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La VOCE ANNO XX N°2

ottobre 2017

PAGINA d         - 28

La maggioranza dei britannici ritiene che il Regno Unito debba riconoscere la Palestina

La maggior parte dei cittadini britannici ritiene che il Regno Unito dovrebbe riconoscere la Palestina come stato, secondo quanto riportato da un sondaggio YouGov pubblicato lunedì scorso.

Il 53% dei partecipanti al sondaggio ha affermato di essere d’accordo con questo riconoscimento, in contrapposizione ad un 14% che è in disaccordo (il 33% afferma di essere “neutrale”).
Commentando il sondaggio, l’ambasciatore palestinese nel Regno Unito, Manuel Hassassian, ha dichiarato che il parere dell’opinione pubblica si è modificato nel corso degli anni. “Sono qui da 11 anni ed ho assistito a variazioni drastiche nelle opinioni pubbliche degli inglesi sulla questione palestinese”, ha detto.
“Quel 14% che afferma di non volere che lo stato palestinese sia riconosciuto è indicativo del fatto che oramai la causa palestinese nel mondo è stata ampiamente accettata”, ha aggiunto.
Il sondaggio tra il pubblico inglese ha inoltre riportato differenti punti di vista riguardanti la Dichiarazione di Balfour, il cui centenario ricorrerà nel prossimo mese di novembre.
Secondo questo sondaggio, l’opinione pubblica è fortemente divisa per quanto riguarda la Dichiarazione di Balfour: il 32% dei britannici pensa si tratti di una dichiarazione della quale andar fieri, mentre il 27% la considera come “qualcosa di cui rammaricarsi” (mentre il 41% ha selezionato la voce “nessuna delle due”).
Sempre in questo sondaggio è stata evidenziata una faziosa partigianeria, con una sorprendente pluralità (32%) di coloro che alle ultime elezioni hanno votato per i laburisti, i quali considerano la Dichiarazione di Balfour come qualcosa di cui rammaricarsi. Tra i votanti conservatori, d’altro canto, il 40% considera lo storico documento un motivo di orgoglio, e solo il 21% un dispiacere.
Nel sondaggio veniva anche chiesto se, “visto il ruolo avuto dal Regno Unito”, il paese ha “attualmente una particolare responsabilità nella ricerca di una soluzione al conflitto israelo-palestinese”, domanda alla quale il 55% ha risposto “no” ed il 45% ha risposto “sì”.

( Fonte: Infopal.it ).

Vivere con le conseguenze negative degli Accordi di Oslo

di Ramona Wadi

Gli Accordi di Oslo hanno comportato una serie di compromessi, ognuno dei quali ha inasprito il male fatto ai palestinesi e minato seriamente questioni importanti come il diritto al ritorno dei profughi. Invece di sostenere la causa della decolonizzazione, gli accordi hanno prodotto decenni di futile retorica su una “soluzione a due stati” e hanno sprecato gran parte di tempo prezioso dei palestinesi. All’altra estremità dello spettro, però, gli israeliani hanno sfruttato i “negoziati” perditempo per facilitare la propria espansione coloniale su base giornaliera.

In occasione di un incontro tra il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas e la sua controparte statunitense Donald Trump, prima di affrontare l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il consigliere anziano di Abbas, Nabil Shaath, ha dichiarato che sarebbe “assolutamente ridicolo” se Trump non si impegnasse nei confronti dell’imposizione dei due- stati. Secondo il Times of Israel, Shaath ha anche espresso l’opinione secondo cui dai prossimi incontri si aspettavano magri risultati: “Non so se Trump ha molto da dire. Già la sua delegazione che è qui, Kushner e Greenblatt, ha chiesto un periodo di attesa di tre o quattro mesi prima che Trump sia pronto con una formulazione per avviare il processo di pace”.

Il fatto che la Palestina sia sempre trattata, anche dai leader palestinesi, da una posizione di inferiorità, blocca ogni potenziale di pensiero e azione alternativi. I dirigenti AP sono pronti a descrivere come inconvenienti politici simili periodi di attesa richiesti dagli Stati Uniti o imposti alla Palestina dalla comunità internazionale. Finora la volontà di AP di accettare tali ritardi si è trasformata in una farsa permanente che dimostra l’irresponsabilità dei principali attori diplomatici. Per Israele, Stati Uniti e comunità internazionale, questi periodi di presunta inazione servono come tempo per la pianificazione e l’esecuzione di un’ulteriore oppressione sotto forma di espansione coloniale, di demolizioni di case e di altre misure punitive. Rappresentano anche un freno allo sviluppo della società palestinese, per esempio, come è accaduto recentemente all’inizio del nuovo anno accademico.

I leader palestinesi, d’altro canto, sono stati impegnati a paralizzare Gaza con una sottomissione politica in un altro tentativo di riconciliazione. Sebbene descritto come mezzo per porre fine alla divisione palestinese, tutto questo potrebbe avere ripercussioni gravi se l’intenzione è quella di eliminare i residui filoni di resistenza all’occupazione israeliana. Il raggiungimento di questo obiettivo in tali crudeli circostanze, come assediare e perseguitare i civili palestinesi nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania rispettivamente, non è né motivo di celebrazioni né esercizio di pragmatismo.

L’AP sta riflettendo su ciò che la comunità internazionale ha politicamente imposto ai palestinesi. I commenti di Shaath indicano che non c’è altra volontà da parte dell’AP se non persistere con il paradigma dei due stati, anche se è stato dichiarato ormai obsoleto da parte degli analisti più sensibili. Per gli Stati Uniti e la comunità internazionale, il rispetto di tali richieste non è problematico, data la presente acquiescenza alla spirale negativa avviata dagli Accordi di Oslo. Se Trump fallisce “l’impegno” nel compromesso a due stati, il periodo di attesa verrà utilizzato come una metafora di protesta e sottomissione. C’è però una esplicita menzione dell’imposizione che l’AP potrebbe festeggiare come fosse una vittoria. In realtà è una spirale verso la distruzione, anche se la chiama vittoria nella farsa che è la riconciliazione palestinese. Tali sono le conseguenze di Oslo, per cui il prezzo pieno deve ancora essere pagato dalla Palestina e dalla sua gente.

( Fonte: Invictapalestina.org )


Ruchama Marton

26 settembre, 2017 | Haaretz

Pensare che Israele possa rimediarea un regime coloniale e di apartheid senza un aiuto esterno è un’illusione pericolosa fondata sull’ orgoglio machista israeliano.

Nel suo articolo su Haaretz, Uri Avnery risponde a quello che ho detto alla mia festa di compleanno degli 80 anni. “Alcuni dei miei amici pensano che la lotta sia persa, che non sia più possibile cambiare Israele ‘dal di dentro’, che solamente una pressione dall’esterno può aiutare e che la pressione esterna in grado di fare questo è il movimento del boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Uno di questi amici è la dottoressa Ruchama Marton”, egli scrive.

Avnery afferma: “Prima di tutto respingo decisamente l’idea che non c’è nulla che noi possiamo fare per salvare lo Stato, e che noi dobbiamo confidare negli stranieri perché facciano il lavoro per noi. Israele è il nostro Stato. Abbiamo la responsabilità di questo”.

Ecco la mia risposta

Non ho mai detto in qualunque momento o posto che io, o noi, la sinistra non sionista definita radicale, vogliamo o ci aspettiamo che qualcuno nel mondo faccia il nostro lavoro per noi. Non soltanto non è etico, è anche stupido e non praticatibile. Dalla guerra civile in Spagna, una guerra che è stata persa, al Sud Africa, una guerra che ha vinto, e a tutte le altre lotte, i nativi hanno sempre lottato e sono stati uccisi insieme ai loro sostenitori in giro per il mondo, mai separatamente. Sotto questo profilo, la sinistra radicale in Israele è in ottima compagnia. Avnery non ha alcun diritto di dire di me o di noi che aspettiamo qualcuno da fuori Israele che lotti per noi. Questo è sicuramente sbagliato.

La lotta corretta, secondo me, è la lotta anti colonialista e anti apartheid. Chiunque si illuda di poter vincere questa battaglia senza l’aiuto esterno cade in un errore, in un’illusione pericolosa fondata sull’orgoglio machista sionista israeliano. Io e solo io.

Oggi la questione della pace non è rilevante. È piuttosto un argomento di convenienza, troppo bello e al momento non praticabile. Schierarsi per la pace non è una posizione politica ma è un’adesione di facciata. Avnery conosce qualcuno di destra o di sinistra che si oppone alla pace? La questione attuale è quella dell’occupazione e dell’apartheid.

La lotta anti coloniale ha una tradizione rispettabile e quella contro l’apartheid ha una strategia che ha funzionato. È vero che quelli che hanno lottato per un cambiamento politico reale e non solo per salvare il Paese, hanno avuto bisogno di rinunciare ai privilegi a loro garantiti dal regime di apartheid.

Il diritto alla politica è il diritto più importante. Senza questo è come “Lasciate in pace gli animali”. Lottare per un ambulatorio nei territori occupati è come lottare per una mangiatoia per un cavallo. Il regime totalitario riduce il cittadino “ad avere diritti”, il diritto al cibo, alla casa, all’istruzione e alla salute. Quando il diritto alla politica è negato, la persona è ridotta allo stato di animale. Chiunque non abbia voglia di combattere per il diritto alla politica, lotta solo per il proprio corpo. Vale la pena chiedersi – siamo solo l’aspirina dell’occupante?Un cerotto dell’apartheid?

Voglio dare ai giovani che desiderano lottare gli strumenti per pensare criticamente. In altre parole, non stare al gioco del governo e al suo progetto. Dobbiamo imparare a dire che non accettiamo più le leggi del governo. Ciò significa assumere dei rischi e rinunciare ai nostri privilegi, che stanno dentro le regole dettate dal regime. Come ha detto Ralph Waldo Emerson: “Gli uomini validi non devono obbedire troppo bene alle leggi.”

Fintantochè gli ebrei israeliani che non sostengono il BDS pensano che sia possibile cambiare dall’interno, essi sono come la parabola della lepre che voleva cambiare dall’interno il leone. Così il leone l’ha mangiata. La lepre è entrata nel leone ma la sua storia è finita. Oggi cambiare dall’interno è un’illusione, la sinistra radicale non può pensare e agire in questo modo.

La sinistra sionista ha paura del radicalismo perché ha paura di rimanere sola, senza una tribù. Il problema è che esiste un’altra tribù, una più grande, e che si trova all’esterno. Per esempio, la tribù internazionale del BDS in crescita. È il nostro alleato perché non abbiamo alleati all’interno della nostra tribù nativa. Dobbiamo essere consapevoli che, dall’interno siamo troppo pochi e troppo deboli. Senza i nostri alleati di fuori non possiamo fare molto. I traditori di oggi saranno gli eroi di domani.

Avenery dice: “Penso che boicottare proprio Israele sia uno sbaglio. Porterebbe l’intera opinione pubblica israeliana nelle braccia dei coloni, mentre il nostro compito sarebbe di isolare i coloni nei territori occupati e di separarli dall’opinione pubblica israeliana. Il nostro compito qui è di raggruppare, riorganizzare e raddoppiare i nostri sforzi per sconfiggere l’attuale governo e portare l’area pacifista al potere”

Io gli rispondo: Stai argomentando in base ad un presupposto senza fondamento circa il futuro, basato solamente sulla paura di rimanere solo, perché l’opinione pubblica israeliana nella sua interezza si unirà ai coloni. La maggior parte lo ha già fatto. Il BDS è l’unica arma nonviolenta che può indurre la società israeliana ebraica a prendere consapevolezza del dominio e della sofferenza dell’occupazione quando venga costretta a pagarne il prezzo.

Se l’occupazione e l’apartheid portano a una sofferenza economica, culturale e diplomatica a causa di un boicottaggio internazionale, è molto probabile che possa avvenire un cambiamento nella visione israeliana che è basata da un lato sull’enorme beneficio che deriva al Paese e ai suoi cittadini ebrei dall’occupazione e dalla separazione, dall’altro sulla vigliaccheria di quella che viene definita la sinistra israeliana, o campo pacifista.

Dr.Ruchama Marton è la fondatrice e presidentessa di Physicians for Human Rights – Israel [Medici per i Diritti Umani-Israele]. Le sue opinioni non rappresentano quelle dell’associazione.

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato sul sito Haokets.

Fonte: Haaretz

Traduzione di Carlo Tagliacozzo per Zeitun



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