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La VOCE ANNO XX N°3

novembre 2017

PAGINA D         - 36

Giancarlo Paciello
No alla globalizzazione dell’indifferenza.

ISBN 978-88-7588-193-1, 2017, pp. 448, formato 170x240 mm., Euro 30 – Collana “Divergenze” [55].
Da un’intelligente considerazione della figlia – nel quadro degli avvenimenti che portarono all’assassinio di Gheddafi nel 2011 – muove la promessa paterna: esplicitare la propria concezione universalistica in opposizione all’uso strumentale della teoria dei “diritti umani”. La contrapposizione viene contestualizzata nel lungo excursus che va dalla prima guerra mondiale ai giorni nostri: vi si denuncia l’astratta concezione che vorrebbe un Occidente civile e un Oriente barbaro. I contributi di storici come Hobsbawm e Bontempelli e di sociologi come Wallerstein e Zolo, permettono all’autore di affrontare il problema dell’universalismo con un respiro molto ampio. Certo di scrivere un libro che costituisce un lascito se non per le generazioni a venire sicuramente per la figlia, l’autore descrive il capitalismo nel suo divenire (gli anni della sua formazione, l’intera guerra fredda e l’avvio della globalizzazione), l’invadenza sempre più forte dell’economia (le cui origini vengono presentate con riferimento a Aristotele e Polanyi), e con l’ausilio del filosofo Preve s’interroga sulla natura dell’universalismo. Nel colloquio con un giovane amico prova a definirne le caratteristiche e passa poi, con due argomentazioni potenti di Zolo e di Wallerstein, alla critica di quello che, nelle conclusioni, definisce «un universalismo “farlocco”». Questa parte si conclude con il racconto della nascita delle Nazioni Unite. La riflessione di Massimo Livi Bacci con Il pianeta stretto e la dirompente Enciclica di Papa Francesco Laudato si’, lo ha sollecitato ad andare oltre. Fa così la comparsa l’ecologia. Tutto ciò inserito nel quadro della critica al capitalismo assoluto di oggi. Da Laudato si’, emerge una figura, un concetto, una prospettiva, «l’ecologia integrale» che denuncia lo strapotere delle tecnoscienze e del dio-denaro. E prorompe il recupero della natura, con i suoi tempi e le sue specificità, la sua biodiversità che necessita di un’armonizzazione reale dell’uomo con l’ambiente in cui vive.

Il titolo del libro ha raccolto e fatto suo l’urlo del papa a Lampedusa. L’insensatezza del mondo in cui viviamo, trova la sua ragione essenziale nel modo di produzione capitalistico, fondato sulla crescita illimitata di merci e servizi, che ha creato una disuguaglianza estrema tra poveri e ricchi e ha ridotto miliardi di persone in povertà. L’economia si è trasformata in crematistica: guai a non recuperare il senso della misura, restituendo alle donne e agli uomini della terra la dignità perduta, guai ad arrendersi.

Il libro si chiude con una proposta per riaprire il dialogo tra le tre più importanti ideazioni dell’umanità, religione, filosofia e scienza e in particolare tra scienza e filosofia in una battaglia contro il modello dominante di economia, quella neoclassica, che ha usurpato il titolo di scienza economica pur essendo soltanto una pseudoscienza.

CONSIDERAZIONI SUL LIBRO DI GIANCARLO PACIELLO: “NO ALLA GLOBALIZZAZIONE DELL’INDIFFERENZA”, SUL CONCETTO DI “ECOLOGIA INTEGRALE”, SULL’ENCICLICA PAPALE “LAUDATO SI”, SULLE RELAZIONI TRA FILOSOFIA, SCIENZA, RELIGIONE, ECONOMIA, MORALE, E MOLTO ALTRO.

Tenterò di fare alcune considerazioni sul libro di Giancarlo che ho trovato ovviamente molto interessante, ricco e stimolante, e che invito tutti a leggere. Sono considerazioni necessariamente schematiche in quanto il libro – di quasi 450 pagine – è talmente ricco di citazioni, informazioni, opinioni e giudizi, che è difficile rispondere a tutto. Terrò conto anche delle risposte date da Giancarlo ad alcune domande sul libro rivoltegli da Federico Roberti, alias “bye bye uncle sam” (vedi allegati 1 e 2).
Comincerò quindi ad accennare brevemente alle cose su cui sono d’accordo:
-penso sia da condividere la frase riassuntiva citata a pag. 377, tratta, se non sbaglio, da uno dei documenti preparatori della Conferenza di Rio del 1992, in cui si afferma che: “l’obiettivo fondamentale della comunità mondiale potrebbe essere espresso come segue: porre le basi di una possibile vita dignitosa e confortevole per tutti i cittadini del mondo” includendo esplicitamente entrambi i sessi. Negli stessi documenti si parla anche di azioni atte ad eliminare la miseria, e di mettere tutte le risorse possibili al servizio di tutti in modo sostenibile.
-Penso sia da condividere anche il concetto (purtroppo spesso abusato e manipolato da pseudo-ecologisti) di “sviluppo sostenibile”, inteso come uno sviluppo che renda possibile una vita dignitosa, non solo alla nostra, ma anche alle future generazioni (pag. 155).
Si parla, a pag. 374, anche dell’instaurazione di un “nuovo ordine internazionale”, ma in questo caso la cosa appare abbastanza fumosa e non ben definita. Quale ordine? Il socialismo? Un mercato capitalista umanizzato? Su questo torneremo più avanti.
-Penso siano da condividere anche alcuni obiettivi del cosiddetto Vertice del Millennio del 2000 (eliminazione della povertà, istruzione superiore universale, parità dei sessi, sostenibilità ambientale), ribaditi nel successivo Vertice del 2015 in sede ONU, alla presenza del Papa (lotta alla povertà, parità per le donne, fame zero). Più ambigua è la parola d’ordine di “sinergie pubblico-privato”, su cui torneremo.
-Penso sia da condividere anche la nota frase di Marx, citata a pag. 240-41, in cui si afferma che: “un’intera società, una nazione, tutte le società contemporaneamente messe insieme, non sono proprietarie della Terra. Esse sono solo i suoi possessori, i suoi usufruttuari, e la debbono tramandare, migliorata, come buoni padri di famiglia, alle generazioni successive.
-Penso che Giancarlo abbia ragione nel temere che la crescita demografica incontrollata, la possibile futura scarsità di materie prime indispensabili, lo sviluppo incontrollato di tecnologie devastanti ed inquinanti, possano portare ad un collasso delle condizioni naturali indispensabili ad una vita dignitosa per l’umanità. Engels ha espresso concetti analoghi nella sua opera “Dialettica della Natura” quando scrive (facendo uso di una metafora) che la Natura “si vendica” se facciamo scelte tecnologiche e scientifiche sbagliate (pag. 294).
Passiamo, ora, ad una serie di considerazioni di Giancarlo che, invece, non mi convincono, dato che evidentemente partiamo da impostazioni culturali e filosofiche molto diverse, e su cui bisogna essere molto chiari ad evitare ambiguità, ipocrisie e zone d’ombra.
1. Ancora Aristotele? Qualche sintetica considerazione filosofica/.
Giancarlo cita in senso positivo varie volte Aristotele (pag. 25 e seg., pag. 67 e seg.) che distingue tra una presunta economia “naturale”, che coincide per il filosofo con l’amministrazione della casa (“oikos”), ispirata all’autosufficienza, e la “crematistica”, ovvero la produzione di beni (“kremata”). Se la crematistica è utilizzata per l’economia della casa, è giusta, ma se è utilizzata per accumulare ricchezza è da condannare come contro natura (pag. 27 e pag. 75).
Ovviamente, per me, qui si tratta del tipico idealismo metafisico di Aristotele, derivato dal suo maestro Platone, condito per di più di moralismo. Non esiste ovviamente nessuna economia “naturale”. Le varie forme di economia sono sempre artificiali, cioè create dall’uomo per sopravvivere e vivere meglio nell’ambiente naturale. Aristotele, invece di esaminare e studiare le concrete economie del suo tempo (l’economia feudale di Sparta dove gli aristocratici Lacedemoni sfruttavano il lavoro dei servi della gleba, gli Iloti; o quella capitalistica di Atene dove gli imprenditori armavano flotte, sfruttavano le miniere d’argento del Laurio, importavano grano dall’odierna Ucraina, commerciavano con la Fenicia o l’Egitto; ecc.), ed invece di descrivere le diverse classi sociali ed i relativi conflitti, si inventa degli schemi metafisici non derivati dall’esperienza.
Ancora peggio è se si considera l’atteggiamento di Aristotele verso la schiavitù, allora molto diffusa. Per lui lo schiavo non ha caratteristiche umane (il famoso “intelletto attivo” di cui sarebbe dotato l’uomo) ma è “una macchina semovente”. Anche Giancarlo (pag. 74) riconosce che il filosofo considera “naturale” la schiavitù. Che
Giancarlo invochi l’autorità dello schiavista Aristotele, della sua piccola economia della casa , e della sua polemica anti-borghese sull’accumulo della ricchezza (fatta però da posizioni moralistico-conservatrici, se non francamente reazionarie) è sorprendente.
Il fatto è meno sorprendente, però, se si considera che Giancarlo si dichiara religioso (con particolare riferimento alla Chiesa Cattolica, a giudicare dai continui riferimenti a varie Encicliche Papali, a vari autori cattolici, ed alla filosofia di tipo aristotelico-“scolastico” che è stata la filosofia ufficiale della Chiesa per molto tempo). Egli sottolinea che la cultura cristiana è anticrematistica (pag. 28), e considera una vita dedita al denaro come innaturale (pag. 29). Sono continui i riferimenti a Sant’Agostino (pag. 30), a Tommaso d’Aquino (pag. 31), all’Enciclica di Leone XIII “Rerum Novarum” (pag 31), alla necessità di una nuova spinta utopica messianica (pag. 33). A pag. 81 si parla anche di “Ricerca del Bene e della Verità”. Ne riparleremo nei paragrafi seguenti e nelle conclusioni.
2. La questione delle entità “universali”, del relativismo filosofico, e della scienza sperimentale ed induttiva:
Ma, visto che si parla di filosofia, esamino un altro punto che non mi ha convinto, quello in cui si parla di presunti concetti, valori ed entità “universali” (l’Universalismo Universale, per usare un’espressione derivata, se ho ben capito, dal sociologo Immanuel Wallerstein) contrapposti al falso universalismo della globalizzazione capitalista (pag 55 e seg.).
Anche in questo caso ritengo che il credere nell’esistenza di “universali” sia tipico di una filosofia idealista, metafisica e “scolastica”. Correttamente Giancarlo ricorda la figura del filosofo della grande corrente “nominalistica” medioevale Guglielmo di Occam , che era un monaco francescano inglese ed un credente, ma che negava l’esistenza degli “universali” (così come il monaco francese Roscellino, Abelardo, poi Hobbes, e nell’antica Grecia Antistene, filosofo ferocemente antiplatonico e fondatore della scuola Cinica)). L’universale è solo un “nome” che usiamo per collegare una serie di oggetti reali: vi sono uomini bianchi e neri, maschi e femmine, giovani e vecchi, vivi o morti, alti o bassi, ecc., ma noi per comodità li indichiamo con un solo nome: “uomo” cui corrisponde un concetto generale, non metafisico ma strettamente derivato dall’esperienza di tante singole entità similari. Non a caso Occam, perseguitato dal papa e critico verso la filosofia “scolastica” aristotelica di Tommaso, è famoso per il suo “rasoio” con cui voleva tagliare via tutta la superflua metafisica aristotelica da sostituire con una filosofia e una scienza legate all’esperienza, ben distinta dalla fede, che per lui era tutta un’altra questione.
L’amore di Giancarlo per la metafisica lo porta ovviamente a frequenti critiche contro il “relativismo” filosofico (pag. 59) ed a fornire astratte definizioni aristoteliche su una presunta “essenza dell’uomo” (pag. 59-61), senza descriverci come l’uomo si è concretamente formato in seguito all’evoluzione ed alla cultura, e come potrebbe ulteriormente trasformarsi. Ovviamente i suoi bersagli preferiti sono filosofi empiristi ed illuministi come David Hume o come Helvetius che vorrebbe fondare la morale sull’esperienza (pag. 314-315).
Su Hume Giancarlo torna nelle conclusioni, a pag. 428, accusandolo, in accordo con le citazioni di Costanzo Preve, di opporsi al dialogo tra filosofia, scienza e religione, di non sopportare “l’idea di una verità filosofica universalistica” e addirittura di avere una “strategia teorica di auto-fondazione su sé stessa della società capitalistica”.
Da parte mia non posso fare a meno di difendere Hume, esponente di quella grande corrente filosofica empirista, basata cioè sull’esperienza fenomenica, che, partendo dallo stesso credente Occam, passando per Francesco Bacone e John Locke, approdando poi in Francia con l’intelligente abate illuminista Condillac, ecc. , ha posto le basi filosofiche per la grande stagione della scienza sperimentale “induttiva” moderna, basata sugli esperimenti e sulla risalita alle leggi generali dai casi reali particolari.
Ne sono stati grandi esponenti Galilei e Newton, entrambi credenti, ma che sapevano perfettamente quale era il ruolo della scienza basata sull’osservazione della realtà e quale quello della religione e delle Verità rivelate. Galilei lo ha pagato con la condanna e l’imposizione dell’abiura. Un altro sostenitore delle teorie eliocentriche copernicane, Giordano Bruno, è stato bruciato vivo a Campo dei Fiori.
Hume è interessante perché egli stesso ci mette in guardia sui limiti della ragione e del metodo basato sull’esperienza, che non può darci certezze assolute, ma, d’altra parte, questo metodo è l’unica cosa concreta che abbiamo, pur con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti. Ci torneremo anche nelle conclusioni.
Giancarlo accusa Hume di essere esponente della cultura borghese capitalista, e questo è vero. La stagione dell’empirismo inglese si è accompagnata alle prime rivoluzioni tendenzialmente “borghesi” dell’età moderna, quelle del 1642-49 e del 1688, e preceduta dalla Riforma Protestante che ne ha segnato il primo innesco. Gli Inglesi sono stati i primi a tagliare la testa ad un re (Carlo I Stuart) e ad inventare il compromesso costituzionale. Poi ci hanno pensato i Francesi con la Rivoluzione del 1789, che Giancarlo sembra apprezzare, anche se indubbiamente anch’essa rivoluzione borghese, preceduta, non a caso, dalla grande stagione illuminista francese.
Qualche parola anche su un altro pensatore della borghesia inglese, empirista e materialista, contro cui Giancarlo indirizza i suoi strali (pag. 66, pag.277). Thomas Hobbes ritiene che per uscire dallo stato di ferinità ancestrale (“homo homini lupus”) gli uomini trovino conveniente stringere patti e convenzioni delegando il potere ad un’entità statuale. A molti è sfuggito il significato rivoluzionario, ed al limite democratico, di questa visione, in cui la legittimità del potere è basata sul consenso degli uomini divenuti cittadini. Si tratta quindi di un potere revocabile, in un’epoca in cui i re ancora dichiaravano di governare per diritto divino. Ovviamente questa visione non prende in considerazione fantomatici “diritti naturali” dell’uomo in natura. La natura ovviamente non conosce “diritti”. I diritti ce li fabbrichiamo da soli, e non è detto che siano diritti borghesi, come quello di proprietà. L’umanità potrebbe rivendicare diritti diversi, ad esempio di stampo socialista.
Buttare a mare questo gigantesco sforzo culturale, scientifico e politico, senza cercare di trasformarlo ed utilizzarlo a favore di una prospettiva politica diversa, sarebbe follia. Al paragrafo successivo ne do un esempio a proposito del pensiero di Marx.
3. Valore di scambio, valore d’uso, valore intrinseco della natura, plusvalore:
A pag. 275 e seg. Giancarlo riporta un lungo ragionamento di Hans Immler sulla differenza tra Valore di scambio e Valore d’uso di un oggetto, differenza – com’è noto – già ampiamente trattata da Marx. Nel primo caso si considera l’oggetto come merce cui si dà un valore economico. Nel secondo caso si parla del valore che l’oggetto ha per chi lo usa.
Immler ricorda che è stato Adam Smith, il padre dell’economia capitalista classica, a ritenere che il valore (di scambio) corrisponda al lavoro umano che è stato incorporato nell’oggetto per produrlo (teoria del valore-lavoro). Poi si lancia, seguito da Giancarlo in queste sue considerazioni, nella presentazione di un terzo più autentico valore, quello intrinseco “naturale” degli elementi della Natura, indipendente dagli uomini e dallo stesso valore d’uso, come già ritenuto da Sant’Agostino. Immler giunge a parlare di “diritti della Natura” (pag. 291) e di beni che appartengono alla Natura (pag. 292) e se la prende con tutti gli scienziati che seguono la filosofia di appropriazione della natura (compresi Newton e Cartesio, pag. 279). Lo stesso Marx è accusato di essere interno alla tradizione economica (pag. 284).
Naturalmente tutto questo sa di metafisica idealistica, visto che la Natura non conosce “valori”: glieli assegniamo noi, siano essi d’uso o di scambio o di altro tipo. Ma ci interessa sottolineare un altro aspetto. Immler e Giancarlo sembrano apprezzare il concetto di “plusvalore” elaborato da Marx nel “Capitale” che disvela lo sfruttamento capitalistico in quanto è quella parte di valore di cui il capitalista si impossessa (pag. 287). Ma la teoria del plusvalore deriva direttamente dalla teoria del valore-lavoro di Smith, ripresa da Ricardo. Così Marx utilizza l’economia classica capitalistica, evitandone le più evidenti imposture (come quella della “mano nascosta” che regola l’economia di mercato, pure dovuta a Smith), per impostare, invece, un discorso “scientifico” su sfruttamento ed ingiustizia sociale. Tutto il “Capitale”, l’opera più importante di Marx, è impostata come opera “scientifica”, in gran parte derivata dall’economia “classica”. Tanto è vero che nella seconda metà dell’800 i capitalisti abbandonano l’economia “classica”, rivelatasi ideologicamente pericolosa, e ricorrono all’economia “neo-classica” impostata su altri principi, che è quella che si studia oggi all’Università.
Potrebbero farsi altri esempi banali di come scienza e tecnologia borghese, con le dovute cautele, possono essere utilizzate in altro modo. Stalin industrializzò l’Unione Sovietica con le tecnologie tradizionali e i Piani Quinquennali, cosa che gli permise di vincere la Grande Guerra Patriottica contro il Nazismo e di resistere alle pressioni occidentali nella Guerra Fredda. La Cina sta uscendo dal sottosviluppo e dalla povertà usando tecnologie, per ora, mutuate dal mondo capitalista.

Leggi tutto. Il giorno 2 dicembre a Roma ci sarà la presentazione del libro e aggiungeremo sia le risposte dell’autore che gli altri interventi che raccoglieremo in merito.

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