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La VOCE ANNO XX N°1

settembre 2017

PAGINA D         - 36

Segue da Pag.35: La “questione ecologica”: un’analisi a partire dal rapporto uomo-natura nel pensiero di Lenin

della libertà” nei casi più gravi ed ammende pesantissime) e risultano essere state comminate ammende di rimborso di diversi milioni di rubli ad imprese statali che si erano rese responsabili di seri danneggiamenti all’ambiente (Arbatov et al., 1989).

Possiamo allora chiederci che cosa non abbia funzionato, dato che un certo numero di seri danni ambientali in URSS è incontrovertibile. In primo luogo, è opportuno però tener distinta la realtà dalla propaganda, sia da quella messa in giro durante l’epoca dell’URSS dai suoi nemici che quella dei “nuovi russi” rispetto alla fase politica precedente. Infatti, se la scienza in generale non è neutrale, neppure l’ecologia può esserlo: quindi una volta che negli USA cominciò a ricostruirsi, per la prima volta dopo decenni di assenza, una opposizione al capitalismo che partiva dal riconoscimento della incompatibilità dell’“American style of life” con la conservazione delle risorse naturali, era essenziale che si cercasse di dimostrare che il modello socialista fosse ancora più incompatibile. Ed una certa “scienza ecologica” si assunse questo ruolo.
In realtà la situazione ecologica nell’URSS non era sostanzialmente diversa da quella della maggior parte dei paesi industrialmente avanzati e, caso mai, vista la grande estensione territoriale, il basso rapporto tra popolazione e territorio e l’attenzione prestata al problema ecologico ben prima che venisse riconosciuto in Occidente, era migliore e non peggiore. Chiunque abbia raggiunto in volo località dell’URSS non può non aver notato come la maggior parte del territorio fosse sostanzialmente allo stato naturale (bosco, tundra, foresta, deserto, ecc.), a differenza di quanto si poteva vedere per la quasi totalità dei paesi dell’Europa occidentale.
Però, bisogna ammetterlo, la situazione non era neppure così buona quanto avrebbe potuto esserlo date le premesse con le quali si era partiti ed è necessario cercare capire perché, in modo da poter andare avanti sulla strada indicata da Marx, Engels e Lenin.
A questo proposito, bisogna in primo luogo tener presente che l’impostazione marxista-leninista del rapporto tra uomo e natura non può essere confusa con una visione utopica di ritorno a schemi produttivi precapitalistici quali ad esempio quelli di una tipica civiltà di cacciatori-raccoglitori, come gli Indiani delle Pianure americane che tanto affascina i movimenti della “New Age” e della “Religione di Pacha Mama”. La concezione mistica della natura, implicitamente od esplicitamente posta a base di questa posizione, non solo è incompatibile con il materialismo dialettico ma è semplicemente basata su una organizzazione sociale che non esiste più e che non ha neppure senso cercare di ricostruire, anche ammesso che per un qualsiasi motivo la si ritenga più desiderabile della stessa organizzazione sociale capitalistica. Forse non c’è neppure bisogno a questo proposito di ricordare quanto scritto da Marx ed Engels a proposito del socialismo utopico. Basta tenere in conto il fatto che il pianeta Terra può mantenere in completo equilibrio ecologico statico (cioè nel quale l’attività umana è indifferente rispetto agli equilibri delle altre componenti del sistema) non più di 2.5 milioni di cacciatori-raccoglitori, con una speranza di vita di 40 anni (Renfrew, 1990).
Anche un ecologismo del tipo presentato da I limiti dello sviluppo (MIT-Club di Roma, 1972) presuppone una ben determinata organizzazione sociale: quella dell’imperialismo. Infatti, il tema dominante di quel libro e di moltissimi altri che ne hanno seguito la scia, è quello dell’impossibilità per tutti gli abitanti del pianeta di raggiungere il tenore di vita degli USA negli anni ’70, sicché sarebbe necessario fermarsi o almeno rallentare tutti nel proprio sviluppo. A parte la discutibilità della parte tecnica dello studio (che pure sarebbe interessante analizzare) questa soluzione è tanto ingiusta da essere risultata impraticabile, non ostante i tentativi economici e militari messi in atto per contenere lo sviluppo dei popoli del Terzo Mondo.
Neppure possiamo accettare acriticamente una proposta di un nuovo equilibrio ecologico basato sullo sviluppo di nuove tecnologie che rendano superata l’organizzazione del lavoro fordista: è vero che la grande fabbrica ha localmente un impatto ambientale maggiore di quello della produzione distribuita e che la chiusura delle grandi fabbriche e delle miniere in Inghilterra, conseguente alle “riforme” economiche del governo Thatcher, ha fatto tornare i salmoni nel Tamigi, ma ha accumulato tanta povertà da generare un degrado dell’ambiente urbano quale non si era visto dall’inizio del XX secolo. Inoltre, la produzione distribuita, a parte l’impatto politico distruttivo sull’organizzazione operaia, comporta lo spostamento su scala planetaria di prodotti e materie prime con conseguenze ecologiche imprevedibili e spesso serissime.

Non c’è dunque soluzione alla “contraddizione tra uomo e natura”?
La risposta è ovvia: se la si affronta come una “contraddizione”, no! Se però la si affronta in termini di materialismo dialettico allora essa cessa di essere una contraddizione e quello che si deve cercare non è più un modo (impossibile) di rendere statica una situazione, sia essa quella antecedente alla “rivoluzione neolitica”, quella dell’imperialismo degli anni ’70 o quella della “produzione del just in time” e della “fine del lavoro”, ma il modo di giungere ad una sintesi sempre più alta (cioè, in questo caso, più “compatibile”) tra società e natura.
Ciò significa che non possiamo aspirare a “non modificare” la natura. La natura stessa non è mai stata statica: specie animali e vegetali si sono sviluppate ed estinte, e non sempre in modo graduale; ambienti si sono trasformati completamente, a volte nel corso di milioni di anni, altre nel giro di poche ore (basti pensare alle conseguenze di eruzioni vulcaniche esplosive). L’uomo e la sua attività sono parte di questa natura, la modificano e ne vengono condizionati e modificati. È chiaro però che la potenza dei mezzi tecnici a disposizione della società attuale è tale da produrre in tempi brevi modifiche ambientali irreversibili di enorme entità: il loro uso non è quindi “compatibile” con una società priva di regole, o retta dalla “competizione del libero mercato”, il che è la stessa cosa.
Per strano che possa sembrare, proprio la dinamica dell’incidente alla centrale nucleare di Cernobyl dimostra chiaramente questo processo: la centrale era vecchia e ne sarebbe stata necessaria la sostituzione. Alcuni dirigenti della centrale però, per dimostrarsi efficienti e guadagnare promozioni nella nuova ottica meritocratica, ne mascheravano il reale stato nei loro rapporti al Ministero dell’Energia. Infine, un altro dirigente, durante una sospensione delle attività produttive a scopo di manutenzione, tentò un esperimento per aumentare la produttività in segreto, per non dover condividere il merito di un eventuale successo. Per questo esperimento non solo non era stata chiesta l’autorizzazione, ma non si era nemmeno lontanamente tentata una modellizzazione su base scientifica dato che coloro che conoscevano il reale stato della centrale non erano neppure stati avvisati. Ciò innescò la catena di eventi che diede origine al disastro. Si è trattato quindi di un comportamento totalmente estraneo ad una logica socialista ed invece completamente interno ad una logica capitalista. Quindi, pur se il fatto si è verificato in URSS, anche nell’incidente di Cernobyl i danni all’ambiente sono stati effetto della logica della “libera iniziativa”.
Una ipotesi di base del liberismo è infatti quella della disponibilità illimitata di risorse naturali e questa ipotesi, se poteva sembrare sensata due secoli fa, ora si dimostra patentemente falsa. In un ambiente limitato, l’unica possibilità di uno sviluppo “compatibile” è quella di una accurata programmazione, che permetta l’avvio di nuove attività solo dopo che ne siano state valutate le conseguenze.
L’evoluzione della modellistica fisica ci ha portato molto vicino a poter realizzare questo obiettivo e quindi ad una interazione con la natura che, pur modificando l’ambiente, vi incida solo in modo da renderlo più favorevole all’uomo.
Certo, molto resta ancora da fare a questo riguardo sul piano scientifico-tecnico, ma questo non è il problema principale. La maggior parte dei danni ambientali che si producono attualmente non sono infatti frutto di effetti sconosciuti conseguenti all’uso di nuove e pericolose tecnologie, ma conseguenze prevedibilissime di azioni facilmente evitabili e/o sostituibili con altre, condotte al fine di produrre la privatizzazione dei profitti e la pubblicizzazione dei danni. Queste azioni sono quelle contro le quali concentrare ora l’azione politica, perché, citando per un’ultima volta Lenin, “la politica riguarda la soluzione concreta dei problemi concreti”.


Riferimenti bibliografici

Arbatov A., Bogolyubov S., Sobolev L., 1989, Ecology, ed. Novosti, Mosca
Barletta F., 1975, Introduzione a Marx, Engels, Lenin: Sulla scienza, ed. Dedalo, Bari
Bagarolo T., 1989, Marxismo ed ecologia, ed. Nuove Edizioni Internazionali, Milano
Bagarolo T., 1993, Marxismo e questione ecologica, ed. Punto Rosso, Milano
MIT-Club di Roma, 1972, I limiti dello sviluppo, EST Mondadori, Milano
Renfrew C., 1990, La preistoria europea, EST Mondadori, Milano
Weiner D.R., 1988, Models of nature. Ecology, Conservation and Cultural Evolution in Soviet Russia, Indiana Univ. Press, Bloomington

I brani di Lenin riportati sono tratti da:
V.I. Lenin, Quaderni filosofici, in Opere scelte in 6 volumi curate dal CC del PCUS, Editori Riuniti-Edizioni Progress, Roma-Mosca, 1973.

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