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La VOCE 1711 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XX N°3 | novembre 2017 | PAGINA D - 36 |
Giancarlo Paciello |
Giancarlo invochi l’autorità dello schiavista Aristotele, della sua piccola economia della casa , e della sua polemica anti-borghese sull’accumulo della ricchezza (fatta però da posizioni moralistico-conservatrici, se non francamente reazionarie) è sorprendente. Il fatto è meno sorprendente, però, se si considera che Giancarlo si dichiara religioso (con particolare riferimento alla Chiesa Cattolica, a giudicare dai continui riferimenti a varie Encicliche Papali, a vari autori cattolici, ed alla filosofia di tipo aristotelico-“scolastico” che è stata la filosofia ufficiale della Chiesa per molto tempo). Egli sottolinea che la cultura cristiana è anticrematistica (pag. 28), e considera una vita dedita al denaro come innaturale (pag. 29). Sono continui i riferimenti a Sant’Agostino (pag. 30), a Tommaso d’Aquino (pag. 31), all’Enciclica di Leone XIII “Rerum Novarum” (pag 31), alla necessità di una nuova spinta utopica messianica (pag. 33). A pag. 81 si parla anche di “Ricerca del Bene e della Verità”. Ne riparleremo nei paragrafi seguenti e nelle conclusioni. 2. La questione delle entità “universali”, del relativismo filosofico, e della scienza sperimentale ed induttiva: Ma, visto che si parla di filosofia, esamino un altro punto che non mi ha convinto, quello in cui si parla di presunti concetti, valori ed entità “universali” (l’Universalismo Universale, per usare un’espressione derivata, se ho ben capito, dal sociologo Immanuel Wallerstein) contrapposti al falso universalismo della globalizzazione capitalista (pag 55 e seg.). Anche in questo caso ritengo che il credere nell’esistenza di “universali” sia tipico di una filosofia idealista, metafisica e “scolastica”. Correttamente Giancarlo ricorda la figura del filosofo della grande corrente “nominalistica” medioevale Guglielmo di Occam , che era un monaco francescano inglese ed un credente, ma che negava l’esistenza degli “universali” (così come il monaco francese Roscellino, Abelardo, poi Hobbes, e nell’antica Grecia Antistene, filosofo ferocemente antiplatonico e fondatore della scuola Cinica)). L’universale è solo un “nome” che usiamo per collegare una serie di oggetti reali: vi sono uomini bianchi e neri, maschi e femmine, giovani e vecchi, vivi o morti, alti o bassi, ecc., ma noi per comodità li indichiamo con un solo nome: “uomo” cui corrisponde un concetto generale, non metafisico ma strettamente derivato dall’esperienza di tante singole entità similari. Non a caso Occam, perseguitato dal papa e critico verso la filosofia “scolastica” aristotelica di Tommaso, è famoso per il suo “rasoio” con cui voleva tagliare via tutta la superflua metafisica aristotelica da sostituire con una filosofia e una scienza legate all’esperienza, ben distinta dalla fede, che per lui era tutta un’altra questione. L’amore di Giancarlo per la metafisica lo porta ovviamente a frequenti critiche contro il “relativismo” filosofico (pag. 59) ed a fornire astratte definizioni aristoteliche su una presunta “essenza dell’uomo” (pag. 59-61), senza descriverci come l’uomo si è concretamente formato in seguito all’evoluzione ed alla cultura, e come potrebbe ulteriormente trasformarsi. Ovviamente i suoi bersagli preferiti sono filosofi empiristi ed illuministi come David Hume o come Helvetius che vorrebbe fondare la morale sull’esperienza (pag. 314-315). Su Hume Giancarlo torna nelle conclusioni, a pag. 428, accusandolo, in accordo con le citazioni di Costanzo Preve, di opporsi al dialogo tra filosofia, scienza e religione, di non sopportare “l’idea di una verità filosofica universalistica” e addirittura di avere una “strategia teorica di auto-fondazione su sé stessa della società capitalistica”. Da parte mia non posso fare a meno di difendere Hume, esponente di quella grande corrente filosofica empirista, basata cioè sull’esperienza fenomenica, che, partendo dallo stesso credente Occam, passando per Francesco Bacone e John Locke, approdando poi in Francia con l’intelligente abate illuminista Condillac, ecc. , ha posto le basi filosofiche per la grande stagione della scienza sperimentale “induttiva” moderna, basata sugli esperimenti e sulla risalita alle leggi generali dai casi reali particolari. Ne sono stati grandi esponenti Galilei e Newton, entrambi credenti, ma che sapevano perfettamente quale era il ruolo della scienza basata sull’osservazione della realtà e quale quello della religione e delle Verità rivelate. Galilei lo ha pagato con la condanna e l’imposizione dell’abiura. Un altro sostenitore delle teorie eliocentriche copernicane, Giordano Bruno, è stato bruciato vivo a Campo dei Fiori. Hume è interessante perché egli stesso ci mette in guardia sui limiti della ragione e del metodo basato sull’esperienza, che non può darci certezze assolute, ma, d’altra parte, questo metodo è l’unica cosa concreta che abbiamo, pur con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti. Ci torneremo anche nelle conclusioni. Giancarlo accusa Hume di essere esponente della cultura borghese capitalista, e questo è vero. La stagione dell’empirismo inglese si è accompagnata alle prime rivoluzioni tendenzialmente “borghesi” dell’età moderna, quelle del 1642-49 e del 1688, e preceduta dalla Riforma Protestante che ne ha segnato il primo innesco. Gli Inglesi sono stati i primi a tagliare la testa ad un re (Carlo I Stuart) e ad inventare il compromesso costituzionale. Poi ci hanno pensato i Francesi con la Rivoluzione del 1789, che Giancarlo sembra apprezzare, anche se indubbiamente anch’essa rivoluzione borghese, preceduta, non a caso, dalla grande stagione illuminista francese. Qualche parola anche su un altro pensatore della borghesia inglese, empirista e materialista, contro cui Giancarlo indirizza i suoi strali (pag. 66, pag.277). Thomas Hobbes ritiene che per uscire dallo stato di ferinità ancestrale (“homo homini lupus”) gli uomini trovino conveniente stringere patti e convenzioni delegando il potere ad un’entità statuale. A molti è sfuggito il significato rivoluzionario, ed al limite democratico, di questa visione, in cui la legittimità del potere è basata sul consenso degli uomini divenuti cittadini. Si tratta quindi di un potere revocabile, in un’epoca in cui i re ancora dichiaravano di governare per diritto divino. Ovviamente questa visione non prende in considerazione fantomatici “diritti naturali” dell’uomo in natura. La natura ovviamente non conosce “diritti”. I diritti ce li fabbrichiamo da soli, e non è detto che siano diritti borghesi, come quello di proprietà. L’umanità potrebbe rivendicare diritti diversi, ad esempio di stampo socialista. Buttare a mare questo gigantesco sforzo culturale, scientifico e politico, senza cercare di trasformarlo ed utilizzarlo a favore di una prospettiva politica diversa, sarebbe follia. Al paragrafo successivo ne do un esempio a proposito del pensiero di Marx. 3. Valore di scambio, valore d’uso, valore intrinseco della natura, plusvalore: A pag. 275 e seg. Giancarlo riporta un lungo ragionamento di Hans Immler sulla differenza tra Valore di scambio e Valore d’uso di un oggetto, differenza – com’è noto – già ampiamente trattata da Marx. Nel primo caso si considera l’oggetto come merce cui si dà un valore economico. Nel secondo caso si parla del valore che l’oggetto ha per chi lo usa. Immler ricorda che è stato Adam Smith, il padre dell’economia capitalista classica, a ritenere che il valore (di scambio) corrisponda al lavoro umano che è stato incorporato nell’oggetto per produrlo (teoria del valore-lavoro). Poi si lancia, seguito da Giancarlo in queste sue considerazioni, nella presentazione di un terzo più autentico valore, quello intrinseco “naturale” degli elementi della Natura, indipendente dagli uomini e dallo stesso valore d’uso, come già ritenuto da Sant’Agostino. Immler giunge a parlare di “diritti della Natura” (pag. 291) e di beni che appartengono alla Natura (pag. 292) e se la prende con tutti gli scienziati che seguono la filosofia di appropriazione della natura (compresi Newton e Cartesio, pag. 279). Lo stesso Marx è accusato di essere interno alla tradizione economica (pag. 284). Naturalmente tutto questo sa di metafisica idealistica, visto che la Natura non conosce “valori”: glieli assegniamo noi, siano essi d’uso o di scambio o di altro tipo. Ma ci interessa sottolineare un altro aspetto. Immler e Giancarlo sembrano apprezzare il concetto di “plusvalore” elaborato da Marx nel “Capitale” che disvela lo sfruttamento capitalistico in quanto è quella parte di valore di cui il capitalista si impossessa (pag. 287). Ma la teoria del plusvalore deriva direttamente dalla teoria del valore-lavoro di Smith, ripresa da Ricardo. Così Marx utilizza l’economia classica capitalistica, evitandone le più evidenti imposture (come quella della “mano nascosta” che regola l’economia di mercato, pure dovuta a Smith), per impostare, invece, un discorso “scientifico” su sfruttamento ed ingiustizia sociale. Tutto il “Capitale”, l’opera più importante di Marx, è impostata come opera “scientifica”, in gran parte derivata dall’economia “classica”. Tanto è vero che nella seconda metà dell’800 i capitalisti abbandonano l’economia “classica”, rivelatasi ideologicamente pericolosa, e ricorrono all’economia “neo-classica” impostata su altri principi, che è quella che si studia oggi all’Università. Potrebbero farsi altri esempi banali di come scienza e tecnologia borghese, con le dovute cautele, possono essere utilizzate in altro modo. Stalin industrializzò l’Unione Sovietica con le tecnologie tradizionali e i Piani Quinquennali, cosa che gli permise di vincere la Grande Guerra Patriottica contro il Nazismo e di resistere alle pressioni occidentali nella Guerra Fredda. La Cina sta uscendo dal sottosviluppo e dalla povertà usando tecnologie, per ora, mutuate dal mondo capitalista. Leggi tutto. Il giorno 2 dicembre a Roma ci sarà la presentazione del libro e aggiungeremo sia le risposte dellautore che gli altri interventi che raccoglieremo in merito. |
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