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La VOCE 1809

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La VOCE ANNO XXI N°1

settembre 2018

PAGINA 8

Segue da Pag.7: A Rosarno i braccianti africani si sollevano contro i soprusi padronali

Nessun insorto poteva circolare a piedi senza incappare nelle fucilate delle bande. Il divario di efficienza dei mezzi impiegati negli scontri (bastoni e oggetti improvvisati da una parte contro molotov e armi da sparo dalla parte opposta) ha avuto la sua indubbia influenza nella sostenibilità degli scontri e gli insorti sono ripiegati. Ma ciò che ha influito in modo decisivo nel ripiegamento è il mancato appoggio, sociale e politico, alla battaglia dei neri. Innanzitutto è mancato l’appoggio dei quasi 500 immigrati magrebini che non si sono uniti al fronte di lotta e sono poi rimasti a disposizione dei caporali e delle imprese agricole. In secondo luogo è mancato l’appoggio da parte dei lavoratori di Rosarno. Nessun gruppo di operai si è mosso per solidarizzare coi braccianti. In terzo luogo tutto quell’insieme di elementi politici (associazioni di volontariato e anti-razzisti), che orbita attorno agli immigrati, si è tenuto completamente fuori dalla mischia e ha lasciato che il coraggioso slancio di difendere la dignità umana contro gli spietati sfruttatori e estortori locali ripiegasse su se stesso. Al termine della serata gli insorti si trovano tra due fuochi: tra il fuoco delle bande e quello della polizia. E si rendono conto che non possono rimanere più a Rosarno. Dal canto suo la polizia continua ad ammonire i braccianti ad andare via per evitare di essere uccisi e fa sapere che il Viminale ha assicurato che tutti verranno lasciati liberi. Nella notte viene sgomberata la Rognetta. Più di 500 immigrati, con mezzi propri o col treno, cercano di raggiungere Castel Volturno. Circa 700, scortati dalla polizia, vengono trasferiti nei Cie di Crotone e di Bari. Il 9, mentre continua ancora la caccia al negro (nelle campagne di Fabiana e di Collina viene recuperata un’ottantina di stagionali e portata in stazione), viene sgomberato il dormitorio dell’Opera Sila. Gli internati presso i Cie toccano il migliaio. Sette vengono arrestati. Molti braccianti non sono stati pagati e non conoscono né il nome dei caporali né quello dei proprietari. Il sollevamento finisce quindi con la fuga, sotto la minaccia esterna delle bande, dei dimostranti dai dormitori; e con la deportazione accettata, sull’impegno preso ma non mantenuto dal Viminale, della gran parte nei Cie.

Dal suo svolgimento ed esito derivano i seguenti insegnamenti: a) la sollevazione è un moto di guerra sociale; e, per la sua determinazione e consapevolezza proletaria, rappresenta una crescita rispetto alla rivolta di Castel Volturno del 19 settembre 2008 contro i pogrom; b) insorgendo contro l’ennesima aggressione i braccianti africani hanno affermato con nettezza il diritto al rispetto umano e alla parità di trattamento; c) la forma radicale e travolgente con cui è stata espressa questa rivendicazione, a prescindere da ogni sbavatura (che non merita qui di essere discussa), ha scosso gli equilibri locali provocando un contraccolpo conservatore di carattere fascio-leghista; d) la rivendicazione anche di un diritto elementare, che comporti una modifica dei rapporti sociali, esige un’adeguata organizzazione di lotta; e) ogni azione di lotta, che miri alla modifica dei rapporti sociali, esige un’attrezzatura adeguata di lotta, idonea ad attaccare e difendersi.

I caratteri di classe della rivolta

Per tradurre in pratica questi insegnamenti, in modo deciso e conseguente, riteniamo opportuni alcuni approfondimenti analitici sui caratteri di classe della rivolta sulla specificità dello scontro meridionale sulla massimizzazione militaristica della legalità (violenza) statale. Iniziamo col primo argomento. A Rosarno, provenienti dalle più varie zone, arrivano migliaia di stagionali (regolari o meno è indifferente per la realtà produttiva) che prestano lavoro a favore di cooperative agricole o di piccoli e medi proprietari in cambio di un corrispettivo di circa 20 euro netti al giorno, quando viene corrisposto. In questo compenso, che è troppo chiamare sottosalario, si annoda un ferreo rapporto di classe, non solo una dura (o feroce) condizione del lavoro salariato. Infatti, è grazie al lavoro sottopagato degli stagionali che queste aziende agricole - per il resto sovvenzionate con fondi pubblici - riescono a sopravvivere e, in parte, a non scomparire in questa fase di acuta crisi agricola strutturale. E, per converso, è a causa di questo bassissimo compenso che gli immigrati non possono permettersi nemmeno un misero tetto e sono costretti a vivere in condizioni sottoumane, come nell’accumulazione originaria del capitalismo.

Questo ferreo rapporto di classe non si esaurisce poi nello scambio sopralavoro-sottosalario (razzia del lavoro); comprende inoltre i meccanismi di coercizione e ricatto, che servono a tenere sottomessa la forza-lavoro e ad assicurare la riproduzione del rapporto stesso, in cui ciò che conta è l’entità del sopralavoro non la provenienza o il colore del lavoratore. Da tempo i braccianti venivano insultati per le strade o fatti bersaglio del lancio di bottiglie e di spari con pistole ad aria compressa. Nel solo corso del 2009 si erano verificati gravi episodi di violenza, che essi avevano sopportato accumulando odio. La sollevazione di giovedì investe i due enucleati aspetti del rapporto di classe: il modello di supersfruttamento e il meccanismo di sopraffazione della dignità personale. Ed esprime un terzo carattere di classe: la rabbia degli insorti, la forza di massa concentrata, ha risparmiato la gente e si è sfogata sulle cose materiali (i proletari ce l’hanno coi padroni e con lo Stato non con chi non c’entra). È falsa l’obbiezione dei sobillatori della contro-rivolta che gli extracomunitari avrebbero reagito in modo sproporzionato di fronte a un episodio isolato. I braccianti hanno reagito contro un clima di intimidazione e hanno fatto ciò che farebbe chiunque venisse offeso. E se c’è stata esasperazione questa è stata provocata dagli aggressori. La tolleranza c’era stata soltanto da parte degli sfruttati e derubati. Quindi la rivolta è stata impetuosa e giusta.

La manifestazione ipocrita della cittadinanza rosarnese

Per contro è stata ipocrita e perbenista la manifestazione dell’11 gennaio promossa dal comitato cittadino. Questo autoproclamatosi comitato cittadino (un miscuglio di politicanti amministratori negozianti e affaristi locali), che aveva bugiardamente sostenuto che la popolazione si era risentita perché "gli immigrati avevano picchiato le donne" e questo non poteva essere consentito, ha cercato con questa manifestazione di darsi una faccia pulita e offesa di fronte alle accuse di razzismo espresse dai quotidiani. Il lunedì mattino un corteo di 1.000-1.500 manifestanti sfila per Rosarno. Un solo striscione contrassegna il corteo con questa scritta: "Criminalizzati e abbandonati dallo Stato". I negozi restano chiusi. Per somma ipocrisia in testa al corteo ci sono cinque immigrati: Jhon e la sua famiglia (moglie e due bambini) e lo zio Tom di Rosarno chiamato Mustafà. Questo servizievole personaggio legge un messaggio con cui chiede scusa a tutti perché "una minoranza violenta si è comportata male". Il corteo è una messa in scena vomitevole. A nessuno passa per la testa di ricordare che ai braccianti, cacciati e deportati, non sono stati pagati mesi di lavoro fatto.

Stigmatizzando l’ipocrisia e il perbenismo dei notabili rosarnesi non vogliamo essere però confusi con gli anatemi che in questo momento piovono da più parti su Rosarno: "Corleone di Calabria", "capitale della violenza razzista", "piantagione di schiavismo e schiavizzazione". Epperciò teniamo a chiarire che per noi Rosarno non è: né la capitale delle ’ndrine o solo di queste o principalmente di queste; né della violenza razzista; né la piantagione dello schiavismo. Rosarno è semplicemente una località specifica di supersfruttamento di braccianti, di stagionali, modellato sul caporalato e sul lavoro nero. Questo è ciò che caratterizza il Comune calabro. Il resto è secondario. Questo modello di supersfruttamento, che a Rosarno domina l’agricoltura, è presente in tutta Italia e lo troviamo a
Torino Milano Roma Napoli ecc. in edilizia nei servizi elementari nei trasporti ecc. persino con caporali autoctoni (europei e afro-asiatici). Le imprese agricole della Piana, nelle mani di chiunque (dell’imprenditoria libera e della ’ndrangheta), funzionano così. E funzionano così non perché in quest’area dettino legge le ’ndrine ma perché così vogliono governo ministri del lavoro e dell’interno prefetti e ispettorati (per limitarci ai responsabili principali) che conoscono bene la situazione e lasciano tosare, scannare, la forza-lavoro immigrata come pecore al mattatoio. "Tutti sanno chi sono e dove lavorano gli immigrati" (è l’evidenza sottolineata dagli insorti) ma agli sfruttatori e ai loro protettori politici fa comodo disconoscerli come persone. Non si può quindi confondere il razzismo con la ’ndrangheta, la ’ndrangheta con lo schiavismo o la schiavizzazione e lanciare tanti anatemi schivando il vero "mostro": lo sfruttamento capitalistico del lavoro salariato nell’epoca dello schiavismo tecnologico. La pianta che cresce a Rosarno prospera in tutti i giardini capitalistici d’Italia e del mondo.

Rivolta e contro-rivolta uno spaccato dello scontro sociale meridionale
Passiamo al secondo aspetto: la specificità dello scontro meridionale. Nella ricerca delle cause degli avvenimenti, politici magistrati giornalisti hanno spostato il baricentro dello scontro sociale dallo sfruttamento al razzismo e da questo alla ’ndrangheta. Alcuni sostenendo che la protagonista dei fatti è stata la ’ndrangheta in quanto nessuno potrebbe muoversi a Rosarno senza il benestare delle ’ndrine e che il razzismo è la benzina della subcultura mafiosa. Altri sostenendo che la ’ndrangheta abbia provocato ad arte la reazione degli extracomunitari stufi di non essere pagati e quale diversivo per spostare l’attenzione investigativa da Reggio Calabria a Rosarno. Solo Polizia e Chiesa hanno fatto riferimento alla situazione sociale. La prima individuando la causa degli scontri nella "situazione sociale esplosiva" carica di "intolleranza e razzismo". La seconda individuandola nella "situazione inumana esistente" dovuta anche alle ’ndrine, situazione che, per il basso salario, "grida vendetta al cospetto di Dio". Tutte queste interpretazioni, che nascono e sono finalizzate alla conservazione dei rapporti sociali e allo strozzamento delle spinte eversive, sono fuorvianti e mostrificatrici anche quando mettono l’accento sugli aspetti più esecrabili della realtà sociale. La causa della rivolta e della contro-rivolta, la specificità dello scontro sociale meridionale, sta nel fatto che la recessione generalizzata, che in Calabria ha la forma particolare di crisi agricola prolungata, sta squassando i rapporti sociali e inasprendo la contrapposizione tra le classi spingendola a livello di guerra di classe e di guerra tra le classi. L’agricoltura della Piana attraversa la sua più grave crisi strutturale dal dopoguerra a questa parte. La manodopera viene stracciata, resa inutile, non pagata, come peraltro avviene nelle aziende industriali in crisi. Diversi braccianti del Gambia hanno denunciato che gli agricoltori hanno fatto di tutto per non pagare e per farli scappare. La sovrapproduzione cronicizzata ha corroso e inasprito i rapporti tra braccianti - agricoltori - rosarnesi. Quindi, ferma restando la tesi che la rivolta non è stata un sollevamento contro la miseria simile a quelle messe in atto in passato dai braccianti meridionali bensì una sollevazione contro la prepotenza padronale e i suoi strumenti di ricatto, va tratta la conclusione che la causa specifica degli scontri sociali, della collera scatenata degli immigrati e della caccia al negro, sta nell’inasprimento e bellicizzazione dei rapporti tra le classi.

Va aggiunto poi che gli avvenimenti di Rosarno costituiscono uno spaccato meridionale degli scontri sociali non per la natura bracciantile o immigratoria degli insorti bensì per la natura (o forma) di guerra civile assunta dal conflitto braccianti-rosarnesi. La contro-rivolta è stata una controspinta, un riflesso d’ordine e di conservazione sociale, diretto a sedare la rivolta, ad assecondare la fuga e la deportazione dei rivoltosi, a preservare il modello di supersfruttamento pronto ad operare con gli stessi stagionali appena se ne ripresenta l’occasione. Sotto la regia del Comitato cittadino vi concorre un coacervo di forze piccolo e medio-borghesi e di padrini locali. La circostanza che l’8 gennaio durante la caccia al negro la polizia abbia fermato Antonio Bellocco, il figlio trentenne del boss Bellocco nell’atto in cui cercava di picchiare un immigrato che gli aveva colpito il parabrezza con un bastone, attesta o può attestare che le cosche abbiano partecipato alla caccia al negro per ristabilire la signoria sul territorio non già che abbiano promosso questa caccia in quanto ristabilire l’ordine era interesse preminente per tutte le forze conservatrici. In proposito non è neanche da escludere che abbiano partecipato alla contro-rivolta anche persone di infimo rango come lavoratori o lavoratrici fruenti di sussidi agricoli o di indennità di disoccupazione. Ma la mescolanza, nei vari manipoli e schiere della caccia al negro, di elementi sociali vari e di questi ultimi soggetti non implica che a Rosarno ci sia stata una guerra tra "finti poveri" e "poveri veri". Qui c’è stata una manifestazione estesa di guerra civile tra stagionali e residenti piccolo medio-borghesi e appartenenti alle cosche. L’affermazione di certi ammuffiti democratici che a dare la caccia agli immigrati sarebbero stati "piccoli gruppi di criminali" per vendicarsi delle denunce degli immigrati sulle violenze del 2008 e che i cittadini rosarnesi sono persone oneste e pulite che subiscono la prepotenza della ’ndrangheta, altera patentemente la realtà sociale locale. Il dato irriducibile è che i cittadini di Rosarno si distinguono in padroni bottegai operai (occupati e disoccupati) e che tra di loro domina il contrasto di interessi non l’armonia anche se questo rimane dormiente. La contro-rivolta ha coagulato una frazione di rosarnesi, di "gente per bene", che con la sua caccia al negro ha concorso a ristabilire l’ordine, il feroce ordine della deportazione e delle ruspe. Quindi dall’inasprimento meridionale, dall’inasprimento dei rapporti di classe al Sud (realtà in stato elevato di impoverimento), erompono nuove e più estese forme di guerra civile.

La guerra statale anti-immigrati
Veniamo al terzo e ultimo aspetto, alla massimizzazione militaristica della legalità statale. Va respinta recisamente la trovata del Ministro degli interni che i "clandestini" costituiscano la manodopera della criminalità organizzata e che alimentano un "sistema criminale organizzato". E va ribattuto proprio contro il ministro, il suo entourage, il governo tutto: primo che l’etichettatura di clandestino è appiccicata all’immigrato dalle questure e dalle varie norme giuridiche per trasformare il lavoratore senza permesso di soggiorno in un soggetto massimamente ricattabile e supersfruttabile; secondo che tutta la legislazione sull’immigrazione, dalla legge Turco-Napolitano del 1998 alla successiva Bossi-Fini fino al pacchetto sicurezza del 23 maggio 2008, è una trasformazione progressiva del trattamento della forza-lavoro immigrata in una disciplina militaristica anti-immigrati; terzo che con la recente istituzione del reato di clandestinità l’immigrato è stato ridotto a cane randagio, preda di sfruttatori e parassiti o, anche peggio, di trafugatori di organi. Insinuare che gli stagionali alimentano le ’ndrine è il colmo dell’ipocrisia e dell’impudenza. Ed è ora di finirla con questa farsa grottesca! Togliamo il sipario. La forza-lavoro immigrata è carne da macello per l’intero sistema Italia in tutte le sue articolazioni produttive commerciali di servizio e territoriali. A Rosarno lo è per il mattatoio delle imprese agrumicole; altrove per quelli dei cantieri trasporti servizi e imprese similari. Il supersfruttamento (basso salario, orari illimitati, assenze di tutele minime, ecc.) è la legge sovrana dominante con le debite differenze, al Sud e al Nord. E il meccanismo protettivo di questa legge sovrana, via via crescono gli antagonismi e gli scontri sociali, è la militarizzazione del diritto e della legalità. Quindi l’accusa ai clandestini, già trasformati in criminali, di alimentare la criminalità organizzata è una manifestazione, un atto, di guerra statale e va combattuto come tale.

..segue ./.

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