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La VOCE ANNO XIX N°10

giugno 2017

PAGINA 8

CELEBRAZIONE DELL’OTTANTESIMO DELLA MORTE DI ANTONIO GRAMSCI
GRAMSCI E L’EGEMONIA. COMPLESSITÀ E TRASFORMAZIONE SOCIALE

di Alexander Höbel

Qual è, tra gli altri, il fattore forse decisivo della popolarità del pensiero e dell’opera di Gramsci presso un vasto pubblico, che va ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi e consente di parlare di una sorta di “ricezione di massa” della sua elaborazione? Qual è insomma “il segreto” della sua “egemonia” – relativa, certo – tra i pensatori politici della contemporaneità?

Certamente l’onda lunga della salvaguardia e valorizzazione del suo contributo teorico, dovuta in primo luogo a Palmiro Togliatti, al Pci, alle sue strutture di ricerca e ai suoi intellettuali, è tuttora alla base di questo successo, costituendo una sorta di rivincita postuma, a 25 anni dalla Bolognina, rispetto alla sciagurata liquidazione di quel grande partito.

Ma il motivo determinante mi pare stia proprio nella natura del pensiero di Gramsci che, più che come teorico della “rivoluzione in Occidente”, può essere definito un teorico della complessità dei processi di transizione, e dei processi di transizione in società complesse, articolate, più o meno avanzate. In questo senso la sua elaborazione costituisce davvero una pagina decisiva nell’evoluzione del marxismo; è tutta interna a quella concezione del mondo e della storia, e ne rappresenta – direi al pari del pensiero di Lenin – uno sviluppo fondamentale nel XX secolo.

Il legame con Lenin e col contributo teorico e pratico del grande rivoluzionario russo è essenziale1. Commentando gli sviluppi di quella Rivoluzione d’Ottobre di cui quest’anno ricorre il Centenario, nel 1920 Gramsci accenna all’esistenza di elementi “universali” nell’esperienza della Russia sovietica, enfatizzando in particolare il fatto che la classe operaia “si dimostra capace di costruire uno Stato”, riuscendo “a convincere la maggioranza della popolazione” che i suoi interessi “coincidono con quelli della maggioranza stessa”: in questo modo, dunque, le altre classi riconoscono il ruolo dirigente della classe operaia; attraverso il “convincimento”, esercitando cioè un’azione egemonica. Come è stato osservato, è qui che “Gramsci si avvicina per la prima volta al concetto di egemonia del bolscevismo”2. E questo legame rimarrà in piedi anche nel prosieguo della sua riflessione, allorché proprio sulla scorta dell’alleanza tra operai e contadini che aveva dato la vittoria alla Rivoluzione russa, sancendone capacità e forza egemonica, Gramsci porrà anche per l’Italia il tema dell’alleanza tra proletariato industriale e agricolo del Centro-Nord e masse contadine e bracciantili meridionali: quella “unità” che dà il nome al giornale del Pcd’I e che consente di porre anche nel nostro paese l’obiettivo del “governo operaio e contadino”3.

La classe operaia, insomma, ha per Gramsci il compito ha il compito «di organizzare politicamente tutte le classi oppresse intorno al proletariato comunista, e per ottenere ciò è necessario che di queste classi diventi il partito di governo in senso democratico». Svolga, cioè, ancora una volta, una funzione egemonica4.
È questa concezione che porta Gramsci ad approfondire la sua ricerca sulle “forze motrici” della rivoluzione italiana, dalle Tesi di Lione allo scritto sulla questione meridionale.

I comunisti torinesi – scrive in quest’ultimo testo – si erano posti concretamente la questione dell’“egemonia del proletariato”, cioè della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio. Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classi che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti in Italia, nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine.

Il che in Italia significava porsi e risolvere “la questione meridionale e la questione vaticana”, ossia il problema del rapporto con le masse cattoliche5. E ancora:

Nessuna azione di massa è possibile se la massa stessa non è convinta dei fini che vuole raggiungere e dei metodi da applicare. Il proletariato, per essere capace di governare come classe, deve spogliarsi di ogni residuo corporativo […]. Il metallurgico, il falegname, l’edile, ecc. devono non solo pensare come proletari e non più come metallurgico, falegname, edile, ecc., ma devono fare ancora un passo avanti: devono pensare come operai membri di una classe che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può vincere e può costruire il socialismo solo se aiutata e seguita dalla grande maggioranza di questi strati sociali. Se non si ottiene ciò, il proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati, che in Italia rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la direzione borghese, danno allo Stato la possibilità di resistere all’impeto proletario e di fiaccarlo6.

Egemonia significa dunque politica delle alleanze, ma anche sottrarre le classi lavoratrici all’influenza ideologica e politica delle classi dominanti, comprese le loro propaggini più avanzate. E qui si giunge al ruolo degli intellettuali. Essi – osserva Gramsci – “si sviluppano lentamente […] rappresentano tutta la tradizione culturale di un popolo, vogliono riassumerne e sintetizzarne tutta la storia”; ecco perché il “vecchio tipo di intellettuale” non riuscirà mai a “rompere con tutto il passato per porsi completamente sul terreno di una nuova ideologia”. Dal canto suo, il proletariato “è povero di elementi organizzativi, non ha e non può formarsi un proprio strato di intellettuali [da notare questa coincidenza nel lessico gramsciano tra organizzatori e intellettuali] che molto lentamente”; in senso proprio, aggiunge Gramsci, potrà farlo “solo dopo la conquista del potere statale”. E tuttavia è importante e utile che nella massa degli intellettuali si determini una frattura di carattere organico […] che si formi […] una tendenza di sinistra […] orientata verso il proletariato rivoluzionario. L’alleanza tra proletariato e masse contadine esige questa formazione […]. Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti, sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario.

Sono concetti di grande attualità. Anche oggi, per costruire un blocco sociale alternativo alle classi dominanti, le forze che mirano a organizzare le classi lavoratrici devono “disgregare il blocco intellettuale” avversario, demistificarne l’ideologia, smascherarne le bugie.

Com’è noto, tutti questi spunti vengono sviluppati da Gramsci nei Quaderni del carcere. Qui in particolare il nodo centrale è la complessità del potere: l’idea dello Stato come somma di “società politica” (luogo del governo, e dunque del dominio, della coercizione e della forza) e “società civile” (spazio dell’egemonia e del consenso, e dunque della lotta per l’egemonia)7. Su questa base, che gli consente di superare ogni impostazione economicistica o “quarantottesca” e giacobina della lotta politica, Gramsci approfondisce il tema della differenza tra Oriente e Occidente, dove “nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”8. Ecco allora che la rivoluzione in Occidente richiede una lunga e complessa “guerra di posizione”. Tuttavia, per Gramsci la lotta per l’egemonia è essenziale in tutte le società complesse, e ancora una volta egli si riallaccia a Lenin il quale ha “rivalutato il fronte di lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teoria dello Stato-forza”9.

In questo quadro il Partito stesso è per Gramsci un “apparato egemonico”, che “crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza”, e un partito si costruisce anche attraverso un intenso, continuo e “molecolare” dibattito, “da cui nasce una volontà collettiva e un certo grado di omogeneità”10. Una concezione all’origine della definizione del Partito – da Togliatti ricondotta a Gramsci – come “intellettuale collettivo”.

Tale partito, prima della presa del potere politico, deve combattere per l’egemonia nella società civile, che significa egemonia sul piano ideologico e culturale, ma significa anche conquistare – durante una lunga “guerra di posizione” che si alterna a fasi di “guerra di movimento” – quelle “casematte”, quelle trincee, quella miriade di piccoli e grandi centri di potere (o di resistenza) popolare che sono i sindacati, le cooperative, i Comuni, le associazioni11, e tutto il reticolo di strutture che rendono oggi la nostra società civile immensamente più complessa di quella dell’epoca di Gramsci. È nel corso di questo processo che la classe subalterna “diviene soggetto storico”, classe per sé; comincia cioè a diventare classe dirigente e pone le basi per diventare anche classe dominante12, ossia per conquistare il potere politico sulla base del consenso e di una condivisione di massa, espressione di un nuovo “blocco storico”. In questa lotta egemonica il proletariato non solo costruisce una politica di alleanze, ma porta alla luce della coscienza politica quei cambiamenti che sono già avvenuti sul piano strutturale, dello sviluppo delle forze produttive, rendendo chiaro che anche la trasformazione politica e sociale è non solo possibile ma necessaria. In tale quadro, è chiaro che l’approccio rispetto ai potenziali alleati “l’unica possibilità concreta è il compromesso, poiché la forza può essere impiegata contro i nemici, non contro una parte di se stessi che si vuole rapidamente assimilare”13.

C’è in questa concezione, il riflesso dei dibattiti sul modo di cementare e sviluppare l’alleanza tra operai e contadini, su cui Lenin aveva sempre insistito14; così come sulla necessità di “un lungo lavoro educativo”15. E c’è in questa comune visione un’idea di transizione al socialismo come lungo e complesso “processo di apprendimento”, per dirla con Domenico Losurdo16; un processo di apprendimento di tipo politico, ma anche culturale, scientifico e tecnico, in cui il proletariato impara a governare e a trasformare la realtà, e al tempo stesso “insegna” ai suoi alleati, ne plasma una diversa coscienza. Non a caso Gramsci definisce il marxismo l’espressione delle “classi subalterne che vogliono educare se stesse all’arte di governo”, e il partito politico “scuola della vita statale”; e non a caso Gerratana ha letto nella teoria dell’egemonia l’idea di una “educazione permanente all’autogoverno” delle masse17.

Ma ancora più al fondo, in Gramsci c’è un’idea della complessità della transizione al socialismo che – come ha rilevato Jacques Texier – risale a Marx e ad Engels, il quale già nel 1895, decretando l’erroneità e il superamento delle concezioni “quarantottesche” della rivoluzione, ipotizzava che il proletariato “progredis[se] lentamente, di posizione in posizione in un combattimento duro, ostinato”, che ricorda tanto la gramsciana “guerra di posizione”. E aggiungeva: “Laddove si tratta di una trasformazione completa dell’organizzazione della società, bisogna che anche le masse collaborino, che abbiano già capito da sole di che cosa si tratta, perché intervengano con il corpo e con la vita”18.

Oggi proprio di un rinnovato protagonismo delle masse si avverte il bisogno, e il presupposto essenziale è la formazione di una nuova identità e coscienza collettiva dei lavoratori e delle lavoratrici – stabili e precari, italiani e immigrati – al di là di quella “coscienza corporativa” che la frammentazione della nostra società favorisce ed enfatizza. Ma per ottenere questo risultato è necessario proprio quel lungo lavoro egemonico che le organizzazioni che si richiamano al mondo del lavoro salariato devono reimparare a svolgere. E in questo l’insegnamento di Gramsci rimane imprescindibile.■

Note:

1- Cfr. L. Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1972.
2- [A. Gramsci], Due rivoluzioni, in “L’Ordine Nuovo”, 3 luglio 1920; G. Vacca, Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, Torino, Einaudi, 2017, pp. 30-31.
3- Ivi, p. 33.
4- [A. Gramsci], Due rivoluzioni, cit. Cfr. A. Lepre, Antonio Gramsci e la questione del potere (1919-1920), in “Il Movimento di liberazione in Italia”, 1968, n. 90, pp. 53-54.
5- A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Roma, Editori Riuniti, 1978, vol. III, p. 246.
6- Ivi, p. 251.
7- A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 763-64, 801.
8- Ivi, p. 866.
9- Ivi, p. 1235.
10- Ivi, p. 1058.
11- Ivi, pp. 1566-1567.
12- Ivi, pp. 2010-2011.
13- Ivi, pp. 1612-1613.
14- Cfr. ad es. V. I. Lenin, Rapporto sul lavoro nella campagna all’VIII Congresso del Partito comunista (bolscevico) di Russia [marzo 1919], in Id., Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1965, pp. 1271-1278.
15- V. I. Lenin, Successi e difficoltà del potere sovietico [marzo 1919], ivi, pp. 1228-1235.
16- D. Losurdo, Stalin, le delusioni del messianismo rivoluzionario e il mito della “rivoluzione tradita”, in Problemi della transizione al socialismo in URSS. Atti del convegno (Napoli, 21-23 novembre 2003), Napoli, La Città del Sole, 2004, pp. 65-66.
17- Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1320; V. Gerratana, Stato, partito, strumenti e istituti dell’egemonia nei “Quaderni del carcere”, in B. De Giovanni, V. Gerratana, L. Paggi, Egemonia Stato partito in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 51.
18- J. Texier, La guerra di posizione in Engels e in Gramsci, in Gramsci e la rivoluzione in Occidente, a cura di A. Burgio e A. Santucci, Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 8-19.

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