mondo che aderendo a una piattaforma di valori condivisi e linee guida, e attraverso un forum di verifica periodico, si propongono di contribuire a una nuova fase della globalizzazione che dovrebbe essere caratterizzata dal coinvolgimento di aziende, sindacati e associazioni di categoria con azioni precise di sostenibilità nel lungo periodo, cooperazione internazionale e partnership, con il fine di immettere nelle leggi economiche anche la prospettiva di portatori di interesse sociale diverse dalle imprese, quali l’ambiente e il clima, le minoranze discriminate di tipo etnico, di genere e di orientamento sessuale, etc. |
Un ottimismo progressista che si infrange però sulla realtà del Business globalizzato fatto oggi di imponenti cambiamenti climatici, recessione economica, competizione per le risorse divenute insufficienti per garantire i tassi di crescita: uno scenario che allarga il divario economico fra Paesi e produce nuovi conflitti e guerre che negli ultimi anni sono apparsi esplodere in contesti geopolitici locali apparentemente circoscritti - spesso connotati da dinamiche di tribalismo - ma che a un’analisi attenta sono il riflesso e il portato di interessi di
profitto globali, e criticità volutamente immesse nel sistema dal neoliberismo forzato dalle élite economico-politiche sulle masse della popolazione mondiale.
Nei conflitti bellici l’allentamento e la dissoluzione della compagine sociale sovvertita dalle dinamiche militari - con immancabile corollario di pulizia etnica, rapimenti, stupri di guerra e sostituzione di popolazioni - espone le donne in maniera spropositata alla violenza e allo sfruttamento sessuale, come abbiamo visto emblematicamente succedere nella guerra contro l’Isis/Daesh e nei conflitti africani. Questa condizione di insicurezza persiste poi nelle fasi - o intervalli - postbellici connotandosi stabilmente come Tratta verso il Nord del mondo e traffico di esseri umani. L’aggressività della dinamica capitalista nelle comunità rurali del Sud America, portata avanti dalle multinazionali anche recentemente in Amazzonia, produce devastazioni ambientali inusitate, e l’impatto violento e il prezzo maggiore lo pagano le donne e i bambini, ricacciati e costretti in contesti depauperati, inquinati e privi di qualsiasi diritto e protezione sociale. Nel continente Europa il capitalismo finanziarizzato sta perseguendo la flessibilità nel lavoro, l’outsourcing cioè le esternalizzazioni e le delocalizzazioni selvagge e i conseguenti licenziamenti di massa, per trarre profitto dal dumping intraeuropeo, e nel caso delle multinazionali da un regime di sostanziale impunità ed “evasione fiscale” legalizzate: secondo i dati della CGIA di Mestre le big corporation pagano il 5% di tasse sui profitti godendo un vantaggio sistematico rispetto alle altre categorie produttive che sono tassate al 42,4%. Questi dati si riferiscono al 2017, con l’Italia al sesto posto per imposizione fiscale tra i grandi Paesi industrializzati. Sempre più la finanziarizzazione dell’economia - una dinamica parassitaria in cui si vorrecche che il denaro creasse altro denaro senza immettere lavoro nelle società - mette le ali ai paradisi fiscali anche all’interno della UE sottraendo risorse e minando pesantemente il welfare europeo, che aveva tentato timidamente dal dopoguerra di “socializzare i costi” della “riproduzione sociale” gravante solo sulle spalle delle donne. Ora il welfare sta declinando rapidamente e sono soprattutto le donne a pagarne il conto: dover scegliere se lavorare o fare figli (in Italia nel 2018 ci sono stati 35.000 abbandoni lavorativi di donne con figli). Si allarga anche la fascia dei working poors: nel 2017 un lavoratore su dieci rientrava in quest’area grigia, cioè di quanti, soprattutto donne, pur avendo un impiego sono ricacciati in una condizione di povertà relativa. Intanto al crollo del welfare sociale la ricetta capitalistica contrappone la privatizzazione e conseguente monetizzazione dei rischi sociali - vera manna per enti assicurativi e Fondi di investimento - peccato che le europee guadagnino troppo poco per permettersi assicurazioni e secondi e terzi pilastri pensionistici. Al culmine di questo “psicodramma” economico anche gli Stati, aggrediti dalle agenzie di rating, vengono batostati dalle politiche di austerità imposte dagli organismi di controllo sovranazionali che hanno abbracciato la filosofia del “debito pubblico”. In questo contesto la questione migratoria - malgestita e maldigerita - anziché essere letta come epifenomeno e conseguenza delle contraddizioni della attuale fase capitalistica, ha finito per intercettare e aumentare il senso di frustrazione del corpo sociale europeo, che la utilizza come “capro espiatorio” deresponsabilizzante, mentre si assiste all’esplosione di grandi conflitti sociali tra cui emblematiche sono state le recenti proteste dei Gilet Gialli nei principali centri urbani della Francia. Questa fase dell’Europa si traduce a livello antropologico in individualismo sociale, sfiducia istituzionale, diserzione dal voto e dalla partecipazione, mentre a livello politico assume un volto ideologico, con la rinascita di istanze identitarie, da cui emergono atteggiamenti di nazionalismo esasperato, populismo e razzismo, attacco ai diritti delle donne, come si osserva in particolare nei Paesi del Gruppo di Visegrad e in Italia, ma un po’ dappertutto in Europa: atteggiamenti che si coagulano in rivendicazioni localistiche - delle minoranze Sudtirolesi in Italia e dei Danesi in Germania - e in istanze di “decontestualizzazione” e autonomia, come in Catalogna o nella richieste di “andarsene” da parte delle ristrette élite economiche della Brexit inglese. Sul pericolo di arretramento dei diritti delle donne nei paesi centro europei si è concentrato anche l’intervento dell’ungherese Borbála Juhász, storica del femminismo e attivista in Ungheria della European Women’s Lobby. La strumentalizzazione del dibattito sul “gender” nell’Ungheria di Orban, e l’enfasi sul ruolo tradizionale della donna nella famiglia, posta da ideologie nazionalistiche e religiose reazionarie, è stato il pretesto per rilanciare una politica demografica familistica che attraverso strumenti come il congedo di maternità di tre anni per le mamme sta espellendo le donne dal mercato del lavoro. Meinzolt ha anche portato l’esempio della società tedesca dove lo split sociale e il differenziale nelle opportunità sono in questi anni drammaticamente aumentati: traumi che producono paura e frustrazione, e grande rabbia sociale che innesca un cortocircuito di atteggiamenti di ansia, diffidenza, e aumento della violenza anche nelle relazioni interpersonali e di genere: “Anche nel cuore dell’Europa la gente sta acquistando armi, e ci troviamo ormai in presenza anche da noi di una popolazione armata: il 25% dei tedeschi tiene in casa armi leggere a cui ricorre per difesa e sempre più in caso di violenza domestica: si registra infatti un aumento di omicidi e femminicidi”. Dalla crisi del 2008, in Germania il mantra di “mettere le donne al lavoro” e del loro “Business empowerment” per sostenere la società viene ancora continuamente ripetuto, e oggi rimotivato secondo la precettistica della moderna womenomics, senza mai mettere in discussione le contraddizioni prodotte dalla crescita economica capitalistica. Anche nella discussione sul clima, anticipate dalla grande tradizione dei Verdi tedeschi, la pregiudiziale che viene sempre portata dalla politica è che gli interventi correttivi devono salvaguardare la crescita. Nelle Università tedesche in generale non si prendono in considerazione modelli alternativi, ma alcune economiste hanno incominciato a introdurre nell’insegnamento elementi di economia femminista alla ricerca di un’alternativa alla crescita spasmodica e obbligatoria. “A questo punto è compito delle donne e delle femministe in particolare mettere in discussione questi assiomi: le donne spagnole e perfino le svizzere a modo loro l’hanno fatto nel 2018, scendendo in strada e reclamando un cambiamento di sistema e della filosofia stessa del lavoro, mentre le donne tedesche per ora si rifiutano di ripetere la storica esperienza delle ‘Suffragette’ per chiedere i propri diritti”. Un atteggiamento che secondo Heidi Meinzolt il movimento delle donne contemporaneo dovrebbe rilanciare in tutta l’Europa, mutuando per esempio la campagna lanciata da WILPF Move the money from war to Peace per ridurre le spese militari e ri-orientarle verso voci di welfare sociale come lavoro, salute, scuola. Le donne devono spingere a livello istituzionale governi e UE a implementare gli obiettivi della Piattaforma di Pechino promossa dall’ONU nel 1995 e rinnovata in varie Conferenze Mondiali delle donne; un impegno sottoscritto da quasi tutti i Paesi europei per implementare 12 aree critiche per le donne, che sono state enfatizzate anche dalla recente campagna ONU “Pianeta 50-50 entro il 2030”: povertà, istruzione e formazione, salute, diritti delle bambine e violenza contro le donne, conflitti armati, economia, potere e processi decisionali, meccanismi per favorire il progresso, diritti fondamentali, media, ambiente. Annick Coupé, sindacalista e presidente di Attac France, associazione che si batte per I diritti ambientali, della casa, del lavoro e contro l’impunità delle multinazionali ha portato il caso Francia come esemplare della situazione dei paesi europei a sviluppo consolidato dove, a fronte di 40 anni di occupazione di massa - con 16 milioni di uomini e 14 milioni di donne nella forza-lavoro -, persiste l’ineguaglianza delle donne sia nel lavoro domestico - che resiste nelle famiglie a ogni redistribuzione tra i generi - sia nel mercato del lavoro sotto vari aspetti: il tasso delle donne sottoccupate, cioè di quelle costrette a lavorare meno di quanto vorrebbero, resta alto e il lavoro discontinuo e part-time le vede all’82% del totale, riflettendosi in un futuro di pensioni povere e svilimento sociale per le donne che già oggi subiscono un differenziale pensionistico pari al 40%, mentre per le occupate il differenziale salariale con gli uomini raggiunge il 20%. Le donne nella loro generalità in Europa non sono state in questi decenni risparmiate dall’aderire a quel dispositivo messo in gioco dal capitalismo sviluppista che è consistito nell’espansione della (bassa) classe media, una dinamica del desiderio che ha saputo creare l’illusione di una forma di mobilità sociale che appaga soprattutto il bisogno e le aspirazioni di autorealizzazione individuali. E allora nel corso delle generazioni novecentesche molte si sono gettate negli studi e nel perseguire carriere professionali un tempo riservate agli uomini: peccato che nel mercato del lavoro francese oggi le donne continuino a vivere nel demansionamento cronico - 2/3 dello Smic, il salario minimo introdotto in Francia nel 1950, finisce nelle buste paga delle donne - con limitate filiere professionali accessibili, blocco delle carriere, prepensionamento forzato. Soprattutto, le giovani donne oggi sono costrette a vivere all’ombra della sottoccupazione e di salari parziali frutto di “lavoretti” e patchwork esistenziali insostenibili. L’alta ..segue ./.
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