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La VOCE ANNO XXI N°6

febbraio 2019

PAGINA b         - 26

Donna palestinese uccisa e
25 feriti nelle proteste di Gaza



Gaza – Una donna palestinese è stata uccisa e altre 25 persone sono rimaste ferite dal fuoco dei militari israeliani durante il 42° venerdì di protesta della “Grande marcia del ritorno“, lungo i confini orientali della Striscia di Gaza.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese a Gaza, una donna palestinese, la cui identità è rimasta sconosciuta, è stata uccisa dopo che le forze militari israeliane hanno aperto il fuoco contro di lei. Il ministero ha anche confermato che altri 25 palestinesi sono rimasti feriti, tra cui un giornalista, tuttavia, non si hanno notizie sulle loro condizioni di salute.

Il ministero ha riferito che le forze israeliane hanno preso di mira anche un’ambulanza palestinese sparando ripetutamente dozzine di bombe lacrimogene, provocando l’intossicamento da inalazione di gas lacrimogeno di decine di manifestanti palestinesi.

Nella giornata di ieri, migliaia di palestinesi si sono radunati lungo i confini orientali della Striscia di Gaza per prendere parte alla marcia settimanale per rompere il continuo assedio israeliano. Le proteste della “Grande Marcia del Ritorno” sono state lanciate il 30 marzo scorso a Gaza con la partecipazione di decine di migliaia di palestinesi che ogni venerdì, da quasi un anno, circondano i confini con l’entità sionista per chiedere il loro diritto al ritorno come rifugiati alle loro terre d’origine, oggi Israele.

di Redazione

La strada dell’apartheid


La Strada 4370. 9 gennaio 2019. Olivier Fitoussi

Le colonie non avrebbero motivo di esistere senza un robusto e ininterrotto collegamento con Israele. La nuova strada non assolverà le colonie e non farà sparire i Palestinesi.

Editoriale redazionale. Haaretz, 11 gennaio 2019.

È stata appena aperta al traffico una nuova tangenziale, la Strada 4370, che collega le colonie a nord di Gerusalemme con la capitale. Già prima dell’inaugurazione era diventata un vistoso simbolo a causa del muro che la divide nel mezzo: una metà per gli Israeliani, per lo più coloni che fanno quotidianamente i pendolari con la città, l’altra metà per i Palestinesi. La strada permette a questi ultimi di aggirare Gerusalemme, dove non possono entrare, e proseguire verso Ramallah o Betlemme.



Sembra una buona notizia: sia gli Israeliani che i Palestinesi trarranno vantaggio dalla nuova strada, che è fatta per abbreviare i loro spostamenti e alleggerire il traffico. Ma il muro di separazione alto 8 metri ne fa un simbolo grottesco della politica di segregazione messa in atto da Israele in Cisgiordania.

In base a questa politica, il diritto di usare gran parte del territorio e delle infrastrutture della Cisgiordania è diviso tra gli Israeliani –che si possono muovere liberamente in quasi tutta l’area– e i Palestinesi –che si possono spostare tra isolotti separati di territorio su strade separate. Israele spende centinaia di milioni di shekel per costruire strade, svincoli, tunnel e ponti che permettono questa politica, oltre a posti di blocco che richiedono sempre più soldati e personale di polizia per realizzare una separazione che comunque non è esente dall’esistenza di falle nel sistema.

La politica di segregazione è cominciata con le strade di circonvallazione nate dal bisogno di sicurezza durante le due intifade, ma sono ormai anni che queste vengono presentate come soluzioni temporanee per problemi particolari, finché non si trovi una soluzione diplomatica permanente.

Può essere questo il motivo per cui c’è voluto più di un decennio per aprire al traffico la nuova strada dopo che era stata completata: sembra che ci fosse chi sperava che una cosa così ridicola non sarebbe stata necessaria.

Ma con l’ultimo governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, il temporaneo è diventato permanente, il cerotto è diventato la cura definitiva. In mancanza di una qualunque visione diplomatica per risolvere il conflitto con i Palestinesi, non rimaneva altro che costruire un muro e realizzare un altro posto di blocco, nel disperato tentativo di nascondere i 2,8 milioni di Palestinesi che vivono in Cisgiordania insieme a mezzo milione di Israeliani.

Durante la cerimonia per il taglio del nastro, Yisrael Gantz, presidente del Consiglio Regionale di Binyamin, ha definito la nuova strada “un’ancora di salvezza per i residenti di Binyamin,” svelando così un’amara verità riguardo alle colonie: queste non avrebbero motivo di esistere senza un robusto e ininterrotto collegamento con lo stato d’Israele. La nuova strada non assolverà le colonie e non farà sparire i Palestinesi, ma aggiungerà un’altra macchia alla reputazione di Israele. Rif.

Traduzione di Donato Cioli

I casi di “terrorismo ebraico” contro i Palestinesi sono triplicati nel 2018


Una protesta davanti al tribunale di Rishon Letzion durante un’udienza sul prolungamento dell’arresto di minori ebrei sospettati di “complotto terroristico”. 31 dicembre 2017. Meged Gozan

Nell’ultimo anno sono stati segnalati 482 reati commessi da Ebrei per motivi politici, tra cui aggressioni e danni alle proprietà private. Amos Harel -Haaretz, 6 gennaio 2019 L’ultimo anno ha visto un’impennata nel numero di “reati nazionalisti,” violenze e danni al patrimonio, commessi da Ebrei nei confronti di Palestinesi in Cisgiordania. A metà dicembre, erano stati segnalati 482 incidenti di questo tipo, contro i 140 del 2017. Le violenze esercitate da coloni e attivisti di destra includevano pestaggi e lanci di sassi contro i Palestinesi. I reati più frequenti consistevano in scritte murali nazionaliste, anti-arabe o anti-musulmane che danneggiavano case e auto, oltre al taglio di alberi appartenenti ad agricoltori palestinesi. Questo tipo di incidenti erano fortemente diminuiti nel 2016 e 2017 rispetto agli anni precedenti. Questa diminuzione è stata attribuita alla forte risposta delle autorità a seguito del lancio di bombe incendiarie contro una casa del villaggio cisgiordano di Duma, gesto che aveva causato la morte di tre componenti della famiglia Dawabshe. In quel caso, il giovane colono Amiram Ben-Uliel era stato accusato di tre omicidi. Dopo l’attacco, il servizio di sicurezza Shin Bet aveva arrestato diversi attivisti di estrema destra che vivevano nel nord della Cisgiordania e che erano sospettati di essere coinvolti in atti di violenza o di incitamento alla violenza contro gli Arabi. Una serie di provvedimenti presi in quell’occasione –tra cui detenzioni senza accuse formali, ordini cautelari di allontanamento dei sospettati dalla Cisgiordania e, in qualche caso, autorizzazione all’uso di metodi duri durante l’interrogatorio di persone sospette– avevano permesso alle autorità di stroncare molti casi, ciò che aveva funzionato come deterrente e aveva fatto scendere il tasso di violenza contro i Palestinesi. Tuttavia, nel corso dell’ultimo anno, dopo il rilascio degli attivisti israeliani (e la nascita di nuovi e più giovani gruppi), gli atti di violenza sono nuovamente aumentati. C’è stato anche un cambio nell’atteggiamento della leadership dei coloni rispetto alla violenza. L’attacco di Duma era stato uno shock per molti di loro. Alcuni leader dei coloni e lo stesso ministro dell’educazione Naftali Bennett si erano espressi con molta forza contro il terrorismo ebraico. Ma negli ultimi mesi si è avvertito un indebolimento di quelle figure di coloni che mostravano un atteggiamento più “diplomatico.” Elementi più estremisti che, nelle elezioni amministrative di novembre, hanno conquistato seggi in alcuni municipi, hanno talvolta risposto in modo ambiguo e indulgente di fronte agli atti di violenza contro i Palestinesi.

Nelle ultime settimane c’è stato un certo aumento della tensione tra i coloni e i vertici dell’esercito a proposito di due incidenti. In un caso si è trattato della rimozione di prefabbricati che erano stati installati dai coloni dell’avamposto illegale di Amona, ciò che aveva provocato violenti scontri tra attivisti di destra e agenti della Polizia di Confine. Ma è stato soprattutto il secondo incidente –l’arresto di tre ragazzi sotto i vent’anni sospettati di coinvolgimento in atti di terrorismo ebraico– a scatenare un’ondata di proteste e di minacce per la presunta intenzione dello Shin Bet di usare la tortura durante gli interrogatori dei sospetti.

L’aumento di episodi di violenza sembra anche connesso col desiderio di vendicare gli attacchi fatti dai Palestinesi contro gli Israeliani. Tali episodi sono infatti aumentati dopo due attacchi palestinesi all’inizio dello scorso anno e poi di nuovo dopo l’uccisione di due Israeliani in un attacco avvenuto in ottobre nella zona industriale di Barkan. Pochi giorni dopo l’assassinio di Barkan, una donna palestinese è stata uccisa vicino a Nablus per un lancio di sassi, fatto apparentemente da Israeliani, contro l’auto in cui viaggiava. In un altro caso, si è tentato senza successo di incendiare una moschea.

Una donna palestinese davanti a una casa con scritte in ebraico che dicono “vendetta,” nel villaggio cisgiordano di Beitillu vicino a Ramallah. 22 dicembre 2015. AP Photo/Nasser Shiyoukhi

L’esercito attribuisce l’aumento delle violenze di Ebrei contro gli Arabi anche a una più stretta sorveglianza da parte delle forze
..segue ./.

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