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La VOCE ANNO XIX N°6

febbraio 2017

PAGINA E        - 37


Bufale web, Giacché: “Informazione da controllare? Siamo al ministero della Verità, come in ‘1984’ di Orwell”

di Silvia Truzzi | da ilfattoquotidiano.it

Vladimiro Giacché – economista, filosofo e firma del Fatto – ha scritto nel 2008 La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea: il libro ha avuto due successive edizioni, l’ultima ad aprile di quest’anno, ma come spiega l’autore, “l’ho solo aggiornato, non ho dovuto cambiare la struttura. Le cose così stanno: c’è un tentativo di far passare pseudo verità come fatti oggettivi”.

Cosa pensa dell’agenzia statale invocata dal presidente dell’Antitrust Pitruzzella?


Non è una proposta nuova: in 1984 di Orwell c’è il ministero della Verità, che si prefiggeva per l’appunto di avere il monopolio sulla verità nel dibattito pubblico e purtroppo serviva a propagandare bugie. Dovremmo tenere ben presente questo scenario perché è il primo rischio di un’operazione di questo tipo, dove qualcuno pretende di avere il monopolio della verità.

Rendere “governativo” il controllo sulle notizie crea un cortocircuito: un fisiologico rapporto tra i poteri prevede che l’informazione vigili su chi detiene il potere.

La gran parte dei media ha mancato l’obiettivo del controllo sulle notizie. Esempi? Sappiamo, da studi successivi, che la guerra in Iraq si basò su 935 menzogne dette da Bush jr e dal suo entourage all’opinione pubblica (Charles Lewis, 935 Lies: The Future of Truth and the Decline of America’s Moral Integrity, 2014). Più di recente, una porzione considerevole della nostra stampa ha ignorato che gran parte dei ribelli siriani non erano civili inermi, ma terroristi: ora che Aleppo è stata liberata si scopre che ci sono armi statunitensi, bulgare, tedesche, francesi…

L’informazione, dicevano i liberali, dovrebbe essere il cane da guardia del potere perché è da lì che arrivano le bugie pericolose.

Invece si è appiattita sulle posizioni dominanti. Al di là di come valutiamo il voto sulla Brexit, è ovvio che quel risultato manifesta un’enorme sofferenza sociale rispetto all’appartenenza all’Ue e a quella che genericamente chiameremo “globalizzazione”: non solo questa sofferenza non è stata compresa, ma quando si è espressa è stata demonizzata. Avrebbero votato leave i disadattati, i vecchi rimbambiti, gli ignoranti. Invece di interrogarsi sul perché questi segnali non erano stati intercettati si è preferito insultare gli elettori. Stessa cosa è accaduta per le elezioni Usa e il nostro referendum. Ma sarebbe preferibile evitare queste scorciatoie, in cui io vedo derive autoritarie: sono pericolose, anche per chi le invoca.

Lei ha scritto: “La menzogna è il grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo”.

Quel che non si vuol capire è che la verità ha la testa più dura. Serve a poco propagandare numeri mirabolanti sull’occupazione: le persone sanno se lavorano o no. Kennedy diceva: puoi ingannare qualcuno per sempre e tutti per un po’, ma non puoi ingannare tutti per sempre.

Ha letto la risoluzione del Parlamento europeo per contrastare la propaganda contro la medesima Ue?

Sì, è un caso di umorismo involontario. Siamo di fronte a una élite europea del tutto sorda rispetto al giudizio dei cittadini e arroccata sulle proprie posizioni in modo non diverso da quello dei nobili dell’Ancien régime francese. Il discorso pubblico è stato ingessato su presunte verità che sono oggettivamente insostenibili: pensiamo al dibattito sull’euro. Il muro di menzogne sta crollando ed è proprio per questo che ci s’inventa un “ministero della Verità”. Ma attenzione, la bugia ha un valore diagnostico e rivelatore: una bugia scoperta ci dice sul suo autore molte cose. Chi mente ha sempre buoni motivi per farlo. Allo stesso modo, queste proposte rivelano molto su paure e debolezze di chi le porta avanti. E anche un’insofferenza al dibattito democratico che è tipica delle ideologie autoritarie.

Chi dovrebbe decidere che una news è fake?

L’unico capo di questa ipotetica Agenzia potrebbe essere Dio. Ma ovviamente agenzie del genere finiscono per avere un obiettivo molto più terra terra: vietare ciò che è sgradito al potere, nascondere i problemi sotto il tappeto.

Dietro il Muro bipartisan

di Manlio Dinucci
da il manifesto 28 gennaio 2017

È il 29 settembre 2006, al Senato degli Stati uniti si vota la legge «Secure Fence Act» presentata dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush, che stabilisce la costruzione di 1100 km di «barriere fisiche», fortemente presidiate, al confine col Messico per impedire gli «ingressi illegali» di lavoratori messicani.

Dei due senatori democratici dell’Illinois, uno, Richard Durbin, vota «No»; l’altro invece vota «Sì»: il suo nome è Barack Obama, quello che due anni dopo sarà eletto presidente degli Stati uniti. Tra i 26 democratici che votano «Sì», facendo passare la legge, spicca il nome di Hillary Clinton, senatrice dello stato di New York, che due anni dopo diverrà segretaria di stato dell’amministrazione Obama.


Hillary Clinton, nel 2006, è già esperta della barriera anti-migranti, che ha promosso in veste di first lady. È stato infatti il presidente democratico Bill Clinton a iniziarne la costruzione nel 1994. Nel momento in cui entra in vigore il Nafta, l’Accordo di «libero» commercio nord-americano tra Stati uniti, Canada e Messico. Accordo che apre le porte alla libera circolazione di capitali e capitalisti, ma sbarra l’ingresso di lavoratori messicani negli Stati uniti e in Canada.

Il Nafta ha un effetto dirompente in Messico: il suo mercato viene inondato da prodotti agricoli statunitensi e canadesi a basso prezzo (grazie alle sovvenzioni statali), provocando il crollo della produzione agricola con devastanti effetti sociali per la popolazione rurale. Si crea in tal modo un bacino di manodopera a basso prezzo, che viene reclutata nelle maquiladoras: migliaia di stabilimenti industriali lungo la linea di confine in territorio messicano, posseduti o controllati per lo più da società statunitensi che, grazie al regime di esenzione fiscale, vi esportano semilavorati o componenti da assemblare, reimportando negli Usa i prodotti finiti da cui ricavano profitti molto più alti grazie al costo molto più basso della manodopera messicana e ad altre agevolazioni.

Nelle maquiladoras lavorano soprattutto ragazze e giovani donne. I turni sono massacranti, il nocivo altissimo, i salari molto bassi, i diritti sindacali praticamente inesistenti. La diffusa povertà, il traffico di droga, la prostituzione, la dilagante criminalità rendono estremamente degradata la vita in queste zone. Basti ricordare Ciudad Juárez, alla frontiera con il Texas, divenuta tristemente famosa per gli innumerevoli omicidi di giovani donne, per lo più operaie delle maquiladoras.

Questa è la realtà al di là del muro: quello iniziato dal democratico Clinton, proseguito dal repubblicano Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vuole completare su tutti i 3000 km di confine.

Ciò spiega perché tanti messicani rischiano la vita (sono migliaia i morti) per entrare negli Stati uniti, dove possono guadagnare di più, lavorando al nero a beneficio di altri sfruttatori. Attraversare il confine è come andare in guerra, per sfuggire agli elicotteri e ai droni, alle barriere di filo spinato, alle pattuglie armate (molte formate da veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan), che vengono addestrate dai militari con le tecniche usate nei teatri bellici.

Emblematico il fatto che, per costruire alcuni tratti della barriera col Messico, l’amministrazione democratica Clinton usò negli anni Novanta le piattaforme metalliche delle piste da cui erano decollati gli aerei per bombardare l’Iraq nella prima guerra del Golfo, fatta dall’amministrazione repubblicana di George H.W. Bush. Utilizzando i materiali delle guerre successive, si può sicuramente completare la barriera bipartisan.

Non la Nato, ma la sinistra è «obsoleta»

di Manlio Dinucci
da ilmanifesto.it
Autorevoli voci della sinistra europea si sono unite alla protesta anti-Trump «No Ban No Wall», in corso negli Stati uniti, dimenticando il muro franco-britannico di Calais in funzione anti-migranti, tacendo sul fatto che all’origine dell’esodo di rifugiati ci sono le guerre a cui hanno partecipato i paesi europei della Nato. Si ignora il fatto che negli Usa il bando blocca l’ingresso di persone provenienti da quei paesi – Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen, Iran – contro cui gli Stati uniti hanno condotto per oltre 25 anni guerre aperte e coperte: persone alle quali sono stati finora concessi i visti d’ingresso fondamentalmente non per ragioni umanitarie, ma per formare negli Stati uniti comunità di immigrati (sul modello di quella dei fuoriusciti cubani anti-castristi) funzionali alle strategie Usa di destabilizzazione nei loro paesi di origine.

I primi ad essere bloccati e a intentare una class action contro il bando sono un contractor e un interprete iracheni, che hanno collaborato a lungo con gli occupanti statunitensi del proprio paese.

Mentre l’attenzione politico-mediatica europea si focalizza su ciò che avviene oltreatlantico, si perde di vista ciò che avviene in Europa. Il quadro è desolante. Il presidente Hollande, vedendo la Francia scavalcata dalla Gran Bretagna che riacquista il ruolo di più stretto alleato degli Usa, si scandalizza per l’appoggio di Trump alla Brexit chiedendo che l’Unione europea (ignorata dalla stessa Francia nella sua politica estera) faccia sentire la sua voce. Voce di fatto inesistente quella di una Unione europea di cui 22 dei 28 membri fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva», sotto la guida del Comandante supremo alleato in Europa nominato dal presidente degli Stati uniti (quindi ora da Donald Trump).

La cancelliera Angela Merkel, mentre esprime il suo «rincrescimento» per la politica della Casa Bianca verso i rifugiati, nel colloquio telefonico con Trump lo invita al G-20 che si tiene in luglio ad Amburgo. «Il presidente e la cancelliera – informa la Casa Bianca – concordano sulla fondamentale importanza della Nato per assicurare la pace e stabilità».

La Nato, dunque, non è «obsoleta» come aveva detto Trump. I due governanti «riconoscono che la nostra comune difesa richiede appropriati investimenti militari».

Più esplicita la premier britannica Theresa May che, ricevuta da Trump, si impegna a «incoraggiare i leader europei miei colleghi ad attuare l’impegno di spendere il 2% del Pil per la difesa, così che il carico sia più equamente ripartito». Secondo i dati ufficiali del 2016, solo cinque paesi Nato hanno un livello di spesa per la «difesa» pari o superiore al 2% del Pil: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia.

L’Italia spende per la «difesa», secondo la Nato, l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: nel 2016 ha aumentato la spesa di oltre il 10% rispetto al 2015. Secondo i dati ufficiali della Nato relativi al 2016, la spesa italiana per la «difesa» ammonta a 55 milioni di euro al giorno.

La spesa militare effettiva è in realtà molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende il costo delle missioni militari all’estero, né quello di importanti armamenti, tipo le navi da guerra finanziate con miliardi di euro dalla Legge di stabilità e dal Ministero dello sviluppo economico. L’Italia si è comunque impegnata a portare la spesa per la «difesa» al 2% del Pil, ossia a circa 100 milioni di euro al giorno. Di questo non si occupa la sinistra istituzionale, mentre aspetta che Trump, in un momento libero, telefoni anche a Gentiloni.

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