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La VOCE 1906

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La VOCE ANNO XXI N°10

giugno 2019

PAGINA 3         - 23

segue da pag.22: parla il ministro degli esteri di milosevic . nel quadro della loro “espansione ad est”. per una soluzione equa e sostenibile il processo negoziale deve includere anche russia e cina, vale a dire tutti i membri permanenti del cds. non dobbiamo dimenticare che vi sono molti “kosovo” in lista d’attesa sul continente euroasiatico. --- 3). http://www.patriaindipendente. giornata della memoria (difficile): i campi del duce. di carlo spartaco capogreco, 24 gennaio 2019. in gran parte rimossi nella coscienza nazionale i 48 luoghi d’internamento in italia. i casi di ferramonti e campagna. una narrazione riduttiva e monca per coprire le responsabilità del fascismo. l’autore è stato il primo storico italiano a ricostruire in una monografia le vicende di un campo fascista (“ferramonti”, la giuntina 1987). la sua opera più nota è la ricerca ventennale confluita nel volume “i campi del duce” (einaudi 2004, pubblicato in più lingue), per il quale è stato insignito dalla repubblica di croazia dell’“ordine della stella mattutina”. nel 2007, col volume “il piombo e l’argento” (donzelli), ha ottenuto il premio “della resistenza-città di omegna”. alle sue ricerche va anche il merito di aver portato alla luce la figura di maria eisenstein e il suo “l’internata numero 6”, prima testimonianza diretta da un campo di concentramento fascista. la storia dei campi di concentramento per civili impiegati dall’italia fascista, dopo il 1945 non ha trovato spazio adeguato nella memoria collettiva e nella coscienza civile. poco congeniale alla narrazione del passato affermatasi nel dopoguerra, l’argomento rimase generalmente avulso dal sentire comune e dall’interesse della ricerca accademica. resta esemplare, quasi incredibile, l’episodio occorso nel 1965 a treviso, dove, ad una delegazione slovena giunta per rendere omaggio ai propri connazionali deceduti a monigo (il campo che, negli anni 1942-43, aveva funzionato appena fuori città, con 200 vittime, tra cui 53 bambini), le autorità locali non seppero dire alcunché. questo conferma come, nella giovane repubblica “nata dalla resistenza”, potesse accadere che – persino in una città che era stata sede di un campo di concentramento – né la scuola, né le istituzioni fornissero alla collettività alcun input sull’argomento [1].. la mappatura dei campi e la ricostruzione del “sistema concentrazionario” fascista richiesero tempi lunghi, anche perché – tra rimozione istituzionale e “latitanza degli storici” – a farsi carico del grosso delle ricerche (nel ventennio 1984-2004) non furono, nella maggioranza dei casi, soggetti istituzionalmente deputati a “fare storia”, ma studiosi e ricercatori che operavano per pura passione personale.. oggi, finalmente, la storia e la memoria dei campi fascisti si sono in gran parte aperte al sentire comune e al riconoscimento istituzionale; ma tale processo non è stato – e non è – sempre e ovunque lineare e.
omogeneo. restano, peraltro, quanto mai attuali le parole con cui, vent’anni fa, claudio pavone ammoniva che occorrono sempre tempi lunghi affinché la coscienza collettiva elabori “nuove sintesi”, a partire dai “materiali freschi” che la ricerca storica rende disponibili. è quindi importante – in un’epoca come la nostra, dominata dal “presentismo” (la “fretta di trovare soluzioni immediate, senza curarsi di esaminare le radici dei problemi”) [2] – fare buon uso della “memoria ritrovata”. una memoria – quella dei campi fascisti – solo apparentemente facile, perché si presta facilmente a narrazioni trite e a letture approssimative o “mitologiche”. promuoverne una memoria critica, uno degli aspetti nodali, in questo caso, consiste anzitutto nel “saper leggere” la storia (anche quella del dopoguerra!) e il territorio (ciò che rimane dei siti e delle vecchie strutture, che in italia, il più delle volte, non sono rappresentate da baracche e reticolati). e una “buona lettura” rimanda, inevitabilmente, al rapporto campi fascisti/“luoghi di memoria”: un nesso che, per molti aspetti, è diventato un mantra, ma che, però, è alquanto ambiguo. si sa che tra “spazio” (un ambito generico, privo di identità) e “luogo” (uno spazio specifico e ben determinato) c’è una grande differenza. che, a determinare quest’ultima, sono le relazioni sociali e le sedimentazioni di significati che caricano il luogo di riferimenti importanti per gli individui e le comunità che lo abitano. ebbene, dai primi anni novanta la nuova stagione storiografica sull’internamento fascista ha spinto le comunità (non soltanto gli studiosi locali, ma anche gli amministratori e i comuni cittadini) a guardare con sguardo più attento al proprio territorio. ad accorgersi, finalmente, dell’esistenza (attuale o passata) di “strutture concentrazionarie” e di luoghi “non riconosciuti”, ma di rilevanza storica. così, ai siti dei campi fascisti si è cominciato ad attribuire la patente di “luogo di memoria”. un’etichetta “ovvia”, che, però, non restituisce sempre, di per sé, la garanzia del “fare memoria” a luoghi e strutture lungamente segnati, soprattutto, dall’oblio. perché tende, talvolta, a bypassare una storia che – persino laddove le ricerche hanno favorito una precoce riscoperta dei campi – può essere ancora caratterizzata da violazioni dell’ambiente e del territorio e/o da travisamenti della realtà storico-fattuale degli eventi [3]. br /> ma facciamo qualche esempio. a ferramonti (la contrada calabrese che, negli anni 1940-43, fu sede d’un grande campo di concentramento e oggi ne conserva qualche resto snaturato), il definitivo stravolgimento del luogo determinato, nei primi anni duemila, da un’illogica “ristrutturazione” decisa dal comune, ha portato alla quasi totale scomparsa delle ultime vestigia originali del campo. producendo danni storico-ambientali così gravi da meritarsi, qualche tempo dopo, anche una nota di condanna di “italia nostra”: “appare evidente – si legge, tra l’altro, in quel documento – che ferramonti è oggi, di fatto, tutt’altro che un ‘luogo di memoria’, presentandosi piuttosto come un’area del ricordo in cui dilagano smemoratezza e spregiudicatezza, nella quale – si potrebbe dire con un filo di ironia e non poca tristezza – proprio la memoria, da qualche tempo, vi viene internata” [4]. a campagna (il paese del salernitano che ospitò un altro dei 48 “campi del duce” gestiti dal ministero dell’interno), da qualche tempo un “museo della memoria” si rivolge – così si legge sul suo sito web – “a tutti coloro che intendono approfondire quella che noi amiamo definire ‘una storia diversa’ riconducibile a temi di grande attualità, come: la shoah, il dialogo. ..segue ./.
Segue da Pag.22: Parla il ministro degli Esteri di Milosevic

nel quadro della loro “espansione ad Est”. Per una soluzione equa e sostenibile il processo negoziale deve includere anche Russia e Cina, vale a dire tutti i membri permanenti del CDS. Non dobbiamo dimenticare che vi sono molti “Kosovo” in lista d’attesa sul continente euroasiatico.

--- 3)

http://www.patriaindipendente.

Giornata della Memoria (difficile): i campi del duce


di Carlo Spartaco Capogreco, 24 gennaio 2019


In gran parte rimossi nella coscienza nazionale i 48 luoghi d’internamento in Italia. I casi di Ferramonti e Campagna. Una narrazione riduttiva e monca per coprire le responsabilità del fascismo

L’Autore è stato il primo storico italiano a ricostruire in una monografia le vicende di un campo fascista (“Ferramonti”, La Giuntina 1987). La sua opera più nota è la ricerca ventennale confluita nel volume “I campi del duce” (Einaudi 2004, pubblicato in più lingue), per il quale è stato insignito dalla Repubblica di Croazia dell’“Ordine della Stella Mattutina”. Nel 2007, col volume “Il piombo e l’argento” (Donzelli), ha ottenuto il Premio “Della Resistenza-Città di Omegna”. Alle sue ricerche va anche il merito di aver portato alla luce la figura di Maria Eisenstein e il suo “L’internata numero 6”, prima testimonianza diretta da un campo di concentramento fascista.

La storia dei campi di concentramento per civili impiegati dall’Italia fascista, dopo il 1945 non ha trovato spazio adeguato nella memoria collettiva e nella coscienza civile. Poco congeniale alla narrazione del passato affermatasi nel dopoguerra, l’argomento rimase generalmente avulso dal sentire comune e dall’interesse della ricerca accademica. Resta esemplare, quasi incredibile, l’episodio occorso nel 1965 a Treviso, dove, ad una delegazione slovena giunta per rendere omaggio ai propri connazionali deceduti a Monigo (il campo che, negli anni 1942-43, aveva funzionato appena fuori città, con 200 vittime, tra cui 53 bambini), le autorità locali non seppero dire alcunché. Questo conferma come, nella giovane repubblica “nata dalla Resistenza”, potesse accadere che – persino in una città che era stata sede di un campo di concentramento – né la scuola, né le istituzioni fornissero alla collettività alcun 
input sull’argomento [1]..

La mappatura dei campi e la ricostruzione del “sistema concentrazionario” fascista richiesero tempi lunghi, anche perché – tra rimozione istituzionale e “latitanza degli storici” – a farsi carico del grosso delle ricerche (nel ventennio 1984-2004) non furono, nella maggioranza dei casi, soggetti istituzionalmente deputati a “fare storia”, ma studiosi e ricercatori che operavano per pura passione personale.. Oggi, finalmente, la storia e la memoria dei campi fascisti si sono in gran parte aperte al sentire comune e al riconoscimento istituzionale; ma tale processo non è stato – e non è – sempre e ovunque lineare

e omogeneo. Restano, peraltro, quanto mai attuali le parole con cui, vent’anni fa, Claudio Pavone ammoniva che occorrono sempre tempi lunghi affinché la coscienza collettiva elabori “nuove sintesi”, a partire dai “materiali freschi” che la ricerca storica rende disponibili. È quindi importante – in un’epoca come la nostra, dominata dal “presentismo” (la “fretta di trovare soluzioni immediate, senza curarsi di esaminare le radici dei problemi”) [2] – fare buon uso della “memoria ritrovata”. Una memoria – quella dei campi fascisti – solo apparentemente facile, perché si presta facilmente a narrazioni trite e a letture approssimative o “mitologiche”.

Promuoverne una memoria critica, uno degli aspetti nodali, in questo caso, consiste anzitutto nel “saper leggere” la storia (anche quella del dopoguerra!) e il territorio (ciò che rimane dei siti e delle vecchie strutture, che in Italia, il più delle volte, non sono rappresentate da baracche e reticolati). E una “buona lettura” rimanda, inevitabilmente, al rapporto campi fascisti/“luoghi di memoria”: un nesso che, per molti aspetti, è diventato un mantra, ma che, però, è alquanto ambiguo. Si sa che tra “spazio” (un ambito generico, privo di identità) e “luogo” (uno spazio specifico e ben determinato) c’è una grande differenza. Che, a determinare quest’ultima, sono le relazioni sociali e le sedimentazioni di significati che caricano il luogo di riferimenti importanti per gli individui e le comunità che lo abitano. Ebbene, dai primi anni Novanta la nuova stagione storiografica sull’internamento fascista ha spinto le comunità (non soltanto gli studiosi locali, ma anche gli amministratori e i comuni cittadini) a guardare con sguardo più attento al proprio territorio. Ad accorgersi, finalmente, dell’esistenza (attuale o passata) di “strutture concentrazionarie” e di luoghi “non riconosciuti”, ma di rilevanza storica.

Così, ai siti dei campi fascisti si è cominciato ad attribuire la patente di “luogo di memoria”. Un’etichetta “ovvia”, che, però, non restituisce sempre, di per sé, la garanzia del “fare memoria” a luoghi e strutture lungamente segnati, soprattutto, dall’oblio. Perché tende, talvolta, a bypassare una storia che – persino laddove le ricerche hanno favorito una precoce riscoperta dei campi – può essere ancora caratterizzata da violazioni dell’ambiente e del territorio e/o da travisamenti della realtà storico-fattuale degli eventi [3].
br /> Ma facciamo qualche esempio. A Ferramonti (la contrada calabrese che, negli anni 1940-43, fu sede d’un grande campo di concentramento e oggi ne conserva qualche resto snaturato), il definitivo stravolgimento del luogo determinato, nei primi anni Duemila, da un’illogica “ristrutturazione” decisa dal Comune, ha portato alla quasi totale scomparsa delle ultime vestigia originali del campo. Producendo danni storico-ambientali così gravi da meritarsi, qualche tempo dopo, anche una nota di condanna di “Italia Nostra”: “Appare evidente – si legge, tra l’altro, in quel documento – che Ferramonti è oggi, di fatto, tutt’altro che un ‘luogo di memoria’, presentandosi piuttosto come un’area del ricordo in cui dilagano smemoratezza e spregiudicatezza, nella quale – si potrebbe dire con un filo di ironia e non poca tristezza – proprio la memoria, da qualche tempo, vi viene internata” [4]. A Campagna (il paese del salernitano che ospitò un altro dei 48 “campi del duce” gestiti dal ministero dell’Interno), da qualche tempo un “museo della memoria” si rivolge – così si legge sul suo sito 
web – “a tutti coloro che intendono approfondire quella che noi amiamo definire ‘una storia diversa’ riconducibile a temi di grande attualità, come: la Shoah, il dialogo

..segue ./.

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