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La VOCE ANNO XIX N°10

giugno 2017

PAGINA 2         - 14

Nuova presidenza sudcoreana: speranze di dialogo?

di Diego Angelo Bertozzi

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

Mentre le elezioni presidenziali francesi hanno attirato una grande attenzione mediatica, con poco edificanti scivolamenti gossippari, quelle sudcoreane, terminate con la vittoria del candidato democratico Moon Jae-in, sono oggetto di riflessioni più specialistiche e solo superficialmente affrontate dalla stampa italiana. Eppure ci troviamo in un contesto geopolitico molto teso, quello che corre lungo il 38° parallelo, e sul quale, nelle settimane scorse, hanno soffiato venti di guerra, con tanto di movimenti di portaerei e minacce di attacco preventivo da parte degli Stati Uniti.

In questo contesto il risultato elettorale potrebbe avere proprio come conseguenza quella di “rasserenare” un poco il clima e abbassare il livello della tensione in un’area ad alta densità strategica. Il nuovo presidente sudcoreano non ha nascosto la volontà di riprendere il dialogo con la Corea del Nord, riadattando al nuovo contesto la linea diplomatica conosciuta come “Sunshine policy” che, annunciata nel 1997 dal progressista Kim Daejung, si proponeva di avviare una fase di coesistenza con la Corea popolare sulla base di tre principi: nessuna tolleranza nei confronti di provocazioni da parte del Nord; abbandono dell’idea di unificazione per “assorbimento” (diversamente, quindi, da quanto avvenuto in Germania) e di ogni altra misura che risultasse minacciosa; pacifico dialogo fra le due realtà statali della penisola coreana con promozione di scambi e cooperazione economica.
Di fatto si rinunciava pubblicamente a qualsiasi ipotesi di cambio di regime, tanto da porre le basi per lo storico incontro del giugno del 2000 con Kim Jong-il a Pyongyang con un comunicato finale favorevole all’obbiettivo della riunificazione pacifica. Poco prima le “misure del 30 aprile” avevano eliminato tutta una serie di limitazioni alla cooperazione economica, tra le quali la necessità di una approvazione preventiva del governo in materia di viaggi e soggiorni per affari.

Il tempo è passato e rispetto ad allora oggi la Corea popolare è di fatto uno Stato nucleare e si mostra politicamente stabile, nonostante le attese (e le speranze?) di un collasso imminente. Ma alcune dichiarazioni di Moon lasciano ben sperare. Se da una parte ha ribadito il secco no al programma nucleare nordcoreano e l’appoggio alle sanzioni decise in sede Onu, dall’altra ha manifestato l’intenzione di incontrare il giovane leader Kim Jong-un, per andare oltre la poco produttiva logica della contrapposizione totale, si è mostrato critico verso un eccessivo appiattimento sulla agenda di politica estera statunitense e, da questo punto di vista, critico nei confronti del dispiegamento del sistema antimissilistico Thaad – osteggiato anche a livello popolare - proprio perché rischia di riportare ad un clima da “cortina di ferro” con la vicina Cina popolare, principale partner economico di Seul e radicalmente contraria ad un sistema antimissilistico che ritiene indirizzato più contro di essa che alla difesa del territorio sudcoreano.

E proprio Pechino – nonostante recenti dissidi e accenni di boicottaggio economico - potrebbe essere un utile sostegno ad una versione aggiornata della “Sunshine policy” visto che quest’ultima da sempre sostiene un approccio meno muscolare alle questione del nucleare nordcoreano e propenso a chiedere lo stop a provocazioni di stampo militare a tutte le potenze interessate, riassunto recentemente con l’espressione/invito delle “due sospensioni”: la Corea del Nord sospende i test missilistici e nucleari, mentre Usa e Corea del Sud devono interrompere le esercitazioni militari congiunte.

Ma a pesare e limitare questo possibile sviluppo diplomatico c’è il fatto compiuto dell’installazione del sistema Thaad voluta dagli Usa pochi giorni prima delle elezioni. Non a caso, certamente.

MARIO ALBANESI:
"UN’UNICA COREA"

Pubblicato il 26 mag 2017
L’attuale presidente della Corea del sud Moon Jae-in ha mostrato di guardare lontano in direzione di una riunificazione con la la Corea del nord, una Nazione che sta sorprendendo tutto il mondo per il suo coraggio anti-imperialista.

Ordine di abbattere: le minacce USA nel Pacifico (e altrove)

di Luis Carapinha | da “Avante!”, Settimanale del Partito Comunista Portoghese

Traduzione di Marx21.it

“Solo Russia e Cina possono far fronte al ricatto e alle minacce. La cooperazione militare tra i due vicini è vitale anche per il mantenimento dell’equilibrio strategico”.

Tillerson e Pence hanno viaggiato per l’Asia Orientale lanciando l’avvertimento: “l’era della pazienza strategica degli Stati Uniti è finita”. La sconcertante sentenza è una minaccia diretta alla Corea del Nord, sostenuta dallo spiegamento nella zona di un’importante flotta da guerra e dalla realizzazione di manovre militari con la Corea del Sud.

Tuttavia, come è noto, il vero grattacapo per il potere di Washington è rappresentato da Pechino. L’intera operazione della scalata incendiaria e della frenetica dimostrazione globale di forza degli ultimi giorni ha, in sostanza, la Cina come destinatario. Trump ha voluto attaccare la Siria alla presenza di Xi Jinping – con un altro crimine di terrorismo di Stato e la sfrontata violazione del diritto internazionale, che ha causato la gioia degli araldi dell’ideologia dominante.

Contrariamente alle inebrianti aspettative di alcuni decenni fa a Wall Street, la Cina è emersa come un avversario economico virtualmente fatale. Certamente un partner difficile. Come colpire o, al limite, tagliare i legami senza incidere in modo insopportabile nella propria carne, è la domanda. Tanto più lacerante quanto più nitidamente si delinea l’orizzonte del declino, inesorabile, della superpotenza imperialista nel quadro del lungo processo di stagnazione e crisi strutturale del capitalismo.

In ogni caso, il teatro dell’imprevedibile intitolato al recente inquilino dell’amministrazione presidenziale degli USA ha allestito una brutale sceneggiatura di guerra. Come previsto, la bisettrice nella lotta intestina nel sistema di potere e nella classe dirigente degli Stati Uniti ha avuto come risultato più interventismo e militarismo. La sostanza estremamente reazionaria di Trump e del suo eclettico entourage (si dice che Goldman Sachs ormai stia al timone), in combinazione con l’insicurezza politica della figura del presidente, rende tutto più incandescente.

Con gli alleati della NATO allineati, la macchina bellicista degli Stati Uniti moltiplica i focolai di tensione, operando come gendarme del pianeta per conto proprio. Siria, Iraq – Medio Oriente -, Nord Africa. Afghanistan, penisola della Corea, Ucraina ed Europa dell’Est (a ridosso della Russia) sono solo i punti più caldi del festino bellico. Senza dimenticare l’America Latina con le minacce del Comando Sud di intervento in Venezuela in combutta con l’OSA.

Continua la modernizzazione della componente nucleare, la creazione di armi strategiche convenzionali e l’installazione del sistema offensivo antimissilistico, creando le condizioni per l’applicazione della dottrina di attacco immediato globale. Sul piano strettamente militare solo Russia e Cina possono far fronte al ricatto e alle minacce avanzate. La cooperazione militare tra i due vicini è vitale anche per il mantenimento dell’equilibrio strategico, e causa allarme nel Pentagono. In piena era nucleare, i pericoli per la pace nel mondo non possono essere sottovalutati. Gli applausi nell’UE al recente attacco contro la Siria sono un cattivo presagio. E’ necessario evitare che il dilagare della post-verità finisca per condurre il mondo nell’era della post-vita.

Cina, provocazione USA nelle acque di Spratly: tensione tra Pechino e Washington

Un cacciatorpediniere americano è entrato in una zona la sui sovranità è rivendicata dai cinesi: l’area è oggetto da tempo di un contenzioso
Michele Caltagirone Esperto di Cronaca
Pubblicato il:25 maggio 2017

Il cacciatorpediniere americano USS Dewey, il cui ingresso nelle acque Spratly fa crescere la tensione tra USA e Cina
Lo stato di calma apparente non deve trarre in inganno, ciò che succede in Estremo Oriente a seguito della crisi coreana è sempre piuttosto delicato. Ma stavolta il dittatore nordcoreano Kim Jong-un non c’entra nulla, perché quanto accaduto nel Mare Cinese meridionale è stata considerata dalla Cina una "provocazione pura" da parte di Washington, tale da far addirittura salire la tensione tra le due superpotenze.

Le acque contese


A causare il problema è stato il passaggio di un cacciatorpediniere statunitense, il USS Dewey, entro le 12 miglia di distanza da una delle isole artificiali realizzate dal governo cinese nelle acque Spratly.

Un’azione considerata ’minacciosa’ da Pechino che ha subito inviato i propri mezzi navali, due fregate, allo scopo di far allontanare il natante straniero. La Cina rivendica la propria sovranità su buona parte del Mare Cinese meridionale, nel quale ha costruito postazioni artificiali su scogli ed isolotti esistenti in grado, teoricamente, di ospitare basi e presidi militari. Nell’area rientrano anche specchi d’acqua che sono limitrofi alle coste di altri Paesi quali Vietnam, Filippine, Malesia e Taiwan. In base alla suddivisione territoriale, Pechino gestisce soltanto otto dei numerosissimi atolli dell’area che presenta, però, molte aree disabitate. Tra queste, una parte risulta controllata dalle Filippine, ma è attualmente contesa, altre ancora sono praticamente ’terra di nessuno’. Le acque contese sono state anche teatro di schermaglie militari, come quella del marzo 1988 tra le forze navali cinesi e vietnamite, nota in Cina come ’battaglia di Chigua’.

Nella circostanza, la marina cinese aveva intercettato unità navali del Vietnam nell’atto di sbarcare truppe su alcuni atolli ’non assegnati’. Le fregate cinesi aprirono il fuoco, affondando due unità navali di Hanoi: morirono 70 persone, tutti marinai vietnamiti.

La protesta ufficiale di Pechino


"Il cacciatorpediniere americano ha violato la nostra sovranità indiscussa sulle isole Spratly e le acque vicine - ha detto Ren Guoqiang, portavoce del Ministero della difesa di Pechino - ed una tale azione avrebbe potuto facilmente portare ad un incidente marittimo. Invitiamo pertanto gli Stati Uniti ad agire, al contrario, per lo sviluppo delle relazioni bilaterali". Da parte di Washington si parla invece del "diritto alla libertà di navigazione nelle acque contese". Gli Stati Uniti si sono sempre opposti all’annessione degli isolotti contesi alla Cina, invocando una soluzione diplomatica. "Soltanto nel 2016 - fanno sapere dal Pentagono - gli Stati Uniti hanno condotto operazioni di questo tipo nei pressi di 22 Stati costieri, tra cui numerosi alleati".

Ma da Pechino, ovviamente, non vogliono sentire ragioni. "L’azione americana mina la sovranità della Cina e la sua sicurezza", ha detto Lu Kang, portavoce del Ministero degli #Esteri. Ad onor del vero non è la prima volta che gli Stati Uniti lanciano un simbolico ’guanto di sfida’ alla Cina nelle acque di Spratly. Nel 2015, l’amministrazione Obama fece effettuare ai propri mezzi navali alcune perlustrazioni al limite delle 12 miglia dagli isolotti artificiali costruiti da Pechino, anche in quella circostanza si sfiorò l’incidente diplomatico.

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