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La VOCE 1803

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La VOCE ANNO XXI N°1

settembre 2018

PAGINA 3

Onorificenza Internazionale Medaglia della Amicizia col Popolo della RPD di Corea alla Partigiana Miriam Pellegrini Ferri.

Invito all’ Ambasciata di Cuba in Italia dal Consigliere Politico Yamila Pita Montes.

Colaboracion con Radio Habana Cuba.

NEL 1968 ERO UNA STUDENTESSA
DELL’UNIVERSITÀ STATALE E...

di Paola D’Angiolini
Ho frequentato l’Università degli studi di Milano, “la Statale”, dal 1962 al 1970, inclusi due anni di occupazioni e cortei.
I corsi di Lettere affrontavano Marx e la genesi del capitalismo, la fame nel mondo generata da cinque secoli di colonialismo, la riforma o rivoluzione agraria; la tardiva industrializzazione italiana basata sul bisogno dello stato di reprimere (ferrovie e corazzate), la politica economica fascista al servizio del grande capitale, degli agrari della Valle Padana e dei latifondisti del Sud.
Nel 1964 l’ “incidente del Golfo del Tonchino” servì al presidente Johnson per ampliare l’intervento USA in Vietnam; iniziarono gli arruolamenti e le proteste degli universitari (la cui eco arrivò da noi), che citavano un combattente contro l’impero romano: “hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace”.
In Italia entrava nelle scuole l’ondata dei giovani nati nell’immediato dopoguerra, anche all’università non c’erano più solo i figli dell’alta borghesia. Il governo voleva mantenere la selezione nell’università, mentre aveva aperto alle nuove generazioni con la scuola media unica. il “piano Gui” (progetto di legge 2314 del maggio 1965) prevedeva tre livelli di laurea non comunicanti fra loro (lo studente doveva scegliere, non poteva cambiare o continuare), e manteneva accessi diversi alle facoltà secondo il diploma (liceo classico, liceo scientifico, istituti tecnici).
La risposta furono le occupazioni: Sociologia nella cattolica Trento, Architettura del Politecnico di Milano (che aveva già occupato nel 1963 sui metodi d’insegnamento), la Sapienza a Roma, dove gli studenti di destra occupavano Legge e quelli di sinistra Lettere e Filosofia e Architettura.
In una rissa coi fascisti di Caradonna il 27 aprile 1966 fu ucciso lo studente Paolo Rossi, dell’UGI (l’associazione universitaria laica, l’altra era l’Intesa, cattolica, poi c’era il FUAN fascista) e questo creò commozione e indignazione in tutte le università. Il 4 novembre 1966 ci fu l’alluvione di Firenze, andammo in molti giovani ad aiutare: fango dappertutto, una striscia di nafta su tutti gli edifici a segnare fin dove era arrivata la piena, i lungarni senza spallette, l’acqua razionata. Cercavamo di pulire, di salvare libri antichi. Ted Kennedy, giunto a fare passerella politica, fu fischiato.
Le occupazioni continuavano nel 1967, i partitini Ugi e Intesa, che frenavano, furono emarginati; non avevamo nessuna fiducia neanche nei partiti veri e propri, si discuteva e si decideva in assemblea; nostra controparte diretta erano i rettori e i baroni universitari, ma ci consideravamo contro il capitalismo, contro “il sistema”. All’università di Pisa (Sapienza) col contributo di studenti da tutta Italia si elaborò la tesi che gli studenti sono “forza lavoro in formazione”. Nel 1967 uscì “Lettera a una professoressa”, che non era solo una polemica sulla scuola ma puntava la sua critica sulla cultura al servizio del capitalismo: una sua frase, che vidi poi scritta su un muro di un quartiere popolare, diceva: ”l’operaio sa 100 parole, il padrone 1.000: per questo lui è il padrone”.
Le guardie rosse scuotevano il potere in Cina, gli USA bombardavano il Vietnam del Nord e cresceva la protesta e la diserzione di studenti e afroamericani (la maggioranza dei chiamati alle armi): si bruciavano le cartoline precetto, si fuggiva in Canada, ci si ribellava nei ghetti neri, ‘Che’ Guevara incitava a creare “molti Vietnam”: i fatti del mondo irrompevano nelle nostre coscienze e nei nostri dibattiti.
Gridavamo nei cortei “Johnson boia” (poi “Nixon), “USA assassini”, “Vietnam libero, Vietnam rosso”, “Cina, Cuba, Corea, Vietnam ”, “Il potere nasce dalla canna del fucile”.
Il colpo di stato dei colonnelli in Grecia (aprile 1967) fece affluire nelle università italiane molti studenti greci; altri avrebbero seguito negli anni: africani, in particolare eritrei e somali, cileni, argentini, mantenendo viva l’attenzione per le lotte dei popoli.
Con la “guerra dei sei giorni” (5-10 giugno 1967) si videro masse di profughi palestinesi attraversare il ponte di Allenby per fuggire in Giordania come era già accaduto nel 1948: la Palestina si affiancò al Vietnam nella nostra passione internazionalista, il nostro antifascismo permaneva ma era cambiato il giudizio su Israele, fermo restando il sostegno all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) col tempo ci dividemmo nella valutazione delle forze politiche che la componevano (al Fatah, Fronte Democratico, Fronte Democratico Popolare) e reagimmo sgomenti alla repressione del “Settembre nero” 1970. Nel novembre 1967 fu occupata l’Università Cattolica di Milano, subito sgomberata; gli espulsi Spada, Pero e Capanna furono spediti alla Statale, i primi due più ragionanti, Capanna più comiziante e presto il leader nelle assemblee.
Il 1968 cominciò con l’offensiva del Tet dei patrioti vietnamiti, che colsero di sorpresa gli occupanti. A marzo a Roma la “battaglia di Valle Giulia” (Architettura) fra studenti sgomberati e polizia riempì le cronache con reazioni contrastanti (Pasolini), mentre a Milano Capanna a largo Gemelli (piazza s. Ambrogio) cercò di usare la massa di studenti universitari e medi come testa d’ariete per rioccupare la Cattolica: la polizia caricò, fu la prova del fuoco per il movimento studentesco milanese. Ci dicevamo: o i medi si sono spaventati e non li vedremo più, o si sono arrabbiati e allora torneranno. Tornarono, e i cortei studenteschi bloccavano il traffico di Milano.
Riaprirono le università, e le occupammo, le sgomberarono e le rioccupammo; due anni, il ’68 e il ’69, passarono tra occupazioni, cortei, autogestione (lezioni aperte coi prof solidali, controcorsi), assemblee.
Venne il “maggio francese”, con un periodo studentesco di battaglie nel Quartiere Latino, uno sociale con l’intervento dei lavoratori e lo sciopero generale (più ampio che col fronte popolare del 1936), e infine con De Gaulle che andò a trovare il generale Massu (il torturatore della ‘battaglia di Algeri’) e sciolse il parlamento (vincendo le elezioni il 30 giugno e dimettendosi un anno dopo). Venne il 21 agosto, l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’URSS, e la reazione di molti di noi fu “non c’è il socialismo”, ci orientavamo verso la Cina.
A ottobre gli studenti di Città del Messico, che protestavano da nove settimane per l’occupazione militare del campus universitario appoggiati dai lavoratori, vennero massacrati a Piazza delle Tre Culture (azteca, spagnola, messicana): con le Olimpiadi imminenti il governo voleva l’ordine a tutti i costi. E alle Olimpiadi i velocisti afroamericani che
arrivarono primo e terzo nei 200 metri attuarono una protesta a pugno alzato per il ‘potere nero’ che, come il massacro, ebbe eco in tutto il mondo.
Anche in Italia si poteva ancora essere uccisi dalla polizia, come nel luglio 1960: a dicembre due agricoltori di Avola, ad aprile 1969 due manifestanti a Battipaglia. Scoppiò l’ “autunno caldo”, con duri scioperi e grandi manifestazioni; gridavamo “potere operaio”, “Agnelli Pirelli ladri gemelli”, “operai, studenti uniti nella lotta”. Una giovane operaia mi chiese: “ma voi siete studenti, perché gridate ‘potere operaio’ e non ‘potere studentesco’ ?” “Perché sarebbe un gran casino” risposi d’impeto, ridemmo tutti. Avevamo coscienza che con il nostro pensiero critico potevamo esprimere il malessere profondo della società e influire sulle coscienze, ma che non eravamo la forza decisiva per attuare un vero cambiamento sociale.
Il 12 dicembre, con la bomba di piazza Fontana, capimmo che niente sarebbe più stato come prima. Il 15 dicembre arrestarono Pietro Valpreda, fu ucciso Giuseppe Pinelli.
Nel cortile di Architettura campeggiava la scritta “Hanno suicidato un compagno anarchico”; ancora oggi due lapidi sul prato davanti alla Banca dell’Agricoltura, una che dice “morto tragicamente”, l’altra “ucciso”, testimoniano la memoria divisa della città. Durante il 1968 il movimento degli studenti si differenziò: alla Statale oltre al Movimento Studentesco (MS) cresceva Avanguardia Operaia (AO), nelle facoltà scientifiche ma anche con un forte Comitato di Base alla Pirelli Bicocca. Spuntò anche l’Unione dei Comunisti m-l ovvero “Servire i popolo”, di Aldo Brandirali, presto diventato partito e organizzato quasi come una setta (sventolìo di libretti rossi di Mao Zedong, matrimoni officiati dal capo, donazioni dei beni); invece Potere Operaio (Pot.
Op.), cresciuto a Roma, non mise radici a Milano. Dato che AO aveva matrice trotzkista, il MS divenne stalinista, una scelta che ci apparve strumentale (poi in parte fu più ragionata); il confronto avveniva nelle assemblee e in cortei separati (uno la mattina, uno il pomeriggio), senza lo scontro, che arrivò negli anni ’70.
Nel 1969 fu espulso dal PCI il gruppo del “Manifesto”, considerato ‘la destra’ del movimento perché dialogante col PCI e con le realtà dell’Europa orientale. Sempre nel 1969 nacque Lotta Continua (LC), schiettamente spontaneista, in appoggio a tutte le lotte e movimenti nel paese e in campo internazionale, compresi gli indipendentisti irlandesi (IRA) e baschi (ETA).
Il 12 dicembre 1970, nella manifestazione per piazza Fontana, fu ucciso dalla polizia lo studente lavoratore Saverio Saltarelli. Il 12 dicembre 1971 ci furono invece le botte in piazza Fontana tra MS e AO, con parte dei manifestanti che ai lati deplorava che dovesse finire così; ormai c’erano gruppi contrapposti, litigavano per il posto nei cortei, organizzavano propri servizi d’ordine. Il 23 gennaio 1973 davanti alla Università Bocconi fu ucciso dalla polizia lo studente del MS Roberto Franceschi; nella grande manifestazione che seguì, con la polizia schierata di spalle ‘per evitare provocazioni’, il grido iniziale “polizia assassina” diventò “borghesia assassina”: dall’esecutore al mandante.
L’11 settembre 1973 il generale Pinochet attuò il colpo di stato in Cile, bombardando la Casa Rosada e il presidente Salvador Allende, imprigionando, torturando e uccidendo gli oppositori. Il 28 settembre il segretario del PCI Berlinguer riferendosi al Cile propose un “nuovo grande ‘compromesso storico’ tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”, cioè il PCI e la DC. la reazione dei movimenti fu assai critica, si gridava nei cortei “compagno (o “Enrico) Berlinguer, ci dicono dal Cile che il compromesso storico si fa con il fucile” (oppure, arrabbiati per le defezioni del PCI da certe ricorrenze. “il PCI non è qui, lecca il culo alla DC”). La rabbia investiva l’elettoralismo, si propagandava l’astensione ma talvolta si indicava di votare PCI.
Il 25 aprile 1974 suscitò entusiasmo la pacifica “rivoluzione dei garofani” in Portogallo, e anche l’ “estate calda” del 1975 (golpe sventato, riforma agraria, manifestazioni, occupazioni), poi si tornò all’ “ordine”. Molti giovani, in particolare dei servizi d’ordine, davano la caccia ai fascisti nelle scuole e nei quartieri (“fascisti, carogne, tornate nelle fogne” o peggio “Hazet 36, fascista dove sei”). A Milano il 16 aprile 1975 un fascista sparò allo studente Claudio Varalli, del MS, nella grande manifestazione del giorno dopo un blindato della polizia travolse Giannino Zibecchi, del Coordinamento comitati antifascisti.
Poteva capitare, a quei tempi, che chi avevi conosciuto studente fosse arrestato nel 1975 e confessasse di aver ucciso per sbaglio (troppo cloroformio) un amico figlio di industriali (Carlo Saronio) per un sequestro politico. Poteva capitare che un’assemblea in Statale fosse interrotta perché si era trovato un volantino delle Brigate Rosse.
Poteva capitare che un compagno, solo perché aveva frequentato Sociologia a Trento, ospitasse qualcuno nella casa occupata per autogestione sociale e si ritrovasse a dover far sparire una pistola al più presto.
Il movimento si spense, nel 1976 i gruppi si sciolsero (LC) o divennero cartello elettorale (Democrazia Proletaria, l’1,5% dei voti), la guerra in Cambogia e nel Vietnam era finita con la liberazione di Phnom Penh e Saigon.
L’Autonomia Operaia fu un’altra fase, non c’era più lo spirito internazionalista né la volontà di legarsi alla classe lavoratrice, c’era l’esproprio proletario e la pistola nelle manifestazioni.
Cosa è rimasto del 1968?
Poco se si guarda ai brandelli di partiti e ai sindacati di base, cui si ricorre solo per le lotte più difficili. C’è Medicina Democratica, che tuttora si batte per la sanità per tutti, la tutela della salute nei luoghi di lavoro e nell’ambiente; c’è Magistratura Democratica che ormai è una corrente dei giudici. I leader del ’68 e oltre sono diventati personaggi di un certo rilievo, certo più abili dei burocratini emarginati dal ’68 perché l’hanno conosciuto e cercano di ridicolizzarlo (il terzomondismo bollato come pietismo, l’anticapitalismo come superato). Tra i militanti di base, invece, ci fu anche la disperazione dell’eroina. Ci fu un certo impegno nella scuola, nei docenti e nei testi, che ormai è finito. C’è stato un cambiamento nei rapporti di coppia e nella famiglia (dove la pedagogia antiautoritaria ha prodotto anche permissivismo).
C’è stato soprattutto un fiorire di movimenti nella società, con corsi e ricorsi: il femminismo (che aveva eroso LC dal di dentro); l’antimilitarismo e il pacifismo; il movimento antinucleare e l’ecologismo, la tutela dei beni comuni.
In sostanza, il ’68 e oltre pose dei problemi che abbiamo ancora davanti a noi.

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