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La VOCE 1902 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XXI N°6 | febbraio 2019 | PAGINA 12 |
Segue da Pag.9: Le amare esperienze fatte dopo la Rivoluzione Si tratta, dunque, di sviluppare una teoria ed una pratica della transizione in larghissima parte inedite, dal momento che le precedenti analisi o si fermavano ai lineamenti generali o scadevano nell’utopismo. Come osserva Lenin: “di tutti i socialisti che hanno scritto a questo proposito non riesco a ricordare nessuna opera o nessuna frase di socialisti illustri circa la futura società socialista in cui si parli della pratica, concreta difficoltà che si troverà di fronte la classe operaia dopo aver preso il potere, quando dovrà affrontare il compito di trasformare tutta la somma di cultura, di cognizioni e di conquiste tecniche accumulata dal capitalismo, e che ci è storicamente necessaria, da strumento del capitalismo in strumento del socialismo. Ciò è facile a enunciarsi in una formula generica, in una contrapposizione astratta, ma nella lotta contro il capitalismo che non muore subito e, anzi, tanto più furiosamente resiste quanto più è vicino alla morte, questo compito è di una estrema difficoltà” [14]. Perciò, Lenin diviene sempre più sospettoso verso ogni disquisizione teorica, verso ogni parola d’ordine astratta che non abbia superato l’implacabile tribunale della pratica concreta. L’unica impostazione efficace per risolvere le difficoltà della transizione è l’analisi della situazione concreta, esaminando anzitutto i limiti di quanto è stato fatto per risolvere le differenti problematiche rimaste irrisolte, elaborando proposte concrete. Lenin nota, perciò, come ogni marxista dotato di buon senso che abbia scritto sulla transizione non abbia “mai lontanamente pensato che potessimo, in base a una qualche ricetta già bella e pronta, creare immediatamente e fissare con un sol colpo di bacchetta le forme di organizzazione della nuova società” [15]. Si tratta, al contrario, di costruire le nuove istituzioni socialiste nel corso stesso dell’opera, “provando questa o quella istituzione, osservandola alla luce dell’esperienza, verificandola con l’esperienza collettiva generale dei lavoratori, e, soprattutto, con l’esperienza dei risultati della sua attività, dobbiamo farlo subito, nel corso stesso del lavoro e per di più mentre si svolge una lotta disperata e una furiosa resistenza da parte degli sfruttatori, che diventano sempre più furiosi quanto più ci avviciniamo al momento in cui potremo estirpare definitivamente gli ultimi denti guasti dello sfruttamento capitalistico” [16]. Per far ciò non sono sufficienti i soli esperti, gli intellettuali che pur formulando consigli e direttive essenziali al lavoro pratico “si rivelano sino al ridicolo, sino all’assurdo, vergognosamente ‘impotenti’, incapaci di ‘attuare’ questi consigli e queste indicazioni, di applicare un controllo pratico perché la parola si trasformi in azione. Ecco dove in nessun caso si potrebbe fare a meno dell’aiuto e della funzione dirigente degli organizzatori pratici, usciti dal ‘popolo’, dagli operai e dai contadini lavoratori. (…) È venuto appunto quel momento storico in cui la teoria si trasforma in pratica, viene vivificata dalla pratica, corretta, verificata dalla pratica” [17].
Note
[1]
V.I. Lenin, Rapporto
sulla revisione del programma e il cambiamento della denominazione
del partito tenuto al VII congresso straordinario del PC(b)R (marzo
1818), in Sulla
rivoluzione socialista,
Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 313. Gramsci dalla sconfitta del movimento dei consigli al Congresso di LioneLink al video della lezione tenuta su queste tematiche per l’Università popolare Antonio Gramsci Dalla sconfitta del movimento dei consigli alla fondazione del Partito comunista |
La sconfitta del movimento dei consigli di fabbrica, scarsamente appoggiato dal Partito socialista dominato dai massimalisti e avversato dalla CGL controllata dai riformisti, convince Gramsci e il gruppo dell’“Ordine nuovo” dell’incoerenza dei massimalisti che allora capeggiavano il Partito, rivoluzionari a parole ma riformisti nei fatti. Nel momento decisivo della situazione rivoluzionaria e del dualismo di potere – che si era venuto a creare nel biennio rosso (1919-20) con l’occupazione, manu militari, delle fabbriche, autogestite da parte dei consigli, versione italiana dei soviet russi – era mancata una direzione consapevole delle lotte sviluppatesi spontaneamente dopo la prima guerra mondiale nel sud del paese. In tal modo l’imponente movimento di occupazione delle terre, per l’attendismo dei massimalisti e il sabotaggio operato dai vertici della Cgl, non si era fuso con il movimento che nel centro-nord aveva portato all’occupazione delle fabbriche. Il liberale di “sinistra” Giovanni Giolitti, ancora una volta a capo del governo, invece, in modo molto abile, aveva evitato la repressione militare, invocata a gran voce dagli industriali, per paura di innescare un’insurrezione. Al contrario, Giolitti astutamente si era accordato con i sindacalisti riformisti – spaventati dal movimento rivoluzionario che si era innescato e che non erano in grado di controllare – proponendogli il controllo operaio delle aziende per far finire l’occupazione operaia, controllo che, una volta smobilitate le occupazioni, rimase la classica promessa da marinaio. Gramsci trova così confermate le proprie tesi per cui da un lato era necessario rafforzare lo spirito di scissione nei confronti dell’ala riformista del Partito socialista – dal momento che quest’ultima non costituiva più l’ala destra del proletariato, ma era divenuta l’ala sinistra del blocco sociale dominante – e dall’altro occorresse rafforzare l’opposizione di sinistra alla direzione del partito controllata dai massimalisti guidati da Serrati. Questi ultimi avevano dimostrato, nel momento decisivo dello scontro di classe, tutta l’incoerenza e l’inconsistenza della loro concezione che, pur propugnando il programma massimo della rivoluzione sociale atta alla realizzazione di una società socialista, propugnavano la necessità di attendere in modo nei fatti passivo che le crescenti contraddizioni del modo di produzione capitalismo lo portassero al suo crollo, secondo una tesi largamente condivisa sia dall’ala destra che dall’ala sinistra della Seconda Internazionale, sempre più succube dell’egemonia esercitata dall’ideologia dominante positivista. Gramsci diviene così pienamente consapevole che il Partito Socialista, proprio per i limiti che abbiamo visto della sua direzione massimalista, non è il partito della rivoluzione di cui c'è bisogno e, quindi, insieme ad altri esponenti dell’opposizione comunista interna, che in gran parte facevano capo ad Amedeo Bordiga (1889-1970), cerca di fondare un partito rivoluzionario non solo a parole. Così, sebbene sostanzialmente contrario alla rottura netta propugnata da Bordiga e dalla componente maggioritaria estremista che allora capeggiava la scissione, che portava a ricompattare massimalisti e riformisti, Gramsci si risolve a lavorare per la costruzione del nuovo Partito Comunista d’Italia (1921), sezione italiana della Terza internazionalerivoluzionaria. L’avvento del fascismo Il Partito comunista nasce troppo tardi, nel 1921, quando l'eccezionale movimento spontaneo che ha animato il biennio rosso è stato pesantemente sconfitto e, ovviamente, i proletari di fronte a tale sconfitta tendono a perdere il coraggio, la speranza, insomma a rinchiudersi nel privato, anche a causa di una forte repressione. Inoltre, la classe dominante, che ha avuto una spaventosa paura di perdere i propri secolari privilegi, decide di utilizzare il fascismo – le squadracce di reazionari piccoli borghesi, sottoproletari o della classe media – per colpire, massacrare e distruggere tutte le forme di organizzazione dei lavoratori, per rinviare sine die la possibilità che si venga a creare una nuova occasione favorevole alla rivoluzione. Cominciano, quindi, gli attacchi dei fascisti, coperti dagli apparati repressivi dello Stato borghese, contro tutte le forme di organizzazione dei lavoratori e dei ceti subalterni in Italia. In altri termini, nonostante il successo della tattica giolittiana durante il biennio rosso, la grande borghesia pretende il pugno di ferro contro il movimento dei lavoratori e comincia a finanziare i fascisti, per la spregiudicata e selvaggia violenza con cui devastano ogni forma di organizzazione del movimento contadino e operaio. Nonostante i costanti attacchi a cooperative e camere del lavoro, le autorità non intervengono se non per contrastare i tentativi di resistenza dei ceti subalterni. Vista la pressoché totale impunità di cui gode e i crescenti finanziamenti, la violenza fascista si diffonde in tutto il paese provocando sempre più spesso eccidi ai danni dei dirigenti del movimento dei lavoratori. Le squadracce fasciste sono essenzialmente composte da giovani borghesi e piccolo-borghesi, impiegati sottoproletari e avventurieri. I limiti della direzione bordighista e il lavoro per la Terza internazionale Leggi tutto |
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