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La VOCE 1905 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XXI N°9 | maggio 2019 | PAGINA b - 26 |
come anche la sinistra disumanizza i palestinesi di gaza.
susan abulhawa .
al jazeera, 13 aprile 2019 .
avvolgendo gli abitanti di gaza nell’aura di un mitico coraggio, la sinistra dimentica l’umanità dei palestinesi.
lungo tutto l’arco politico, dall’estrema sinistra all’estrema destra, attraversando ogni confine razziale ed etnico, quasi tutti quelli che hanno qualcosa da dire sui dimostranti di gaza sembrano dimenticarsi il lato umano dei palestinesi. se viene da destra, la narrativa sarà quella dei terroristi, dei razzi e di hamas, rinchiudendo totalmente una legittima resistenza palestinese entro l’immagine di una specie di uomo nero per l’immaginazione occidentale.
da sinistra, le storie diventano materia da leggenda, descrivendo nella parte palestinese solo imperscrutabile eroismo, coraggio e “sumud”, una parola araba romanzata nella lingua inglese per descrivere l’epica determinazione palestinese.
ai due estremi dello spettro, gli inermi palestinesi diventano figure gigantesche, diverse dagli altri esseri umani, sia che riescano sovrumanamente a rappresentare una minaccia per dei soldati perfettamente armati e distanti parecchi campi da calcio, sia che mostrino coraggio e impavidità sovrannaturali di fronte a una morte quasi certa. quest’ultima narrazione, che riesce a drammatizzare un’indicibile disperazione, è così attraente che persino i palestinesi l’hanno ripresa.
nulla da perdere .
solo pochi giorni fa guardavo il video di un giovane a cui avevano sparato alle gambe. zoppica, cade e si rialza solo per essere colpito di nuovo dai proiettili. la scena si ripete per cinque o sei spari consecutivi, finché il giovane non si può più rialzare e gli altri arrivano per portarlo via. il titolo e i commenti esaltavano il “giovane coraggioso” che continuava a resistere al suo oppressore malgrado fosse stato colpito più volte alle gambe.
come madre palestinese, vedevo qualcos’altro in quell’uomo, abbastanza giovane da poter essere mio figlio. forse era stato completamente privato di ogni speranza e gli avevano tolto la voglia di vivere una vita rinchiusa nella barbara, maligna e inventiva ferocia dell’assedio israeliano a gaza. un giovane che ha probabilmente conosciuto poco più che paura, disperazione, povertà e impotenza a fare qualsiasi cosa. forse un giovane che non ha nulla da perdere, uno già derubato della sua vita legittima, che cerca, in segno di sfida, almeno un singolo momento di dignità, sapendo, e magari sperando, che quello sia l’ultimo. e forse è questo ciò che ha visto il soldato che ha sparato, e ha scelto di aggiungere il trauma di un’amputazione a un uomo già torturato che sollevava debolmente una piccola pietra senza neanche la volontà o l’energia sufficiente per lanciarla.
forse la sua motivazione era il nazionalismo. forse aveva la speranza di assicurare denaro alla sua famiglia se fosse stato martirizzato o ferito. forse pensava che la sua morte potesse far avanzare la sua gente di un centimetro verso la libertà. forse era la sola cosa che gli restava da fare. non possiamo sapere cosa passa per la testa di uno che mette il proprio corpo tra i proiettili e la disperazione. ma possiamo essere sicuri che le sue motivazioni sono dolorosamente umane. non c’è nulla di divino da capire o trasformare in feticcio.
analisi riduttive .
non c’è dubbio alcuno che ci vuole coraggio per scendere in campo contro israeliani omicidi e carichi di odio, ma le narrazioni che permeano di mitico eroismo i palestinesi sono nocive. queste narrazioni propongono una irreale, quasi divina, capacità di resistere a ciò che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a sopportare, e nascondono la molto umana e fosca realtà della vita a gaza, che ha portato a tassi di suicidio mai prima visti nella società palestinese.
le persone di gaza hanno differenti ragioni per prendere parte alla grande marcia del ritorno, ma le analisi prevalenti sono riduttive, spesso unendo l’epico coraggio palestinese con la resistenza nonviolenta, perché l’immaginazione occidentale non può tollerare una resistenza armata, non importa quanto durevole e impietosa sia la violenza che è stata inflitta. l’eroismo connesso alle armi è esclusiva prerogativa dei soldati occidentali. l’unica resistenza moralmente valida concessa agli oppressi è, nella mente occidentale, esclusivamente nonviolenta. questo significa che il diritto palestinese alla libertà e alla dignità svanisce nel momento in cui noi facciamo volare degli aquiloni incendiari o spariamo un razzo verso uno stato che da decenni sta massacrando la società e i corpi stessi dei palestinesi. vediamo le stesse reazioni negli usa, quando gli afroamericani si sollevano e non si attengono perfettamente a una “pacifica” e “non violenta” protesta, dopo i secoli di denigrazione e marginalizzazione che hanno subito.
certo non aiuta che persino alcuni palestinesi rafforzino questa opinione, rigettando hamas o riducendo qualsiasi forma di resistenza armata ad un fatto anomalo in una protesta altrimenti ideale e ordinata di un popolo oppresso straordinariamente forte e valoroso.
gaza è un campo di sterminio .
ma bisogna dire la verità, e la verità è orribilmente sgradevole e squallida. non c’è nulla per cui il mondo debba romanzare gaza. nulla da idealizzare. gaza è un campo di sterminio. la tecnologia dello sterminio e della repressione è il maggior prodotto esportato dalla “nazione ebraica” e gaza è il laboratorio umano dove l’industria israeliana delle armi collauda i suoi prodotti sui corpi, le menti e le anime dei palestinesi. è una sventurata esistenza che non risparmia nessuno dei due milioni di prigionieri in quel campo di concentramento.
israele ha trasformato gaza, una volta grande città crocevia di commercio fra tre continenti, in un buco nero dei sogni. gaza è la tomba della speranza, un inceneritore del potenziale umano, un estintore di ogni prospettiva. le persone riescono a malapena a respirare a gaza. non possono lavorare, non possono partire, non possono studiare, non possono costruire, non possono guarire. sotto ogni punto di vista, la minuscola striscia è invivibile, letteralmente inadatta alla vita. quasi il 100% dell’acqua non è potabile. la disoccupazione giovanile è così alta che è più facile contare gli occupati, un patetico 30%. circa l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. la maggior parte degli abitanti gode di poche ore di elettricità al giorno. il sistema fognario è al collasso. il sistema sanitario è giunto al suo punto di rottura e gli ospedali stanno chiudendo per mancanza di rifornimenti essenziali e di carburante, che israele spesso impedisce di comprare o anche di ricevere in dono. questa indicibile miseria è intenzionale. israele l’ha progettata e realizzata. e il mondo permette che continui.
parlare di “sumud” .
quando la nostra vita, la nostra resistenza e la nostra lotta sono inquadrate in termini leggendari, non solo si dimentica la nostra umanità, ma si diminuisce la depravazione morale del controllo israeliano su milioni di vite palestinesi. il discorso sul “sumud” ci prepara all’insuccesso a ogni svolta. da un lato si presuppone che i palestinesi possano sopportare qualsiasi cosa, dall’altro si diffonde l’affermazione sottintesa che i palestinesi meritino di essere liberi poiché sono buoni, coraggiosi, non violenti e determinati.
ma la verità è che non siamo nulla di più, nulla di meno che umani. collettivamente non siamo né mostri né eroi, e anche il peggiore di noi ha il diritto di vivere libero dall’occupazione straniera. va detto e ripetuto che la lotta contro i nostri aguzzini è legittima in ogni sua forma, sia essa nonviolenta o violenta. va detto e ripetuto che comunque noi lottiamo, la nostra resistenza è sempre autodifesa. va detto ancora e ancora che il nostro diritto alla vita e alla dignità non è basato sulla nostra collettiva bontà, o coraggio o risolutezza. in ultima analisi, la sinistra deve smettere di raccontare in forma leggendaria i palestinesi e guardare invece direttamente all’orrore della disperazione e dell’angoscia di gaza che la maggior parte di chi legge, io credo,
non può neanche immaginare.
il punto di vista espresso in questo articolo è quello personale dell’autrice e non riflette necessariamente la linea editoriale di al jazeera.
susan abulhawa è una scrittrice palestinese autrice del romanzo, best-seller internazionale, “ogni mattina a jenin” (2010). è anche fondatrice di playgrounds for palestine, una ong che si occupa di bambini.
traduzione di elisabetta valento
a cura di assopace palestina
l’infinita guerra di gaza: quel che netanyahu spera di guadagnare attaccando i prigionieri
ramzy baroud .
11 aprile 2019, ma’an news .
le violenze che stanno prendendo di mira i detenuti nelle prigioni israeliane sono iniziate il 2 gennaio. e’ stato allora che il ministro israeliano della pubblica sicurezza gilad erdan ha dichiarato che “la festa è finita”.
“ogni tanto compaiono esasperanti fotografie di detenuti che cucinano nei bracci riservati ai terroristi. questa festa sta per finire”, questa la citazione di erdan sul jerusalem post.
quindi la cosiddetta commissione erdan ha raccomandato diverse misure volte a porre termine alla presunta “festa”, che hanno incluso la limitazione dell’uso dell’acqua per i prigionieri, il divieto di cucinare nelle celle e l’installazione di dispositivi di disturbo per bloccare il presunto utilizzo di telefoni cellulari fatti entrare illegalmente.
in particolare quest’ultima misura ha suscitato l’indignazione dei detenuti, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a forti emicranie, svenimenti ed altri sintomi protratti.
erdan ha fatto seguire alla sua decisione la promessa di “usare tutti i mezzi a disposizione (di israele)” per controllare qualunque protesta dei prigionieri in risposta alle nuove restrizioni.
il sistema penitenziario israeliano (spi) “continuerà ad agire con estrema durezza” contro “sommosse” nelle carceri, ha detto, come riportato dal times of israel.
quella “estrema durezza” è stata dispiegata il 20 gennaio nel carcere militare di ofer vicino a ramallah, in cisgiordania, dove una serie di incursioni israeliane ha provocato il ferimento di oltre 100 prigionieri, molti dei quali mostravano ferite da proiettile.
anche le prigioni di nafha e gilboa sono state bersaglio degli stessi metodi violenti.
i raid sono proseguiti, causando ulteriori violenze nel carcere di naqab il 24 marzo, questa volta da parte delle forze dell’spi note come unità metzada.
metzada è una squadra dell’spi “per operazioni speciali di recupero ostaggi” ed è nota per le sue tattiche molto violente contro i prigionieri. il suo attacco a naqab ha provocato il ferimento di molti prigionieri, di cui due in condizioni critiche. i prigionieri palestinesi hanno reagito, secondo quanto riferito, pugnalando due agenti penitenziari con oggetti acuminati.
il 25 marzo sono stati compiuti altri raid simili, sempre da parte di metzada, che hanno riguardato le prigioni di ramon, gilboa, nafha e eshel.
in risposta, la leadership dei prigionieri palestinesi ha adottato diverse misure, compreso lo scioglimento dei comitati di regolamentazione e di ogni altra forma di rappresentanza dei detenuti all’interno delle prigioni israeliane.
il decentramento delle azioni palestinesi nelle prigioni israeliane renderà molto più difficile per israele controllare la situazione e consentirà ai prigionieri di attuare qualunque forma di resistenza che ritengano adeguata.
ma perché israele sta provocando questi scontri, quando i prigionieri palestinesi sono già sottoposti alla più orribile esistenza e a numerose violazioni del diritto internazionale?
e, altrettanto importante, perché adesso?
il 24 dicembre il primo ministro benjamin netanyahu, sotto attacco, ed altri leader del governo israeliano di destra hanno sciolto la knesset (il parlamento) e indetto elezioni anticipate per il 9 aprile.
una delle migliori strategie per i politici israeliani in periodi come questo è normalmente aumentare le ostilità contro i palestinesi nei territori occupati, compresa la striscia di gaza assediata.
e’ senza dubbio esploso un festival dell’odio, che ha coinvolto molti dei principali candidati di israele, alcuni dei quali hanno invocato la guerra contro gaza, altri il dare una lezione ai palestinesi annettendo la cisgiordania, e così via.
solo una settimana dopo l’annuncio della data delle elezioni sono iniziati i raid nelle prigioni. per israele, è stato come un esperimento politico in totale sicurezza e sotto controllo. le immagini video delle forze israeliane che picchiano sventurati prigionieri, accompagnate da dichiarazioni rabbiose rilasciate da alti ufficiali israeliani, hanno catturato le fantasie di una società militante decisamente di destra.
e questo è esattamente ciò che è inizialmente successo. tuttavia, il 25 marzo una fiammata di violenza a gaza ha condotto ad una guerra circoscritta e non dichiarata.
una vera e propria guerra israeliana contro gaza sarebbe un grave azzardo in un periodo elettorale, soprattutto perché eventi recenti indicano che il tempo delle guerre facili è finito. mentre netanyahu ha vestito i panni del leader decisionista, molto determinato a schiacciare la resistenza di gaza, in realtà le sue opzioni sul terreno sono molto limitate.
anche dopo che israele ha accettato i termini mediati dall’egitto del cessate il fuoco con le fazioni di gaza, netanyahu ha continuato a usare parole dure.
“posso dirvi che siamo pronti a fare molto di più”, ha detto, riferendosi all’attacco israeliano a gaza, in un discorso video inviato ai suoi sostenitori a washington il 26 marzo.
ma per una volta non ha potuto farlo e questo insuccesso, da un punto di vista israeliano, ha dato fiato agli attacchi verbali dei suoi rivali politici.
..segue ./.
Come anche la sinistra disumanizza i Palestinesi di GazaSusan Abulhawa Al Jazeera, 13 aprile 2019 Avvolgendo gli abitanti di Gaza nell’aura di un mitico coraggio, la sinistra dimentica l’umanità dei Palestinesi. Lungo tutto l’arco politico, dall’estrema sinistra all’estrema destra, attraversando ogni confine razziale ed etnico, quasi tutti quelli che hanno qualcosa da dire sui dimostranti di Gaza sembrano dimenticarsi il lato umano dei Palestinesi. Se viene da destra, la narrativa sarà quella dei terroristi, dei razzi e di Hamas, rinchiudendo totalmente una legittima resistenza palestinese entro l’immagine di una specie di Uomo Nero per l’immaginazione occidentale. Da sinistra, le storie diventano materia da leggenda, descrivendo nella parte palestinese solo imperscrutabile eroismo, coraggio e “sumud”, una parola araba romanzata nella lingua inglese per descrivere l’epica determinazione palestinese. Ai due estremi dello spettro, gli inermi Palestinesi diventano figure gigantesche, diverse dagli altri esseri umani, sia che riescano sovrumanamente a rappresentare una minaccia per dei soldati perfettamente armati e distanti parecchi campi da calcio, sia che mostrino coraggio e impavidità sovrannaturali di fronte a una morte quasi certa. Quest’ultima narrazione, che riesce a drammatizzare un’indicibile disperazione, è così attraente che persino i Palestinesi l’hanno ripresa. Nulla da perdere Solo pochi giorni fa guardavo il video di un giovane a cui avevano sparato alle gambe. Zoppica, cade e si rialza solo per essere colpito di nuovo dai proiettili. La scena si ripete per cinque o sei spari consecutivi, finché il giovane non si può più rialzare e gli altri arrivano per portarlo via. Il titolo e i commenti esaltavano il “giovane coraggioso” che continuava a resistere al suo oppressore malgrado fosse stato colpito più volte alle gambe. Come madre palestinese, vedevo qualcos’altro in quell’uomo, abbastanza giovane da poter essere mio figlio. Forse era stato completamente privato di ogni speranza e gli avevano tolto la voglia di vivere una vita rinchiusa nella barbara, maligna e inventiva ferocia dell’assedio israeliano a Gaza. Un giovane che ha probabilmente conosciuto poco più che paura, disperazione, povertà e impotenza a fare qualsiasi cosa. Forse un giovane che non ha nulla da perdere, uno già derubato della sua vita legittima, che cerca, in segno di sfida, almeno un singolo momento di dignità, sapendo, e magari sperando, che quello sia l’ultimo. E forse è questo ciò che ha visto il soldato che ha sparato, e ha scelto di aggiungere il trauma di un’amputazione a un uomo già torturato che sollevava debolmente una piccola pietra senza neanche la volontà o l’energia sufficiente per lanciarla. Forse la sua motivazione era il nazionalismo. Forse aveva la speranza di assicurare denaro alla sua famiglia se fosse stato martirizzato o ferito. Forse pensava che la sua morte potesse far avanzare la sua gente di un centimetro verso la libertà. Forse era la sola cosa che gli restava da fare. Non possiamo sapere cosa passa per la testa di uno che mette il proprio corpo tra i proiettili e la disperazione. Ma possiamo essere sicuri che le sue motivazioni sono dolorosamente umane. Non c’è nulla di divino da capire o trasformare in feticcio. Analisi riduttive Non c’è dubbio alcuno che ci vuole coraggio per scendere in campo contro Israeliani omicidi e carichi di odio, ma le narrazioni che permeano di mitico eroismo i Palestinesi sono nocive. Queste narrazioni propongono una irreale, quasi divina, capacità di resistere a ciò che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a sopportare, e nascondono la molto umana e fosca realtà della vita a Gaza, che ha portato a tassi di suicidio mai prima visti nella società palestinese. Le persone di Gaza hanno differenti ragioni per prendere parte alla Grande Marcia del Ritorno, ma le analisi prevalenti sono riduttive, spesso unendo l’epico coraggio palestinese con la resistenza nonviolenta, perché l’immaginazione occidentale non può tollerare una resistenza armata, non importa quanto durevole e impietosa sia la violenza che è stata inflitta. L’eroismo connesso alle armi è esclusiva prerogativa dei soldati occidentali. L’unica resistenza moralmente valida concessa agli oppressi è, nella mente occidentale, esclusivamente nonviolenta. Questo significa che il diritto palestinese alla libertà e alla dignità svanisce nel momento in cui noi facciamo volare degli aquiloni incendiari o spariamo un razzo verso uno stato che da decenni sta massacrando la società e i corpi stessi dei Palestinesi. Vediamo le stesse reazioni negli USA, quando gli Afroamericani si sollevano e non si attengono perfettamente a una “pacifica” e “non violenta” protesta, dopo i secoli di denigrazione e marginalizzazione che hanno subito. Certo non aiuta che persino alcuni Palestinesi rafforzino questa opinione, rigettando Hamas o riducendo qualsiasi forma di resistenza armata ad un fatto anomalo in una protesta altrimenti ideale e ordinata di un popolo oppresso straordinariamente forte e valoroso. Gaza è un campo di sterminio Ma bisogna dire la verità, e la verità è orribilmente sgradevole e squallida. Non c’è nulla per cui il mondo debba romanzare Gaza. Nulla da idealizzare. Gaza è un campo di sterminio. La tecnologia dello sterminio e della repressione è il maggior prodotto esportato dalla “Nazione Ebraica” e Gaza è il laboratorio umano dove l’industria israeliana delle armi collauda i suoi prodotti sui corpi, le menti e le anime dei Palestinesi. È una sventurata esistenza che non risparmia nessuno dei due milioni di prigionieri in quel campo di concentramento. Israele ha trasformato Gaza, una volta grande città crocevia di commercio fra tre continenti, in un buco nero dei sogni. Gaza è la tomba della speranza, un inceneritore del potenziale umano, un estintore di ogni prospettiva. Le persone riescono a malapena a respirare a Gaza. Non possono lavorare, non possono partire, non possono studiare, non possono costruire, non possono guarire. Sotto ogni punto di vista, la minuscola striscia è invivibile, letteralmente inadatta alla vita. Quasi il 100% dell’acqua non è potabile. La disoccupazione giovanile è così alta che è più facile contare gli occupati, un patetico 30%. Circa l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. La maggior parte degli abitanti gode di poche ore di elettricità al giorno. Il sistema fognario è al collasso. Il sistema sanitario è giunto al suo punto di rottura e gli ospedali stanno chiudendo per mancanza di rifornimenti essenziali e di carburante, che Israele spesso impedisce di comprare o anche di ricevere in dono. Questa indicibile miseria è intenzionale. Israele l’ha progettata e realizzata. E il mondo permette che continui. Parlare di “sumud” Quando la nostra vita, la nostra resistenza e la nostra lotta sono inquadrate in termini leggendari, non solo si dimentica la nostra umanità, ma si diminuisce la depravazione morale del controllo israeliano su milioni di vite palestinesi. Il discorso sul “sumud” ci prepara all’insuccesso a ogni svolta. Da un lato si presuppone che i Palestinesi possano sopportare qualsiasi cosa, dall’altro si diffonde l’affermazione sottintesa che i Palestinesi meritino di essere liberi poiché sono buoni, coraggiosi, non violenti e determinati. Ma la verità è che non siamo nulla di più, nulla di meno che umani. Collettivamente non siamo né mostri né eroi, e anche il peggiore di noi ha il diritto di vivere libero dall’occupazione straniera. Va detto e ripetuto che la lotta contro i nostri aguzzini è legittima in ogni sua forma, sia essa nonviolenta o violenta. Va detto e ripetuto che comunque noi lottiamo, la nostra resistenza è sempre autodifesa. Va detto ancora e ancora che il nostro diritto alla vita e alla dignità non è basato sulla nostra collettiva bontà, o coraggio o risolutezza. In ultima analisi, la sinistra deve smettere di raccontare in forma leggendaria i Palestinesi e guardare invece direttamente all’orrore della disperazione e dell’angoscia di Gaza che la maggior parte di chi legge, io credo, |
non può neanche immaginare.
Il punto di vista espresso in questo articolo è quello personale dell’autrice e non riflette necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera. Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese autrice del romanzo, best-seller internazionale, “Ogni mattina a Jenin” (2010). È anche fondatrice di Playgrounds for Palestine, una ONG che si occupa di bambini. Traduzione di Elisabetta Valento A cura di Assopace Palestina L’infinita guerra di Gaza: quel che Netanyahu spera di guadagnare attaccando i prigionieriRamzy Baroud 11 aprile 2019, Ma’an News Le violenze che stanno prendendo di mira i detenuti nelle prigioni israeliane sono iniziate il 2 gennaio. E’ stato allora che il ministro israeliano della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan ha dichiarato che “la festa è finita”. “Ogni tanto compaiono esasperanti fotografie di detenuti che cucinano nei bracci riservati ai terroristi. Questa festa sta per finire”, questa la citazione di Erdan sul Jerusalem Post. Quindi la cosiddetta Commissione Erdan ha raccomandato diverse misure volte a porre termine alla presunta “festa”, che hanno incluso la limitazione dell’uso dell’acqua per i prigionieri, il divieto di cucinare nelle celle e l’installazione di dispositivi di disturbo per bloccare il presunto utilizzo di telefoni cellulari fatti entrare illegalmente. In particolare quest’ultima misura ha suscitato l’indignazione dei detenuti, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a forti emicranie, svenimenti ed altri sintomi protratti. Erdan ha fatto seguire alla sua decisione la promessa di “usare tutti i mezzi a disposizione (di Israele)” per controllare qualunque protesta dei prigionieri in risposta alle nuove restrizioni. Il Sistema Penitenziario Israeliano (SPI) “continuerà ad agire con estrema durezza” contro “sommosse” nelle carceri, ha detto, come riportato dal Times of Israel. Quella “estrema durezza” è stata dispiegata il 20 gennaio nel carcere militare di Ofer vicino a Ramallah, in Cisgiordania, dove una serie di incursioni israeliane ha provocato il ferimento di oltre 100 prigionieri, molti dei quali mostravano ferite da proiettile. Anche le prigioni di Nafha e Gilboa sono state bersaglio degli stessi metodi violenti. I raid sono proseguiti, causando ulteriori violenze nel carcere di Naqab il 24 marzo, questa volta da parte delle forze dell’SPI note come unità Metzada. Metzada è una squadra dell’SPI “per operazioni speciali di recupero ostaggi” ed è nota per le sue tattiche molto violente contro i prigionieri. Il suo attacco a Naqab ha provocato il ferimento di molti prigionieri, di cui due in condizioni critiche. I prigionieri palestinesi hanno reagito, secondo quanto riferito, pugnalando due agenti penitenziari con oggetti acuminati. Il 25 marzo sono stati compiuti altri raid simili, sempre da parte di Metzada, che hanno riguardato le prigioni di Ramon, Gilboa, Nafha e Eshel. In risposta, la leadership dei prigionieri palestinesi ha adottato diverse misure, compreso lo scioglimento dei comitati di regolamentazione e di ogni altra forma di rappresentanza dei detenuti all’interno delle prigioni israeliane. Il decentramento delle azioni palestinesi nelle prigioni israeliane renderà molto più difficile per Israele controllare la situazione e consentirà ai prigionieri di attuare qualunque forma di resistenza che ritengano adeguata. Ma perché Israele sta provocando questi scontri, quando i prigionieri palestinesi sono già sottoposti alla più orribile esistenza e a numerose violazioni del diritto internazionale? E, altrettanto importante, perché adesso? Il 24 dicembre il primo ministro Benjamin Netanyahu, sotto attacco, ed altri leader del governo israeliano di destra hanno sciolto la Knesset (il parlamento) e indetto elezioni anticipate per il 9 aprile. Una delle migliori strategie per i politici israeliani in periodi come questo è normalmente aumentare le ostilità contro i palestinesi nei Territori Occupati, compresa la Striscia di Gaza assediata. E’ senza dubbio esploso un festival dell’odio, che ha coinvolto molti dei principali candidati di Israele, alcuni dei quali hanno invocato la guerra contro Gaza, altri il dare una lezione ai palestinesi annettendo la Cisgiordania, e così via. Solo una settimana dopo l’annuncio della data delle elezioni sono iniziati i raid nelle prigioni. Per Israele, è stato come un esperimento politico in totale sicurezza e sotto controllo. Le immagini video delle forze israeliane che picchiano sventurati prigionieri, accompagnate da dichiarazioni rabbiose rilasciate da alti ufficiali israeliani, hanno catturato le fantasie di una società militante decisamente di destra. E questo è esattamente ciò che è inizialmente successo. Tuttavia, il 25 marzo una fiammata di violenza a Gaza ha condotto ad una guerra circoscritta e non dichiarata. Una vera e propria guerra israeliana contro Gaza sarebbe un grave azzardo in un periodo elettorale, soprattutto perché eventi recenti indicano che il tempo delle guerre facili è finito. Mentre Netanyahu ha vestito i panni del leader decisionista, molto determinato a schiacciare la resistenza di Gaza, in realtà le sue opzioni sul terreno sono molto limitate. Anche dopo che Israele ha accettato i termini mediati dall’Egitto del cessate il fuoco con le fazioni di Gaza, Netanyahu ha continuato a usare parole dure. “Posso dirvi che siamo pronti a fare molto di più”, ha detto, riferendosi all’attacco israeliano a Gaza, in un discorso video inviato ai suoi sostenitori a Washington il 26 marzo. Ma per una volta non ha potuto farlo e questo insuccesso, da un punto di vista israeliano, ha dato fiato agli attacchi verbali dei suoi rivali politici. ..segue ./.
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