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La VOCE ANNO XXI N°6

febbraio 2019

PAGINA a         - 25

Gaza: la crisi energetica sta uccidendo l’agricoltura

La crisi energetica nella Striscia di Gaza sta affossando il settore agricolo. L’impossibilità da parte degli agricoltori di poter utilizzare i pozzi, alimentati a corrente elettrica, per irrigare le loro terre sta determinando la perdita di moltissimi raccolti, in un territorio già fortemente devastato ed impoverito.

La fornitura quotidiana di energia elettrica è arrivata a meno di quattro ore al giorno. L’azienda energetica israeliana, nelle ultime settimane, ha tagliato altri sei megawatt sulla linea che rifornisce il Nord e il Nord Ovest di Gaza, ovvero le zone più redditizie per l’agricoltura.

L’aumento del black out sta minacciando la vita delle piante e la stessa sicurezza alimentare dei palestinesi. Alcuni agricoltori si sono visti costretti ad acquistare generatori per mantenere vivi i loro raccolti, ma l’alto costo del combustibile sta incidendo pesantemente sul prezzo dei prodotti.

Una reazione a catena che non trova fine. Una crisi che minaccia di aumentare, oltre tutto, le fila di disoccupati nel settore agricolo e di coltivatori che presto non saranno più in grado di far fronte ai crescenti costi della loro attività. Basti pensare che il costo dei generatori per la gestione dei pozzi di irrigazione è pari a 30 dollari l’ora, prezzi che superano abbondantemente le possibilità finanziarie degli agricoltori.

Il blocco di elettricità colpirà presto la già precaria economia di Gaza e porterà ad una forte instabilità della sicurezza alimentare, con conseguente diminuzione del potere d’acquisto e calo delle esportazioni.

I dati parlano chiaro. Secondo un recente rapporto del Ministero dell’agricoltura i danni causati dalla crisi energetica sono stimati a quasi 55 milioni di dollari. Se il blocco non cessa, la Striscia di Gaza rischia la desertificazione.

di Redazione

“Barriera marittima” a Gaza, ultimo crimine israeliano



Il regime israeliano ha quasi completato la costruzione di una “barriera marittima” al largo della Striscia di Gaza, per stringere ulteriormente il blocco paralizzante contro l’enclave costiera palestinese.

Realizzata in pietra e cemento, la barriera lunga 200 metri presenta una recinzione visibile, una parete sotterranea e sistemi di sensori. La barriera è stata creata tra la costa israeliana e l’area delle operazioni delle navi militari israeliane. La costruzione è iniziata a maggio, quando l’allora ministro degli affari militari Avigdor Lieberman ha affermato che avrebbe reso impossibile l’infiltrazione nella costa.

All’epoca, il regime sionista ha anche affermato che i membri del movimento di Resistenza palestinese Hamas erano riusciti a raggiungere Israele via mare durante la guerra di Tel Aviv del 2014, in cui morirono migliaia di palestinesi.

Israele ha iniziato nel 2007 a imporre un blocco totale di terra, aereo e di mare contro il territorio palestinese dopo che Hamas ha vinto le elezioni parlamentari palestinesi. La misura ha visto la marina israeliana mantenere una presenza pesante da sei a nove miglia nautiche vicino a Gaza. Questo mentre gli accordi di Oslo, firmati da Tel Aviv e dal gruppo ombrello dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina negli anni ’90, affermano che gli abitanti di Gaza possono usare le acque costiere fino a 20 miglia nautiche.

La situazione ha gravemente limitato le attività di pesca al largo di Gaza, dove le scorte sono scarse. Il blocco complessivo minaccia anche di rendere il territorio inabitabile entro il 2020, secondo quanto riferito dalle Nazioni Unite.

La marina israeliana ha bloccato tutti i tentativi di portare aiuti umanitari sul territorio da parte di attivisti internazionali. Il 31 maggio 2010, dieci attivisti turchi rimasero uccisi dopo che i commandos della marina israeliana attaccarono la Mavi Marmara, la nave ammiraglia della Freedom Flotilla. I militari israeliani spararono indiscriminatamente contro gli attivisti, salpati dalla Turchia con l’obiettivo di rompere l’assedio israeliano a Gaza.

di Giovanni Sorbello

Yahya Ayyash, l’Ingegnere incubo di Israele



Yahya Ayyash era un importante leader delle Brigate Ezzedeen Al-Qassam, l’ala militare del movimento di Resistenza palestinese di Hamas. Era nato il 6 marzo 1966 a Rafat, vicino a Nablus. Si era sposato nel 1992 e aveva due figli.

Yahya Ayyash ha completato la scuola secondaria a Rafat con un eccellente voto che gli permise di studiare ingegneria all’università di Beir Zeit. Laureato in ingegneria elettrotecnica nel 1988, entrò a far parte delle Brigate Ezzedeen Al-Qassam all’inizio del 1992. Si è specializzato nella produzione di esplosivi con materie prime disponibili nei territori palestinesi. Successivamente sviluppò gli attacchi suicidi in seguito al massacro della moschea di Al-Ibrahimi ad Hebron nel febbraio 1994. Yahya era considerato responsabile degli attentati più eclatanti, cosa che lo rese bersaglio numero uno del regime sionista e questo gli è valso anche il soprannome di “The Engineer”, oltre che l’adulazione di migliaia di persone.

L’assassinio di Yahya Ayyash


Le forze di occupazione israeliane tentarono più volte di catturare Yahya Ayyash, ma senza mai riuscirvi. Tuttavia, il servizio segreto interno israeliano Shin Bet, il 5 gennaio 1996 a Beit Lahia nella Striscia di Gaza, fu in grado di “compromettere” uno dei membri di Hamas. Il telefono cellulare di Ayyash aveva smesso di funzionare e gli venne regalato un altro dallo zio di un amico. Il telefono, carico di esplosivo, esplose mentre Yahya parlava facendogli saltare buona parte della sua testa. Dei complici non si ebbero più notizie.

Israele non ha mai confermato o negato il suo ruolo nell’assassinio di Ayyash, ma i palestinesi hanno dato sempre per scontato il totale coinvolgimento di Israele nell’uccisione di Ayyash. Al suo funerale parteciparono più di centomila persone.

di Redazione

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