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La VOCE ANNO XX N°2

ottobre 2017

PAGINA a         - 25

Per non dimenticare Sabra e Chatila

35 anni fa il massacro di Sabra e Chatila


1982 - Il ministro della difesa israeliano, Sharon, invade il Libano, entra con i carri armati a Beirut e circonda i campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila.

Il 15 settembre Sharon dà il via libera agli alleati “falangisti” libanesi di Elie Hobeika che entrano nei due campi ed iniziano ad uccidere.

Il massacro dura settantadue ore. Di notte gli israeliani illuminano la scena con i bengala per agevolare lo sterminio.

Non dimenticare Sabra e Chatila è un dovere umano, civile e politico.

Rimane aperta la questione della responsabilità impunita di Sharon, mentre altri capi di governo colpevoli di analoghe violazioni della legge umana ed ogni altra legge sono stati incriminati presso la Corte Penale Internazionale.

Nel 2002 il Belgio aprì un procedimento a carico di Sharon per crimini di guerra.

Il 23 gennaio 2002 Elie Hobeika si dichiarò disposto a testimoniare davanti al tribunale belga, ma prima che potesse partire fu ucciso in un attentato che fece esplodere la sua automobile.

Il processo non ebbe mai luogo.


Visite vietate per 2 anni alla moglie di
Barghouti. L’Anp arresta Issa Amro

Chiara Cruciati, 06.09.2017 Territori Occupati. Fadwa punita per il ruolo nello sciopero della fame dei prigionieri. Il noto attivista, detenuto per una critica a Ramallah su Facebook, inizia lo sciopero della fame Non potrà incontrare il marito fino al 2019: è la punizione che le autorità israeliane hanno comminato lunedì a Fadwa Barghouti, moglie del leader palestinese Marwan, condannato a cinque ergastoli e detenuto dal 2002. A comunicarglielo è stata lamministrazione del carcere di Hadarim, vicino Haifa, quando si è presentata per la visita.
La decisione è stata giustificata dal portavoce dell’Israeli Prison Service, Assaf Liberati, con un’espressione tristemente nota alla popolazione palestinese: «ragioni di sicurezza».
Una formula vaga che nel caso di Fatwa Barghouti, va tradotta nel sostegno dato allo sciopero della fame dei prigionieri politici palestinesi dello scorso aprile. Una protesta durata 41 giorni e che ha coinvolto quasi 2mila detenuti politici. E guidata da Marwan Barghouti.
Ora, per il ruolo giocato in una forma di protesta nonviolenta, per le lettere a papa Francesco e l’attenzione mediatica (poca, a dire il vero, da parte della stampa occidentale) generata intorno allo sciopero, non le saranno dati i permessi per spostarsi dalla Cisgiordania nello Stato di Israele e raggiungere la Galilea, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra che vieta di detenere i residenti di un territorio occupato al di fuori di questo.
Nelle stesse ore, a sud della Cisgiordania, un altro simbolo del movimento di liberazione veniva incarcerato. Stavolta non da Israele – sebbene nelle prigioni di Tel Aviv ci sia passato molte volte – ma dall’Autorità Nazionale Palestinese.
Issa Amro, storico attivista, fondatore dell’associazione di Hebron Youth against Settlements, nominato dall’Onu nel 2010 «difensore dei diritti umani dell’anno», lo conoscono tutti: chi visita i Territori Occupati ha modo di incontrarlo per le strade di Hebron, alle manifestazioni popolari, come guida tra le vie strette della città vecchia occupata.
Su di lui pesano oggi 18 capi di accusa spiccati da una corte militare israeliana, spada di Damocle per cui protestarono a maggio Bennie Sanders e 32 parlamentari Usa. Questa volta, però, il carcere in cui è stato condotto è palestinese, per le organizzazioni di base l’ennesima prova delle conseguenze della cooperazione alla sicurezza tra Israele e forze di polizia palestinesi.
La ragione è un post su Facebook in cui Amro criticava l’Anp per l’arresto, avvenuto domenica, di Ayman Qawasmeh, direttore della radio Manbar al Hurriya chiusa tre giorni prima dall’esercito di Tel Aviv. Qawasmeh è stato poi detenuto dall’Anp per aver pubblicamente attaccato la leadership palestinese e chiesto al presidente Abbas e al primo ministro Hamdallah di dimettersi.
L’ultimo di una serie di giornalisti imprigionati, collaboratori di 29 siti di informazione chiusi dall’Anp perché accusati di vicinanza a Hamas o al rivale di Abbas, l’ex leader di Fatah Mohammed Dahlan.
A garantire spazio di manovra è la Cyber Crimes Law, decreto firmato dal presidente palestinese a fine giugno: all’articolo 51 prevede i lavori forzati per i responsabili di crimini online che mettono in pericolo l’unità
nazionale e all’articolo 20 punisce con almeno un anno di carcere o una multa tra mille e 6mila euro chi «crea o gestisce un sito che danneggia l’integrità dello Stato e l’ordine pubblico».
Una dicitura vaga che ha permesso di zittire reporter e semplici cittadini, utenti della rete. «Ci sono giornalisti minacciati dalle forze di sicurezza per aver pubblicato la notizia dell’arresto di Qawasmeh – aveva scritto Amro – Nessuno può creare una legge e uno Stato per sé. La legge è chiara. Le forze di sicurezza dovrebbero proteggere la legge, non violarla». Parole dure.
Ramallah ha reagito, arrestando anche Issa Amro. E lui, dalla cella, annuncia: sciopero della fame fino al rilascio.
© 2017 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

«Via gli africani da Israele»

Michele Giorgio, Tel Aviv,06.09.2017
Tel Aviv. Alimentata dai proclami anti-migranti del premier Netanyahu e dalle politiche della destra cresce la rabbia degli abitanti dei quartieri poveri di Tel Aviv contro eritrei e sudanesi Il Caffè Shapira è solo una casetta di legno con sette-otto tavoli allombra degli alberi in un piccolo parco di via Ralgab. Nulla di paragonabile con i locali della movida di Tel Aviv. È però uno dei rari luoghi nel quartiere Shapira, nella periferia meridionale e povera di Tel Aviv, dove si incontrano un po tutti: i giovani hipster tatuati e con piercing come lanziano ebreo di origine mediorientale che da quelle parti ci vive da decenni. Qualche volta si vede anche qualche migrante eritreo o sudanese.
Non sono molte le occasioni in cui gli abitanti della periferia di Tel Aviv, israeliani e stranieri, hanno la possibilità di ritrovarsi seduti nello stesso posto. Da un po al Caffè Shapira ci vengono solo gli hipster. «La gente del posto non ha voglia di incontare gli africani che da parte loro hanno paura, preferiscono non farsi vedere in giro e restano nella loro zona» spiega Roni, uno studente universitario, indicando via Levinsky e la vicina stazione centrale degli autobus.
In verità anche in via Levinsky si incontrano pochi eritrei e sudanesi. Gli africani provano a rendersi invisibili. Gli ultimi tempi sono stati carichi di tensione in quella zona e le recenti visite del premier Netanyahu nei quartieri meridionali di Tel Aviv, per rassicurare gli israeliani che vi abitano, hanno rimesso al centro dei problemi i mistanenim, gli infiltrati, come il governo e la destra chiamano i migranti e i richiedenti asilo. «Molti di loro non sono rifugiati, ma gente che cerca soltanto lavoro» ha detto il primo ministro accrescendo il risentimento fra i tanti israeliani disoccupati ed emarginati di Neve Shaanan, Tikva, Shapira e altre aree periferiche che vedono nei clandestini dei concorrenti temibili perché pronti ad accettare lavori a giornata per pochi shekel e a nero. Le leggi israeliane approvate per combattere limmigrazione non lo consentono ma il lavoro più a basso costo comunque finisce anche agli africani, che giungono in Israele scappando da conflitti vecchi e nuovi nei loro Paesi. «Bisogna salvaguardare le nostre frontiere» ha aggiunto Netanyahu annunciando la prossima formazione di un team ministeriale «per restituire i quartieri (meridionali) ai cittadini e rimuovere gli stranieri illegali che non appartengono al posto». Il governo, ha garantito il premier, rafforzerà il Muro costruito lungo il confine con l’Egitto e chiederà alla Knesset di approvare leggi più dure per chi darà lavoro agli infiltrati. Sotto accusa da diversi giorni è la giudice della Corte Suprema, Miriam Naor, che ha bocciato la detenzione a tempo indeterminato decisa dal governo per gli infiltrati che si oppongono al rimpatrio volontario e assistito in Africa.
«Naor ci viva lei assieme ai neri» dice Noga, una signora sulla cinquantina. «Mangiano e dormono in strada e di notte non possiamo più andare in giro con tranquillità, abbiamo paura», prosegue la donna sulla porta del suo appartamento di pochi metri quadrati in una palazzina grigia. Interviene un giovane. «In questo stabile ci sono quattro ragazzi – ci spiega io ho già fatto il militare, gli altri lo faranno presto. Facciamo il nostro dovere ma il lavoro poi va a quelli che vengono dallAfrica.
Netanyahu ha ragione, Israele è solo degli israeliani». I migranti sono il capro espiatorio per chi fa i conti con una vita quotidiana difficile, lontana dalle luci colorate e dalla musica di Tel Aviv capitale del divertimento. I migranti perciò sono come i palestinesi, gli arabi. Nemici, senza diritti, da combattere e allontanare. A dare voce a questa rabbia è soprattutto Sheffi Paz, la leader del cosiddetto Fronte di liberazione del sud di Tel Aviv nato per cacciare via i richiedenti asilo. Paz, 62 anni, era una pacifista negli anni Ottanta e Novanta e unattivista dei diritti degli omosessuali, ora è passa gran parte del suo tempo a spiegare, davanti a telecamere e registratori, che Israele «deve liberarsi di un pericolo che a rischio la sua esistenza e il suo carattere ebraico». A gettare benzina è anche lastro nasscente dellestrema destra sociale May Golan che alle manifestazioni contro i migranti, urlando nel megafono, proclama «sì, sono una razzista». Lopposizione resta muta, timorosa di perdere consensi denunciando il clima che la destra sta alimentando nel sud di Tel Aviv.
«Occorre riconoscere che il premier e i suoi ministri sono espressione di una società israeliana nazionalista e che non sembra avere interesse per la difesa anche soltanto dei principi minimi della democrazia», ci dice Dror Ektes, un attivista di sinistra. «La situazione si è fatta esplosiva ed è grave che il premier sia andato alla periferia di Tel Aviv non a promettere lavoro, case migliori e la fine del degrado agli abitanti ma ad alimentare la loro rabbia contro i richiedenti asilo, allo scopo anche di guadagnare lappoggio degli strati popolari in un momento per lui difficile», aggiunge Ektes riferendosi ai guai con la giustizia che sta affrontando Netanyahu, al centro di inchieste giudiziarie che lo interessano direttamente o indirettamente. Senza dimenticare quella che coinvolge la moglie Sarah che presto potrebbe essere incriminata per frode.
Jibril Diraije, un rifugiato sudanese di 26 anni, entrato clandestinamente in Israele tre anni fa, dei guai di Netanyahu non sa nulla. Sa solo che deve evitare larresto e lespulsione. Con una frase spiega tutto. «Se torno in Sudan sono morto».
© 2017 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

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