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La VOCE ANNO XXI N°5

gennaio 2019

PAGINA 12

L’intoccabile tocco della coscienza di sé



di ALDO MASULLO - (6 settembre 2018)

L'intera ricerca filosofica di Aldo Masullo è dominata dalla intenzione di mettere a tema il rapporto fra soggettività e fondamento del rapporto comunitario. Nella raccolta dei suoi ultimi saggi, "L'Arcisenso. Dialettica della solitudine" (Quodlibet, 2018) questa ricerca si è precisata, venendo a ispezionare ancora meglio il senso del “patico”. Qui pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice, che ringraziamo, il primo dei saggi presenti nella raccolta.

«Patico» è il modo umano della coscienza. Esso è in atto in ogni momento del Sentir-si. Le emozioni vi si umanizzano ed entrano nella “e-sistenza”. Così avviene il sempre nuovo cadere della coscienza fuori del proprio attuale con-sistere.

La contingenza di ciò si annuncia con la precarietà delle cose, la cui mutevolezza ne mostra insicuro l’essere. Ma, nella dinamica esistenziale, l’insicurezza dell’essere stesso che io sono si svela nella sua nuda fattualità. Allora l’emozione della contingenza invade la coscienza. Il mio mondo e la mia stessa persona che n’è parte s’inabissano. Non resta allora che la coscienza: neppure la mia coscienza, ma la coscienza anonima, senza alcun riferimento neppure all’io nel cui nome poi linguisticamente si esprime. Le si accompagna inseparabile l’ombra della corporeità. È il sensus sui prelinguistico, anzi prelogico: fenomeno che «si è», impersonale, della cui prossimità poi la sovraggiunta coscienza personale è stupefatta. Per quanto il sé non sia qui oggetto di coscienza, o sua rappresentazione speculare, tuttavia il sensus, la coscienza nascente, è già sensus sui.

Sensus non c’è, se non è sensus sui. Lo stesso sé in nient’altro consiste che nel sensus sui, nel sentimento di sé, nella tensione verso sé come verso l’unità che si ha l’impressione di essere. Il Sentir-si (lo scriverò con l’iniziale maiuscola quando sostantivato) non è né «prima» né «dopo» questo o quel sentire, ma è sempre di ogni sentire la condizione originaria. Un filosofo tedesco lo chiamerebbe Ursinn. Io lo chiamerò «Arcisenso».

La mente non è un semplice operatore logico, ma un patire il proprio esserci e il reagirvi, dunque un centro d’iniziativa, in breve è soggettività. L’enorme carica emozionale di questo limite estremo del nostro esistere è segnalata da Emmanuel Lévinas in uno scritto del 1935. Qui la coscienza si mostra come la contingenza straripata, la destabilizzante tensione del proprio trovarsi ad essere, sentito come l’assolutamente infondato eppure unico assolutamente certo. Infatti in uno stesso fenomeno si vivono assoluta certezza e assoluta infondatezza – l’esser-ci, l’esistere. Insieme si sentono la nostra gratuità e il nostro «essere incatenati». «Si è là, e non c’è più nulla da fare, nulla da aggiungere al fatto dell’essere stati del tutto abbandonati, al fatto dell’essersi tutto già consumato». Così alla “invasione” della contingenza reagisce la “rivolta”, la tensione emotiva di «un bisogno di evasione», di «un’aspirazione non ad andare altrove, da qualche altra parte, ma semplicemente ad uscire». Alla fine «l’evasione è il bisogno di uscire da se stessi, cioè di rompere l’incatenamento più radicale, più irremissibile, il mero fatto che l’io è a se stesso», in fondo «l’incatenamento del me al sé»[i].

Siamo insomma «soggetti»: «assoggettati», sottoposti, vincolati al nostro essere esposti a colpi. L’avvertimento del sé muove dall’intimo della vita, che nell’individuo umano, sentendo-si, vive. La vita ogni volta accade, e accade in quanto accade al sé che la vita allucina – ad un sé a cui l’accadere tocca, quasi il sé fosse prima dell’accadere, il vissuto fosse prima e non a partire dalla vita vivente.

Nell’inconscio gioco di prestigio della mente, condizione essenziale al sempre nuovo costituirsi dell’autocoscienza, l’ordine reale corpo-sé s’inverte nell’ordine ideale sé-corpo. Il sé fantasticato viene anteposto al corpo esperito, e l’identità si colloca nel sé piuttosto che nel corpo. Solamente nel quadro di questa illusione ottica mentale Milan Kundera può scrivere che il «terrore di essere corpo, di esistere sotto forma di corpo» è l’emozione che «insidia dal profondo tutta l’esistenza»[ii]

Cosa c’è di più contingente, meramente fattuale, del proprio corpo, vissuto come un accadere al sé, quasi che il sé fosse prima del corpo, e non ne fosse invece l’umbratile proiezione? Cosa c’è nel mio sé (nel me) di più contingente del corpo, dalla cui contingenza dipende quell’io, nel cui nome poi il corpo viene detto «mio»? L’accadere è sorte. Il «destino», o un suo qualsiasi sinonimo, ne è la rappresentazione mitica. Il sé, a cui vivendolo ci si riferisce, non è se non l’iniziale essere-accaduto, il paradosso di un sé accadutosi, l’individuarsi del vivente. L’accadutosi è il corpo stesso. Invece – e qui inizia l’inganno metafisico – si è tratti a immaginare che il sé accadutosi sia prima dell’accadere, sia il subjectum, il soggetto a cui il corpo accade!

Accadere è il mutamento repentino: «istantaneo e inspiegabile [in instanti atque sine ratione]», secondo la definizione che Christian Wolff dette del cambiamento onirico e favoloso, oppure traumatico e casuale[iii]. Certo non è concepibile la casualità se non opposta al bisogno razionale di dare un ordine oggettivo, sulla base di spiegazioni variamente causali, alla confusa soggettività dell’esperienza. D’altra parte si può parlare di traumaticità di un evento, e quindi dello sconcerto della differenza e del dolore della perdita, solo se c’è un colpito, il quale patisca la sofferenza del suo sé. Insomma, se una differenza non colpisse, il sé non apparirebbe; né il colpo della differenza, il tempo, apparirebbe senza un sé colpito. Ci sarebbero nel vivere modificazioni d’essere, «affetti», ma non traumi profondi, destabilizzanti moti, «emozioni».

Si tocca così la falda più profonda della fenomenalità di ogni fenomeno, il fenomeno originario con cui s’inaugura la possibilità stessa dell’apparire e senza di cui nessun altro fenomeno sarebbe possibile. «Fenomeno» è il calco italiano del greco φαινόμενον, participio del verbo deponente φαίνεσθαι, che in greco vuol dire «apparire», «manifestarsi». Il φαινόμενον è l’«apparente», il «manifestantesi», cioè l’apparire, il manifestarsi, nel momento stesso in cui appare, si manifesta. È impersonale, senza soggetto, atto con cui tutto appare, tutto si manifesta, il mondo delle cose e di chi le vede e le usa. Il manifestarsi è tutto. L’apparire, il manifestarsi, è puro accadere o, come pur si dice, evento.

Nel vissuto del tempo e del sé, l’emozione di sorpresa nel sentire come contingente l’accadere e l’emozione di angoscia nel sentire come precario il sé strettamente si tengono. Senza il dolore che l’infallibile arciere del tempo infligge, non emergerebbe il sé come il vivente bersaglio di questa offesa. Ma, se il sé non emergesse, il colpo del tempo cadrebbe nel vuoto o riuscirebbe frustrato.

La vita fa come una piega – si «ri-piega su di sé». In ciò sta il punto d’origine della fenomenalità, là dove il vivente si converte in umano e si apre a se stesso, si fa soggettivo. La vita stessa si duplica (si complica nel «vivere a fondo il proprio vivere», come letteralmente suona il tedesco er-leben), e vivendo prova l’emozione di sé. Avviene appunto quel che, nella lingua greca, si esprime con il verbo πάσχειν, che vuol dire «patire», non necessariamente nel senso della sofferenza, ma in quello ampio del «provare», cioè del «vivere» usato transitivamente, come nelle espressioni «ho vissuto
un brutto momento» e «ho vissuto una bella esperienza». Radice del verbo πάσχειν è παθ-, da cui si forma il sostantivo πάθος: il calco italiano ne è «pathos» o più correntemente «patos». Il primo significato di πάθος è «ciò che si prova di bene o di male», in breve il vissuto. Si designa con ciò un’emozione sofferta, umanizzata dalla coscienza del sé.

Al fondo di ogni vissuto sta una rottura. La vita è un incessante rompersi, anche se abitualmente inavvertito. Quando il rompersi è violento e inabituale, l’in-differenza dell’essere esplode nella differenza dell’e-sistere. È questo il «repentino» (il platonico ἐξαίφνης). Esso scopre l’inarrestabile passo del cambiamento, ciò che «noi per abitudine chiamiamo tempo»[iv].

Si mostra qui l’umanità originaria dell’emozione, la falda profonda di ogni emozione propriamente umana. Ci si trova, per essa, presi nella dinamica esistenziale, in cui non soltanto le emozioni occasionali, ma tutti i vissuti, anche quelli intenzionali e semantici, cioè gli sguardi sulle cose e la nominazione di queste, si costituiscono nella loro fenomenalità, nella loro umanità di vissuti.

Solamente nel patico si e-siste. La paticità, la qualità patica, non è propria dell’emozione come pura funzione biologica, e non riguarda perciò la fisiologia neuro-psichica. Freud nel 1930 aveva scritto: «Ogni sofferenza non è che sensazione, sussiste nella sola misura in cui la proviamo»[v]. Nei nostri anni Antonio Damasio, psicologo di profonda cultura filosofica, conclude che, perché «un’emozione diventi nota», cioè sia non un mero fatto fisiologico bensì un fenomeno di coscienza, è «necessario che si produca nella mente un sé che sente», insomma un sé consistente nel riferirsi a sé[vi].

Il Sentir-si invero non è soltanto dell’emozione, ma di qualsiasi vissuto. Non solo non vi sono piacere e dolore, ma neppure percezione e ragionamento, immaginazione e ricordo, che siano tali, umani, se non sono intrisi di Sentir-si, se non recano, sia pure nascosti ma sempre pronti a saltar fuori o almeno a far capolino tra le pieghe di qualsiasi atto del vivere, «lo stupore con cui si manifesta il sé» e «l’angoscia dell’esser toccati da eventi, senza perché». Ogni accadere tocca a me, proprio a me, senza che io sappia perché, così come non so questo me donde venga né dove vada, e neppure perché proprio a me que sto me sia toccato. Con l’«accadermi» la coscienza di me ogni volta salta fuori del suo con-sistere, e proprio in ciò io e-sisto. Essa qualifica il vissuto, il riferimento esplicito o implicito a un sé, coscienza riflessiva, autocentrata ancora prima che nella pubblicità della forma linguistica «io» e nella determinazione dialogico-concettuale. Insomma, se il vissuto è l’evento propriamente umano, la paticità è il nucleo intimo del vissuto, la fenomenalità di ogni fenomeno, l’Arcisenso.

Il patico è il Sentir-si che accompagna inseparabilmente ogni sentire, e lo fa essere propriamente un sentire, cioè una modificazione mentale in nessun modo rappresentabile, dunque in nessun modo comunicabile: si badi bene, non un incomunicabile per una qualche circostanza di fatto, ma un intrinsecamente incomunicabile, quindi propriamente un incomunicativo. Così la vita umana risulta radicalmente autocentrata.

All’autocentramento però concorrono non soltanto la folgorante emozione del tempo, sofferto trauma della differenza, con la sua oscura figura del sé, ma pure la bruciante inquietudine dell’incontro con l’«altro». Costui è l’interpellante, a me familiare o estraneo, seducente o minaccioso, comunque sempre enigmatico: tra me e lui lui c’è una reciprocità interiormente vissuta di speculari rimandi simpatetici o antipatetici.

Nell’incontro, ognuno anima del suo sé l’immagine dell’altro. In questo vivo gioco di reciprocità ognuno si sovradetermina, enfatizzando sé come io e l’altro come tu.

L’emozione, in cui consiste il tempo – l’avvertimento «destabilizzante» di repentini cambiamenti, l’irrompere della differenza in noi –, frantuma l’inerte identità dell’ente, ne distrugge l’apaticità, mette in moto la dialettica dell’altro nel sé di ognuno, e di ognuno nel sé dell’altro. Ogni uomo è non un ente inerte, un apatico. Al contrario, egli è un e-sistente, ed è entro se medesimo esposto alle inquietanti relazioni con altri, nutrito dalle corrispondenti emozioni, radicalmente patico.

La paticità insomma è costitutiva di ciò che non è semplice vita ma e-sistenza. Come fenomenalità di tutti i fenomeni, l’illuminazione patica sfuma dall’una all’altra di almeno tre potenti tonalità emotive: la pena del «sé lacerato» (dalla violenza del tempo), il timore del «sé assoggettato» (al capriccio del caso), la vergogna del «sé esposto» (allo sguardo dell’altro e alla inevitabile sfida del rapporto con lui). Nella vertigine patica, sotto l’imperio del tempo, ci si ritrova comunque sempre da capo presso una soglia del nuovo, soli nel deserto di un assoluto «inizio». Tutto si ripete, nulla dura. Si danno infinite repliche, ma nessuna identica. La poesia di Montale registra: «Ahimè, non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani!»[vii].

Il vissuto di tempo si rifrange nei molteplici cromatismi emotivi: nella sofferenza per l’identità perduta e l’abitualità sconvolta, nel tremore per il destino incombente, nella insicurezza del rapporto con l’altro. Ma esso intero fiammeggia nell’inquietante sfida dell’inizialità, nel muoversi verso il nulla, il vuoto del futuro, a partire dal nulla, dall’ormai vuoto del passato.

Vuoto il non-ancora, svuotato il non-più, il nulla è dinanzi all’uomo come dietro di lui!

Ancora Montale, con poetico stupore precorrendo l’algido filosofema di Heidegger, sussurra: «Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco»[viii].

Si scopre qui la fonte della paticità – l’insostenibile e variamente occultata tensione dell’assoluta differenza (tra l’essere e il nulla), al cui irrompere si usa dare il nome di «tempo» – ossia, come pur si può dire, la tensione di fondo dell’e-sistere, graficamente segnalabile con il trattino che scinde/lega lo strenuo desiderio di una stabile identità (sistere) e l’assillo della martellante differenza eiettiva (e-, dal greco ἐκ- o dal latino ex-).

Nella paticità dunque ogni volta, al centro della vita, le occasionali emozioni si “umanizzano”, da fatti naturali si rigenerano in prove umane.

In umana anzi si ri-genera la vita tutta, da semplice vita vivente convertendosi in vita vissuta. Non v’è fenomeno, cioè vissuto, emozionale e non, che non sia tale in quanto sentito come «mio», cioè proprio di un sé, del fantasmatico sé che, preso nelle reti delle mediazioni socio-culturali, si solidifica nell’irriducibile io. Però poi ogni fenomeno traumatico, dissolti insieme con le identità convenzionali gli artifici dell’illusoria stabilità, lo si prova con l’impressione di essere saltati ad altro (altro dentro il sé, prima che fuori), quasi al di là di un vuoto, a scavalco di un abissale crepaccio, e di trovarsi da capo ad un inizio.

Nell’esplosa drammaticità dell’e-sistenza, l’oscuro avvertire che l’identità della coscienza di sé dura solo attraverso la difficile prova del suo incessante perdersi scatena l’emozione originaria, il vissuto decisivo. La morte, come incisivamente è stato ancora una volta ribadito, in quanto «idea dell’annientamento di sé, introduce la contraddizione, la desolazione e l’orrore nel cuore del soggetto»[ix]. Tuttavia la morte non è che il caso estremo, la chiusura di partita, di tutte le infinite morti per cui la vita, che è, come abitualmente si dice, «tempo», ma più propriamente l’incessante cambiamento delle cose (il sempre nuovo irrompere della differenza), fatalmente patisce la sua intrinseca precarietà non solo, dalla parte del dopo, nella straordinaria tragicità della catastrofe finale quanto pure, dalla parte del prima, in certa ordinaria catastroficità del quotidiano.

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