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La VOCE ANNO XXI N°5

gennaio 2019

PAGINA 9

Autority femminista sull’informazione? Una proposta

In un paese nel quale non fa problema che ci siano ‘relazioni amichevoli’ tra esponenti del governo e ultras colpiti da Daspo mentre la parola femminista è ritenuta stomachevole farà impressione proporre addirittura una Autority femminista sull’informazione. Ma tant’è: si sa che si può sognare.

Già dal 2009, dopo l’enorme eco mediatico de Il corpo delle donne di Lorella Zanardo, al quale seguì il suo libro e la campagna di sensibilizzazione Occhi nuovi per i media si ragiona sulla necessità, specialmente nelle scuole con le generazioni giovanissime, di intensificare gli interventi di formazione per sviluppare uno sguardo critico su media, tv e social, grandi responsabili della veicolazione di stereotipi sessisti e del dilagare dell’hate speech.

Contributi video sull’argomento come Parole d’amore o Se questa è una donna, solo per citare due esempi, sono la dimostrazione di quanto lavoro ci sia da fare per arginare i messaggi violenti che bombardano e avvelenano il clima delle relazioni umane con immagini aggressive e misogine.

La coraggiosa proposta di istituire una Autority femminista sull’informazione viene da alcune associazioni di donne italiane, UDI di Napoli, Associazione Salute Donna, Resistenza Femminista, Terra di lei e Arcidonna.

Nel documento di proposta si legge: "Sono gli stessi uomini al potere a trasgredire anche norme già approvate, col linguaggio e con i media a loro disposizione, il che ha un effetto immediato di emulazione. Laddove fossero materialmente perseguibili tali comportamenti, per i membri del governo va prevista la decadenza dalla carica in attesa dell’accertamento delle responsabilità dirette. L’abitudine ad usare liberamente gli stereotipi sessisti, si nota, si è diffusa in modo esponenziale in corrispondenza delle lotte sempre più pressanti contro la violenza di genere. È stata più volte additata la diffusione di messaggi violenti nei social media. I messaggi mediatici che incitano allo stupro e alle violenze degli uomini sulle donne in generale, fanno riferimento alla presunta naturalità di quote di violenza nelle relazioni uomo donna. Tra queste violenze la prostituzione viene indicata come aspetto atavico ed inestirpabile, connaturato alla natura del desiderio maschile e alla convenienza femminile di compiacerlo. Questa rappresentazione è costantemente associata all’apologia dei diversi reati corrispondenti. Oltre ai meccanismi di ordinaria perseguibilità dei reati violenti, non è prevista alcuna sanzione per coloro che attraverso i media 'anticipano' le attenuanti per i reati di femminicidio e stupro e che suggeriscono che le posizioni di potere degli uomini rendano prevedibili e lecite le richieste di prestazioni sessuali in cambio di lavoro e del mantenimento coniugale”.

Come ricordano le attiviste i protocolli internazionali già dagli anni novanta prevedono forme di controllo della legalità dei messaggi e della lesività di genere. È un vero e proprio condizionamento di massa, voluto dalla politica e favorito da media che nel loro complesso non rispondono alla richiesta di cambiamento culturale che in modo falso, anche per loro voce, viene invocata per superare l’oppressione femminile.

La Convenzione di Istanbul fornisce una visione chiara ed inequivocabile del ruolo della comunicazione in tutte le sue forme (capo III art. 17): indica cioè le regole e il supporto culturale. Già le risoluzioni del luglio 1997, 1557 del 2007, il patto di parità del 2006 anticipavano la risoluzione del 2008 n. 2038 sul marketing e la pubblicità, muovendo dall’impatto delle immagini violente sui comportamenti violenti e discriminatori. Per la gran parte poco osservate, ancora non hanno prodotto leggi applicative in Italia. Nel resto dei media lo stato dell’arte, nonostante la Convenzione sia stata ratificata dal Parlamento, non è migliore tanto che redazioni e centrali dell’informazione ritengono legittimo un adeguamento parziale, e formale, unicamente in prossimità della ricorrenza del 25 Novembre.

In questo quadro la proposta di costituire una Autority è quella che essa sia formata da una rappresentanza delle maggiori associazioni femministe Italiane.

A corroborare l’ipotesi esistono precedenti: lo IAP, nel settore pubblicitario, è un organismo autonominato di settore, le cui deliberazioni sono riconosciute dallo Stato.

Il modello può essere usato sul complesso della comunicazione pubblica, sulla base delle segnalazioni del pubblico.

Monica Lanfranco - (19 dicembre 2018)

Che cosa è la filosofia sociale?



di ALESSANDRO FERRARA - (20 novembre 2018)

Sarà fra qualche giorno in libreria Filosofia sociale. Una introduzione (Le Monnier) di Rahel Jaeggi e Robin Celikates, curato, introdotto e tradotto da Marco Solinas. Si tratta di una introduzione alla disciplina capace di ripercorrerne la storia e porne i problemi più urgenti. Ne pubblichiamo come anteprima la “Prefazione”, per gentile concessione dell'editore e del curatore, che ringraziamo.

La filosofia sociale ha avuto singolari vicissitudini come disciplina filosofica e questo libro di Rahel Jaeggi e Robin Celikates costituisce uno dei migliori viatici per addentrarvisi.

Al di là di sporadiche osservazioni sui suoi punti focali, già presenti nella filosofia classica, non poteva sorgere – come autoconsapevole
esercizio di pensiero – prima del materializzarsi di un’idea di società in quanto distinta dalle istituzioni politiche e dalle forme culturali. Dunque, diversamente dall’etica e dalla filosofia politica, la filosofia sociale è coeva della prima modernità. La prima testimonianza completa che se ne possiede è il Discorso sull’origine della diseguaglianza di Rousseau, del 1755. Poi, una volta nata, la filosofia sociale ha avuto una sua storia molto particolare. Oltre a innestarsi sul tronco della filosofia di Hegel e di Marx, come teoria della società civile e della alienazione, nonché dell’ideologia, ha sempre coesistito con la componente teorica della sociologia. È solo una convenzione accademica quella che colloca le pagine di Comte sulla «statica» e sulla «dinamica» della società, di Durkheim sulla divisione del lavoro, sulle forme di solidarietà, o sulle forme elementari della vita religiosa, di Simmel sulla forma di vita metropolitana e sulle vicissitudini dell’individualità nei gruppi, o sul processo di Vergesellschaftung, o di Weber sul disincantamento e la «gabbia d’acciaio», fra gli esempi di «teoria sociologica». In realtà, la teoria sociale o teoria sociologica è una filosofia sociale sotto altra denominazione.

Geograficamente, la sua presenza è stata esigua nel Sud dell’Europa, molto più forte nei contesti francofono, anglofono e germanofono. In ciascuno di questi ha assunto tratti specifici nel corso degli ultimi due secoli: si pensi all’importanza del tema «character and social structure» nella riflessione statunitense o al tema del «dono» e della «dépense» in quella francese. Nel contesto germanofono, in cui questo libro si inserisce, è stato ed è ancora più che mai centrale il rapporto fra filosofia sociale e filosofia «critica». Autori come Honneth, ad esempio, invocando la lezione di Horkheimer hanno strettamente legato l’esercizio della filosofia sociale alla critica delle «patologie sociali» indotte dai processi di modernizzazione. Rousseau, Durkheim, Weber, Lukács, Nietzsche, Horkheimer, Adorno e Foucault rientrano nel canone della filosofia sociale, ma Montesquieu, Diderot, Comte, Parsons ne rimangono fuori. Per non parlare del Habermas di Teoria dell’agire comunicativo, il più ampio e inclusivo trattato di filosofia sociale (di quale altro genere di filosofia, se no?) mai prodotto, e mai pienamente riconosciuto come tale.

Jaeggi e Celikates opportunamente prendono le distanze da questa selettività non pienamente convincente e collegano la loro idea di filosofia sociale a una triplice opzione. In primo luogo, legano la filosofia sociale a uno specifico campo di applicazione e prospettiva. Comunità/società, individuo/società, libertà, riconoscimento, alienazione, potere e ideologia (a cui forse si sarebbero potuti aggiungere il mutamento sociale e le diverse forme di integrazione della società) ne costituiscono i punti focali. In secondo luogo, vedono congiungersi nella filosofia sociale tanto un momento descrittivo quanto un momento normativo, iscritto nei suoi concetti fondamentali. In terzo luogo, pongono la filosofia sociale in rapporto con una riflessività metodologica ma anche con un’opzione debolmente olistica, ossia con il rifiuto di un individualismo metodologico che neghi l’efficacia causale di aggregati sovraindividuali anche se pensati in chiave non essenzialistica.

Leggendo in filigrana la loro proposta, vi si intravvede sopravvivere, del contesto germanofono segnato della lezione di Hegel, la centralità della libertà (non ridotta al momento negativo e arricchita da una dimensione autoriflessiva) come valore sovraordinato agli altri. In contesti diversi è la giustizia a giocare il ruolo omologo: non potremmo accettare una libertà che violasse la giustizia, e colleghiamo la ricerca della libertà al fatto che sia giusto perseguirla da parte di tutti.

In un senso più ampio, uno dei pregi del libro è collegare, attraverso la presa in carico del tema dell’ideologia in chiave non semplicemente descrittiva, la filosofia sociale con l’esercizio della critica sociale e della critica dell’ideologia stessa in particolare. Questa opzione porta gli autori a mettere in luce il momento normativo dentro la filosofia sociale. Questo è da sempre un punctum dolens. Si dibatte fra conseguenzialisti e autori di ispirazione deontologica sul miglior modo di ricostruire il punto di vista morale: ma non c’è dubbio che la filosofia morale moderna – «dopo la virtù» e le filosofie che vi ruotano attorno – ruoti attorno a come vada inteso il moral point of view. Altrettanto, in filosofia politica si confrontano varie versioni di ciò che Rawls ha chiamato «political justification». Non è mai stato altrettanto chiaro, invece, cosa voglia dire «normatività» dal punto di vista della filosofia sociale, dal momento che la pura fattualità dei processi di causazione sociale, sia pur con la loro limitata prevedibilità, non può ambire a questo ruolo. In che modo una formazione sociale ci impone un «dover essere» che non sia o morale, o legale, o politico?

Diversamente da altri tentativi di formulare una filosofia sociale, a Jaeggi e Celikates va dato atto di non pretendere che a questa domanda si possa rispondere semplicemente invocando una autoproclamata valenza critica della filosofia sociale. Infatti solo il soddisfacimento di un qualche criterio normativo è ciò che trasforma una lamentela intensamente sentita, pur ancorata «immanentemente», in una critica cogente. Concludono però che «la filosofia sociale non si affida a una modalità normativa autonoma, ma piuttosto a uno specifico legame della riflessione filosofica alla ricerca sociale empirica, alle analisi sociologiche degli sviluppi (distorti) sociali, alle crisi, all’ancoraggio nelle esperienze reali e nelle autointerpretazioni degli attori» (p. 98).

In un certo senso, questa idea è già anticipata da Durkheim quando, ne Le forme elementari della vita religiosa, ci ricorda che «una società non può crearsi né ricrearsi senza creare nello stesso tempo qualcosa di ideale» e che questa immagine ideale di sé «non è al di fuori della società reale», bensì insita nella società stessa, come «idea che essa si forma di sé» (Durkheim 1982: 444-5). Una normatività situata – nel senso che orienta non in astratto, prescindendo da chi noi siamo, ma al contrario in virtù di chi noi siamo – è la forma di normatività che può essere sottesa a quella critica immanente che gli autori considerano in rapporto di affinità elettiva con l’operare della filosofia sociale.

Il che spiega anche un’altra sfaccettatura del suo tardivo differenziarsi come ambito filosofico a sé stante. La forma di normatività, immanente e situata, che la sottende non si rende facilmente teorizzabile se prima non è venuta meno – come è accaduto solo a partire dalla prima metà del XX secolo – la costellazione filosofica che decreta inesistente ogni forma di normatività che non sia «a-contestuale» o non proceda a partire dallo «sguardo da nessun luogo».

Ma che il testo di Jaeggi e Celikates, nel XXI secolo, ci introduca ai problemi e temi della filosofia sociale, e lo faccia con tanta sagacia, fa sperare che infine questa disciplina non sia più un’etichetta talora invocata ed altre volte attribuita o disconosciuta, ma possa consolidare il proprio posto accanto agli altri saperi filosofici.


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