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La VOCE ANNO XXI N°5

gennaio 2019

PAGINA 8

Il conflitto sociale e la propaganda delle élite

La preoccupazione delle élite europeiste per le tensioni sociali e politiche che scuotono i Paesi del vecchio continente – dal nodo irrisolto della Brexit alla rivolta dei gilet gialli francesi, dalla crisi del duopolio CDU - SPD in Germania al conflitto fra il governo gialloverde italiano e Bruxelles – aumenta con l’avvicinarsi delle elezioni europee e con i timori per il possibile riacutizzarsi di una crisi finanziaria mai realmente chiusa. In questo quadro la propaganda contro la minaccia “populista” e “sovranista” si fa spasmodica, assume toni da crociata e fa sì che il conflitto sociale che le chiacchiere di partiti e media di regime tentano di oscurare emerga sempre più chiaramente.

Provo ad approfondire quest’ultima affermazione analizzando due casi di mobilitazione propagandistica (a stento mimetizzata) e gli interventi di due noti intellettuali. Parto dall’appello dell’associazione Snoq - Libere per le elezioni Europee 2019, pubblicato il 15 dicembre scorso sul Corriere sotto il titolo “Il populismo che disgrega la forza delle donne”.

L’appello ammette che l’ascesa in posizioni di potere di molte donne non ha significativamente cambiato il mondo ma, invece di trarne le dovute conseguenze (cioè che per cambiarlo realmente occorre rovesciare i rapporti di forza socioeconomici che si collocano a monte del conflitto di genere) sostiene: 1) che il vero punto è che le donne non hanno ancora ottenuto abbastanza potere; 2) che il populismo in quanto tale (cioè senza distinzioni fra populismo di destra e populismo democratico) minaccia di provocare un arretramento della libertà e dell’autonomia femminili che i valori europeisti consentirebbero al contrario di promuovere.

Questa posizione non rappresenta, come pretenderebbe, un punto di vista femminista che, oggi, appare attraversato da forti contraddizioni e, in particolare, dall’opposizione fra una posizione “emancipazionista” (rivendicazione della parità assoluta di genere senza mettere in discussione le altre relazioni sociali, economiche e politiche) e una posizione che ha la sua massima esponente in Nancy Fraser, la quale, al pari di altre intellettuali femministe, riconosce in questo femminismo “clintoniano” un potente alleato del regime neoliberista, nella misura in cui incarna gli interessi di una ristretta élite di donne “di successo”. Del resto, basta scorrere l’elenco delle firmatarie dell’appello per capire come ci si trovi di fronte a qualcosa di analogo alle “madamine” che hanno ispirato la mobilitazione torinese Si Tav, e contro le quali si sono schierate le “montagnine” del No Tav. In poche parole: chiacchiere “femministe” a copertura di un manifesto elettorale a sostegno del PD e delle altre forze politiche europeiste.

Un altro manifesto elettorale mascherato si legge fra le righe di molti articoli dedicati all’assassinio di Antonio Megalizzi da parte di un terrorista islamico, avvenuto pochi giorni fa a Strasburgo. Il tragico evento viene caricato di significati simbolici a partire dal luogo in cui è avvenuto (la sede del Parlamento europeo), ma soprattutto dall’attività professionale della vittima, giornalista radiofonico che lavorava per Europhonica, un network di radio universitarie impegnate a “raccontare l’Europa” agli studenti. E’ un dato di fatto che le università occidentali, anni fa sede di radicali contestazioni antisistema, si sono progressivamente trasformate – sia attraverso l’aumento dei costi di accesso che le hanno fatte regredire all’originaria funzione di luogo di formazione degli strati sociali medio elevati, sia attraverso l’offerta di un corpo docente e programmi didattici allineati al pensiero unico neoliberista – in santuari di quella “generazione Erasmus” che assume a paradigma la libera circolazione di merci, capitali e persone offerta dai trattati europei, a prescindere dagli effetti di tale “libertà” sulla massa dei perdenti al gioco della globalizzazione. C’è chi parla di Megalizzi come del “figlio ideale di tutti noi”, ma quel “tutti”, se vale ovviamente sul piano del sentimento umano (la sua morte è un fatto che in tutti suscita orrore), vale assai meno sul piano dei valori e delle convinzioni della vittima. Così il lutto per la sua fine viene a sua volta strumentalizzato per veicolare un messaggio elettorale a sostegno delle forze europeiste.

Passiamo agli articoli. Nel primo (sul Corriere della Sera del 17 dicembre) Angelo Panebianco ribadisce le ragioni per cui si oppone al blocco dei flussi migratori: si comincia frenando il flusso delle persone e si finisce per frenare quello di merci e capitali. E fin qui siamo alle classiche argomentazioni liberiste a sostegno della “società aperta” (oggi condivise dalle sinistre), dopodiché Panebianco spiega il motivo (che viceversa sfugge alla sinistra no border) che minaccia di trasformare l’apertura dei confini in un dispositivo non meno catastrofico della loro chiusura ai fini della sopravvivenza stessa della società aperta: se è vero che la crescita demografica africana procede a ritmi esponenziali, e se è vero che la miseria di quel continente continuerà ad alimentare flussi migratori massicci e inarrestabili, l’esito a medio lungo termine non potrà essere diverso da un arroccamento della fortezza Europa.

Come uscirne? Promuovendo lo sviluppo economico accelerato dell’Africa. Il che non può avvenire finanziando le élite corrotte di quei Paesi, che incamerano gli aiuti per arricchirsi e non per far crescere le proprie economie. Giusto, però Panebianco non dice che quelle élite sono state messe al potere dall’Occidente per svolgere il ruolo di garanti degli interessi sugli “aiuti” internazionali (l’economia del debito imposta dalla finanzia mondiale ha immiserito l’Africa assai più della corruzione dei regimi locali). Né tanto meno dice come se ne potrebbe uscire, e questo perché l’unica via realmente praticabile è quella indicata da Samir Amin: delinking delle economie neocoloniali dal mercato globale, il che implica il disconoscimento del debito e la nazionalizzazione delle risorse naturali di cui oggi si appropriano le multinazionali occidentali. Implica, quindi, un drastico ridimensionamento del flusso di ricchezze che l’Europa oggi estrae da quelle nazioni e la conseguente riduzione della già magra quota di bottino da redistribuire alle classi popolari per tenerle buone.

Il secondo articolo è quello di Giuseppe De Rita (sulla stessa pagina del Corriere). Il sociologo bacchetta chi guarda con invidia alla vitalità della piazza francese, paragonando l’energia dei gilet gialli alla inerzia delle masse nostrane. Il rancore contro le nostre élite, scrive De Rita, ha già prodotto l’ondata populista che ha regalato il potere a M5S e Lega, manca solo che quel rancore – rinfocolato dal “tradimento” delle speranze alimentate dal governo gialloverde – si trasformi in rabbia e paura, spingendo le nostre moltitudini a imitare gli spiriti neo giacobini d’Oltralpe. Come metabolizzare il rancore e prevenire scoppi di paura e rabbia? Concentrandosi, scrive De Rita, “sugli specifici episodi di disagio richiamati all’inizio” (l’articolo cita in merito No Tav, periferie urbane e altre ragioni di malcontento sociale e territoriale) e governandoli “con adeguata professionalità, serietà, continuità”.

Il tutto suona come una conferma da manuale delle tesi di Laclau sulle radici della sfida populista: finché le élite sono in grado di dare una risposta differenziale ai cahiers de doléances popolari, affrontando una rivendicazione alla volta, il sistema regge, ma quando non ce la fanno più le varie rivendicazioni (anche assai diverse o in contrasto fra loro) si sommano, dando vita a una catena di equivalenze che può saldare in popolo le moltitudini indifferenziate, e che, se incontra una guida e un progetto politici, può evolvere in una poderosa minaccia alla sopravvivenza stessa del sistema.

In conclusione: messi alla strette, gli strati sociali che compongono il blocco di potere e le caste politiche e intellettuali che le rappresentano, da un lato, sfoderano tutta la loro capacità di esercitare egemonia sul piano culturale, sfruttando ogni occasione per condurre campagne propagandistiche (vedi i due esempi sopra citati), dall’altro lato, le loro migliori intelligenze producono analisi e discorsi che si avvicinano sempre più alla nuda realtà del conflitto sociale, svelando qual è la vera posta in gioco dello scontro in atto.

Carlo Formenti - (17 dicembre 2018)

Darwin, Marx e il mondo globalizzato

di MATTEO MAMELI e LORENZO DEL SAVIO - (26 novembre 2018)

È stato recentemente pubblicato “Darwin, Marx e il mondo globalizzato” di Matteo Mameli e Lorenzo Del Savio (Meltemi, 2018). Il saggio elabora idee marxiane e darwiniane per parlare del passato e del futuro della globalizzazione e dello sviluppo umano. I temi che emergono sono tanti: disuguaglianze e tecnologie, populismo e mercati, cambiamenti climatici e biodiversità, migrazioni e reddito di base, guerra e carità, femminismo e mascolinità tossica, amore e sesso, transumanesimo ed eugenetica. La chiave di lettura è però una sola: gli autori mettono al centro della loro riflessione filosofica la “produzione sociale” e il suo potere di trasformare tutto, anche la natura umana. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dall’introduzione e da uno dei capitoli conclusivi del libro.

La globalizzazione è fondamentalmente un processo di cambiamento della forma delle interazioni umane. Queste, o perlomeno una parte importante di esse, stanno diventando sempre più complesse e giungono ad avvolgere l’intero globo terrestre. Molte di queste interazioni sono produttive e cooperative. Lo sono nel senso che mettono insieme le abilità e gli sforzi di più individui, generando beni e valori che non sarebbe possibile produrre individualmente e separatamente, perlomeno non con la stessa efficacia. Interazioni di questo tipo sono cioè interazioni di produzione sociale, o produzione cooperativa.

Beni e valori sono le cose che permettono agli umani di realizzare i loro progetti e soddisfare i loro desideri. Alcuni beni e valori sono economici, li si può vendere e comprare; altri no. Quando si parla delle eccedenze e della ricchezza generata dalla produzione sociale, occorre includere tutti gli aspetti dei modi molteplici con cui gli umani cercano di dare senso e direzione alle loro vite. Ossia, oltre ai beni e ai valori economici in senso stretto, bisogna includere l’amore, l’amicizia, l’intimità, la salute, la conoscenza, l’educazione, il divertimento, l’arte, le libertà, le opportunità di esplorare ed esprimere se stessi, e più in generale tutte quelle cose che possono contribuire a realizzare progetti, a soddisfare desideri e al crearne di nuovi.

La socialità umana non è ristretta alla famiglia o ai piccoli gruppi: gli umani sono ipersociali e dunque, a differenza di altri animali, possono avere interazioni produttive e cooperative con chiunque. Con la globalizzazione emergono interazioni produttive e cooperative che coinvolgono grandi numeri di individui. L’era della globalizzazione è l’era in cui le interazioni umane raggiungono una dimensione sistematicamente e robustamente globale. Tuttavia la globalizzazione è solo l’ultima fase di un processo di ipersocializzazione iniziato molto tempo fa. [...] La globalizzazione ha perciò una storia profonda. Un’esplorazione di questa storia può servire a capire alcune caratteristiche importanti della fase attuale per provare a prevederne e indirizzarne gli esiti.

Gli esiti sono infatti incerti. Può il processo di crescita della produzione sociale proseguire? O esistono invece limiti che non permetteranno di andare oltre il livello raggiunto finora o che addirittura faranno regredire o anche collassare questo processo? I limiti in questione possono essere suddivisi in tre categorie. Ci sono quelli che derivano dalla natura umana: cosa occorre fare se qualche aspetto della natura umana ci impedisce di mettere insieme le nostre abilità e i nostri sforzi produttivi nei modi sempre più complessi richiesti dalla scala planetaria raggiunta dalle interazioni umane? Ci sono poi quei limiti che derivano dalla finitezza delle risorse naturali a cui gli umani hanno accesso: cosa occorre fare se mettere insieme le nostre abilità e i nostri sforzi produttivi in modi sempre più efficienti danneggia il pianeta? Ci sono infine quei limiti che derivano dalla distribuzione di beni e valori: cosa occorre fare se le disuguaglianze nella distribuzione di quanto generato da una produzione sociale sempre più intricata scatenano dinamiche che frenano o bloccano la produzione sociale stessa? Non è chiaro se e come questi limiti possano essere superati.

Affrontiamo questi temi combinando strumenti di matrice darwiniana e strumenti di matrice marxiana. Darwin ci fornisce la chiave d’accesso a una serie di ipotesi a proposito dell’evoluzione della natura e della socialità umana. Marx ci dà invece modo di elaborare alcuni temi concernenti la produzione sociale e il suo impatto trasformativo. Questo libro è il tentativo di mostrare l’utilità di un approccio che metta insieme pensiero biologico e pensiero politico.

***

Nel 1883 è Engels a pronunciare il discorso al funerale di Marx, al cimitero londinese di Highgate, davanti ai pochissimi convenuti. In quell’occasione, Engels menziona anche Darwin, morto l’anno prima:

Come Darwin scoprì la legge dello sviluppo della natura organica, così Marx scoprì la legge dello sviluppo della storia umana: il semplice fatto, fino ad allora nascosto da una rigogliosa ideologia, che l’umanità deve prima di tutto mangiare, bere, avere un rifugio e vestiti, prima di poter dedicarsi a politica, scienza, arte, religione, eccetera; e che dunque la produzione dei mezzi vitali materiali immediati, e quindi il grado di sviluppo ottenuto da un dato popolo o in una certa epoca, formano il fondamento sul quale si sono evolute le istituzioni statali, le concezioni legali, l’arte, e persino le idee sulla religione, del popolo in questione, le quali devono perciò essere spiegate alla luce di quelli, e non viceversa, come fino a quel momento si era fatto.

Secondo Engels, Marx ha scoperto il fondamento materiale, biologico, della storia umana e questa scoperta viene prima dell’altra scoperta di Marx, quella della “legge speciale che governa l’attuale modo di produzione capitalistico”. Quello di Marx è un materialismo che non si limita a contemplare il mondo ma prova a cambiarlo nella direzione di una produzione sociale sempre più creativa e sempre più universalmente benefica:

La scienza fu per Marx una forza storicamente in movimento, una forza rivoluzionaria.

Le riflessioni offerte in queste pagine propongono una biologizzazione della teoria e della pratica politica. [...] Ogni progetto di trasformazione politica è un progetto di trasformazione biologica. Bisogna lasciarsi alle spalle le ipocrisie che pervadono i dibattiti sui rapporti tra ricerca scientifica e prassi politica.

La teoria di matrice darwiniana mette al centro l’importanza della natura umana e, allo stesso tempo, la sua storia e trasformazione. Come ha osservato Timpanaro elaborando le indicazioni di Engels, all’interno di una prospettiva darwiniana la temporalità della natura e quella della storia umana si compenetrano. Da questo segue l’inevitabile rilevanza per qualsiasi azione trasformativa della conoscenza dei fatti naturali, in primo luogo di quelli che riguardano le caratteristiche della nostra specie. Gli sviluppi più recenti sul fronte degli studi dell’evoluzione si concentrano sulle limitazioni e le potenzialità della socialità umana e sul ruolo della cultura cumulativa. Ulteriori sviluppi si possono ottenere integrando la ricerca biologica con un’attenzione di matrice marxiana per la produzione sociale, per i suoi molteplici effetti, e per il ruolo dei conflitti politici.

Sono in molti quelli che oggi parlano delle dinamiche che riguardano la produzione, la trasformazione e la distruzione della vita biologica umana (e il suo controllo, la sua difesa, il suo sfruttamento, la sua manipolazione, la sua coltivazione, il suo imprigionamento, la sua liberazione, la sua resistenza...). Molti dei dibattiti a proposito della biopolitica e di temi collegati a questo termine sono di estrema e urgente importanza. In questi dibattiti, purtroppo, non si presta in genere la dovuta attenzione alla dimensione propriamente e materialmente biologica della vita. Bisogna forse ritrovare e rinnovare l’impulso engelsiano.

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