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La VOCE 1702 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XIX N°6 | febbraio 2017 | PAGINA D - 36 |
Segue da Pag.32: La scomparsa del marxismo nella didattica e nella ricerca scientifica in economia politica in Italia Il periodo storico attuale non è un periodo particolarmente fecondo di nuove idee: è quello che Alessandro Roncaglia, nel suo testo La ricchezza delle idee (Roncaglia 2013), ha definito l’età della disgregazione». La ricerca in Economia, non solo in Italia, è sempre più frammentata e specialistica, e soprattutto sempre più “autistica”: gli economisti tendono a dialogare esclusivamente fra loro, spesso coprendo di sofisticati tecnicismi o montagne di matematica pure banalità, tautologie o, nella migliore delle ipotesi, teorie che non “spiegano” nulla, né hanno l’ambizione di farlo. Continua, e si accentua, perciò, l’egemonia del mainstream neoclassico- Non desta sorpresa il fatto che, nel caso italiano (e non solo), l’errore di previsione sul tasso di crescita negli ultimi sette anni è stato di circa 7 punti percentuali: le previsioni sono state sistematicamente sovrastimate. Si osservi che gli errori di previsione non riguardano scarti irrisori, ma spesso riguardano previsioni di crescita che, a posteriori, si rivelano recessioni. Ovvero riguardano errori di segno (valori positivi del tasso di crescita prevista che si rivelano Si è qui di fronte alla c.d. “domanda della Regina”: perché gli economisti, salvo rare eccezioni, non hanno previsto la crisi? La si chiama “domanda della Regina” perché fu la domanda che Elisabetta rivolse agli economisti della London School of Economics in occasione della sua visita a quella prestigiosa Istituzione nel novembre 2008, ricevendo risposte così insoddisfacenti da essere indotta a commentare con ironia che probabilmente c’era stata «un po’ di trascuratezza». E in effetti trascuratezza vi è stata, se si considera che la questione delle crisi economiche, nel paradigma di orientamento neo-liberista oggi dominante in Economia, è al margine del dibattito. In più, la visione dominante si fonda sulla convinzione che un’economia di mercato deregolamentata tende spontaneamente a produrre pieno impiego e, dunque, le crisi economiche possono derivare esclusivamente da interventi esterni, in particolare da politiche fiscali o monetarie sbagliate e più in generale, dall’intervento dello Stato. Occorre anche considerare il fatto che la sistematica incapacità di generare previsioni attendibili nuoce gravemente alla reputazione degli economisti (di tutti, dal momento che è ben difficile immaginare che i non addetti ai lavori distinguano tra le “scuole di pensiero”), perché crea il sospetto che vi sia un condizionamento politico che spinge i ricercatori a sovrastimare il tasso di crescita previsto per l’obiettivo di accrescere il consenso per il Governo di volta in volta in carica. Dunque, crea il sospetto che la ricerca, in Economia, non sia libera e risponda semmai a una domanda politica di legittimazione scientifica dell’ordine sociale esistente. Paradossalmente, si tratta di un sospetto ben fondato, per quanto detto prima, ma da riferirsi esclusivamente a una specifica tipologia di economista: colui/colei che elabora questi modelli. Se la questione si pone in questi termini, la domanda della Regina va così riformulata: perché gli economisti non utilizzano modelli diversi da quelli fin qui utilizzati per effettuare previsioni? Ovvero, perché non abbandonano teorie che si sono rivelate e si rivelano così manifestamente incapaci di prevedere? Una possibile risposta consiste nel considerare che la straordinaria capacità di resistenza del mainstream, e ancor più la sua capacità di rafforzarsi proprio nella fase nella quale si dimostrano palesemente i suoi fallimenti teorici, prescrittivi e previsionali, discende in parte proprio dal suo fallimento (quanto più è in difficoltà, tanto più si organizza per difendersi), in parte dalla difficoltà – da parte degli economisti non allineati – di proporre un corpus unitario alternativo. Non per dire che ciò sia desiderabile (la pluralità va salvaguardata anche nell’eterodossia), ma per stabilire che, nella competizione fra “paradigmi”, l’assenza – sull’altra sponda – di una teoria diffusamente condivisa è oggettivamente penalizzante ai fini dell’acquisizione di egemonia. Si consideri, a riguardo, la pluralità di visioni/interpretazioni del marxismo contemporaneo: il marxismo analitico, basato sull’individualismo metodologico, è in radicale contrapposizione con il marxismo c.d. ortodosso (che rifiuta l’individualismo metodologico e che recepisce da Marx soprattutto la teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto), mentre quest’ultimo è in radicale contrapposizione con il marxismo c.d. circuitista (per il quale Marx va riletto a partire dal ciclo del capitale monetario), fino ad arrivare alle infinite dispute sulla validità della teoria marxiana del valore. Vi è di più. Il fatto che il mainstream tenda a diventare sempre più tale è anche favorito, nel caso italiano, dalle nuove modalità di reclutamento e di avanzamento di carriera nelle università derivante dalla c.d. Legge Gelmini. L’accesso alla carriera universitaria è, oggi, in Italia, non solo estremamente difficile (per non dire quasi impossibile) ma anche sempre più legata a lunghi periodi di precariato. Ciò per questa ragione: la riforma Gelmini ha sostituito al ruolo del ricercatore a tempo indeterminato (ruolo che va ad esaurimento) quello del ricercatore a tempo determinato. Al tempo stesso, si sono ridotti in modo massiccio i finanziamenti alle università e si è legata la possibilità di reclutamento alla disponibilità di “punti organico” (facoltà assunzionali). In queste circostanze, si disincentiva l’assunzione di giovani ricercatori dal momento che questa costerebbe più dell’avanzamento di carriera dei ricercatori a tempo indeterminato. In un contesto di continua riduzione di fondi, si può comprendere che, anche in presenza di giovani molto preparati, si tenda a preferire, risparmiando, l’uso di risorse umane già disponibili. Ma chi viene reclutato e come avvengono gli avanzamenti di carriera (da ricercatore a professore)? Qui entrano prepotentemente in gioco i criteri di valutazione prodotti dall’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR). L’ANVUR – il cui costo di funzionamento è stimato a circa 10milioni l’anno – stabilisce un elenco di riviste sulle quali i ricercatori sono chiamati a pubblicare, definendole di classe A sulla base di tecniche |
e metodologie alquanto discutibili. Fra queste, si può considerare il fatto che ANVUR considera “eccellente” un ricercatore che pubblichi su riviste con elevata “reputazione”, del tutto indipendentemente dalla rilevanza dei contenuti della ricerca. La “reputazione” di una rivista è certificata dal suo “fattore di impatto” (impact factor), e la sua certificazione è effettuata sulla base di criteri individuati dall’istituto Thomas Reuters, azienda privata anglocanadese. In altri termini, in Italia si valuta il contenitore (la rivista), non il contenuto, e il contenitore è buono se lo considera tale una delle più grandi imprese private su scala mondiale che opera nel settore dell’editoria. Va peraltro ricordato che l’impact factor è stato pensato come strumento per selezionare l’acquisto di riviste da parte delle biblioteche universitarie, e, anche sul piano strettamente tecnico, da più parti se ne sconsiglia l’uso ai fini della valutazione della ricerca scientifica: è recente la denuncia dell’Accademia dei Lincei contro l’uso di indicatori bibliometrici per la valutazione della ricerca, soprattutto nelle scienze umane e sociali (per approfondimenti rinvio a www.roars.it). (...) Ciò induce attitudini conformiste, soprattutto da parte delle giovani generazioni, impedendo di fatto la produzione di ricerche realmente innovative. E poiché l’attività didattica non è mai disgiunta dall’attività di ricerca, i contenuti dell’insegnamento tendono a diventare sempre più conformi alla visione dominante, rendendo gli studenti sempre meno informati su teorie alternative a quelle dominanti (...) . Come scrive Gnesutta: «Il rovesciamento è totale. Si sedimenta nella società una visione del processo economico come meccanismo fatale: il futuro è già scritto nelle cose e non vi è nessuna possibilità di intervenire per un suo reale, diverso orientamento». È, in altri termini, il definitivo compiersi del«there is no alternative» (TINA) di Margaret Thatcher. È cioè il definitivo compiersi di questo disegno, dal momento che il tentativo di marginalizzare il “pensiero critico” in Economia risale (almeno) ai lavori di quel CIVR – antecedente dell’ANVUR – in seno al quale Guido Tabellini invitò a suo tempo a utilizzare gli indicatori bibliotemetrici per la valutazione della ricerca in Economia al fine di evitare meccanismi di protezione di «specie in via di estinzione» (...). L’accelerazione dei processi di valutazione, almeno per quanto riguarda le discipline economiche, asseconda oviamente questa dinamica. La valutazione della ricerca in Italia è perciò strutturata sin dall’inizio in modo da favorire l’omologazione e il conformismo. L’omologazione alle teorie economiche dominanti, del resto, è già avvenuta in altri Paesi e soprattutto nel mondo anglosassone e negli Stati Uniti in particolare. Si tratta, come è noto, di Paesi nei quali le università sono prevalentemente private e “producono” teorie economiche pienamente funzionali agli interessi delle classi dominanti. Si tratta anche di università molto elitarie, con tasse di iscrizione estremamente alte, i cui laureati costituiscono ipso facto le “classi dirigenti”. Lì, dunque, la realizzazione di un’università di classe è in larga misura un processo già compiuto. Diversamente dal caso italiano, dove invece, soprattutto a seguito dei movimenti di contestazione e del ciclo di lotte operaie degli anni Settanta, l’università è diventata di massa. Per chiarire i termini della questione e dar conto della valenza propriamente politica dei meccanismi di valutazione della ricerca in Italia è sufficiente ricordare le dichiarazioni rilasciate all’epoca dal Ministro Gelmini, per la quale la riforma che porta il suo nome decretava non a caso la fine del ‘68. È l’esplicitazione di un disegno ormai palese: rendere anche le università italiane delle università di classe, così da formare una classe dirigente allineata esclusivamente agli interessi della nostra imprenditoria. Per farlo, occorre preliminarmente decretare la fine del pensiero critico, soprattutto nelle discipline economiche, e successivamente passare a una riorganizzazione dell’assetto formativo che porti alcuni poli di ricerca ad essere certificati come “di eccellenza”: i soli poli che, a regime, potranno definirsi università. E che saranno localizzati in aree del Nord del Paese, come si può indurre da quanto sta già oggi accadendo alle università meridionali. È sufficiente un dato per fotografare la situazione: il 25,7% del totale della “quota premiale” (la quota del finanziamento ordinario quantificata sulla base della produttività degli Atenei), nel 2013, è andato agli atenei meridionali contro il 36,8% delle università settentrionali. Come registrato dalla SVIMEZ (Rapporto Svimez 2014), al sistema universitario meridionale sono così stati sottratti 160 milioni di euro dal 2011. Ciò fondamentalmente a ragione del numero eccessivo di studenti fuori corso e di laureati disoccupati. Si tratta di un dispositivo che non considera che non dovrebbe essere compito dell’università modificare il contesto socio-economico nel quale opera. Ma c’è di più. La non uniformità territoriale dei tagli alla ricerca, infatti, è anche attestata dai provvedimenti di redistribuzione dei punti organico attribuite alle sedi universitarie. Si tratta di provvedimenti che attivano un meccanismo perverso: per non chiudere corsi di studio, gli atenei sono obbligati ad accelerare il turnover. Per accelerare il turnover devono aumentare le tasse. L’aumento delle tasse disincentiva però le immatricolazioni e determina un incremento relativo degli studenti provenienti da famiglie con redditi elevati. Ma, soprattutto, l’aumento delle tasse contribuisce ad accentuare l’immobilità sociale, rendendo l’università sempre più elitaria, in palese contraddizione con gli obiettivi (dichiarati) “meritocratici” che hanno ispirato la riforma. In questo saggio si è proposta una chiave di lettura delle cause del processo di demolizione in atto dell’università pubblica di massa in Italia, a partire da considerazioni di carattere più generale relative ai processi di ristrutturazione del capitalismo italiano nella crisi. In particolare, si è rilevato che il tessuto produttivo dell’economia italiana è sempre più composto da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e collocate in settori produttivi maturi. Si è argomentato che le politiche di sottofinanziamento del sistema universitario di fatto assecondano questo modello di sviluppo, nel quale le nostre imprese non domandano forza-lavoro altamente qualificata né ricerca di base e applicata. Queste scelte appaiono pienamente legittimate dalla visione dominante nella teoria economica oggi che rafforza la sua egemonia e rende sostanzialmente impossibile la produzione di pensiero critico. In questo scenario, non sorprende la drammatica marginalizzazione del marxismo, e più in generale del “pensiero critico”, nella didattica e nella ricerca in Università. |
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