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La VOCE ANNO XIX N°6

settembre 2017

PAGINA a         - 25


HAMAS E FATAH HANNO ANNUNCIATO UN ACCORDO PER FORMARE UN GOVERNO DI UNITÀ NAZIONALE PALESTINESE


Jack Khoury, Haaretz, mercredi 18 janvier 2017

Accordo per formare governo di unità nazionale nel 2017
Il vertice di Parigi per la pace, la risoluzione delle Nazioni Unite contro gli insediamenti e l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, potrebbero essere alla base di questo accordo. “Un governo di unità nazionale è di importanza strategica”, ha detto un funzionario palestinese.


Hamas e Fatah hanno deciso di formare un governo di unità nazionale palestinese, hanno dichiarato i due partiti in un comunicato da Mosca, dove hanno tenuto colloqui da domenica.

Secondo l’accordo che hanno raggiunto a Mosca, le fazioni palestinesi, tra cui la Jihad islamica, riuniranno le istituzioni dell’OLP per formare un nuovo Consiglio Nazionale Palestinese. Il nuovo Consiglio nominerà il Comitato Esecutivo dell’OLP, la massima istituzione palestinese a livello politico e diplomatico.

I partiti palestinesi hanno concordato che entro due mesi nuovi membri saranno eletti al Consiglio nazionale e che le parti coinvolte si adopreranno per formare un nuovo governo.

Un alto funzionario di Fatah, che ha partecipato ai colloqui di Mosca, ha dichiarato a Haaretz che “le condizioni sono mature per un nuovo governo di unità nazionale, sia a livello interno che a livello internazionale.”

Il funzionario ha ricordato la recente conferenza di pace di Parigi, la risoluzione del Consiglio di sicurezza contro gli insediamenti e l’elezione del futuro presidente Donald Trump come alcuni dei motivi che hanno spinto verso questo accordo. “Un governo di unità nazionale è di importanza strategica per i palestinesi”, ha dichiarato.

Traduzione Simonetta Lambertini – Invictapalestina

Fonte: http://www.france-palestine.org/Le-Hamas-et-le-Fatah-annoncent-un-accord-pour-former-un-gouvernement


PATEH, QUSAY E AHMAD: NON DIMENTICHIAMOLI NEL “GIORNO DELLA MEMORIA”

Romana Rubeo – Jan 26 2017 / 10:02 pm

Appesa al muro della mia camera di adolescente c’era, tra le altre cose, questa frase:

“Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”.

Mi è sempre piaciuto credere che, in qualche modo, sarebbe confortante pensare che, davvero, “Historia magistra vitae”. Sarebbe bello pensare, cioè, che la memoria storica sia in qualche modo utile a tenere con sé i valori profondi dell’umanità e a cancellare gli orrori.

Così come sarebbe bello pensare che il Giorno della memoria non sia un mero esercizio di vuota e pelosa retorica, ma un’occasione importante per mettere al centro il protagonista vero e ultimo della storia: l’essere umano, a prescindere dalla razza, dal colore della pelle, dalla religione.

Da giorni, accendo la TV e seguo gli eventi che preparano ogni anno le commemorazioni del 27 gennaio. A metà del mese, il Ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, ha accompagnato degli studenti ad Auschwitz, per il cosiddetto Viaggio della Memoria, organizzato dal Ministero in collaborazione con l’UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane) e con il Dipartimento per le Pari Opportunità.

Dice il Ministro che da quei luoghi “si torna diversi, nei comportamenti quotidiani, nei valori, nel senso di responsabilità”.

La giornalista chiude il servizio con la solita, stucchevole frase di rito: “Affinché non avvenga mai più”.

Immediatamente dopo, incrocio gli occhi stanchi di Pateh Sabally, 22 anni, fuggito dal Gambia e arrivato in Italia due anni fa per scampare a un atroce destino.

La sua storia non è chiara, l’unica cosa certa è che Pateh, probabilmente a causa della revoca del permesso umanitario, decide di gettarsi nelle acque gelide del Canal Grande di Venezia (simbolo imperituro della italica “civiltà” e nido degli innamorati di tutto il mondo).

Pateh si butta in acqua e muore suicida, mentre qualcuno gli grida cori razzisti e lo chiama “Africa”, con fare sprezzante. Pateh si butta in acqua e nessuno lo soccorre.[1]

Poi, dalla Palestina occupata, altre due storie mi lasciano senza fiato: due diciassettenni legati da un destino un po’ troppo comune da quelle parti, la morte.

Uno è Qusay Hasan al-Umour, vittima dell’ennesimo omicidio extragiudiziale compiuto dall’esercito israeliano, durante degli scontri nel villaggio di Tuqu. L’autopsia parla di almeno sei pallottole, che lo hanno stroncato sul colpo.


Il video testimonia che il ragazzo si trovava a centinaia di metri dai militari, ma questo non è bastato a risparmiargli la vita, a sfuggire a un destino infame né all’umiliazione di essere trascinato nel fango dopo la morte.

Qusay è stato assassinato, o dovrei dire “neutralizzato”? Perché il processo di disumanizzazione deve essere completo e i verbi sono selezionati con cura, almeno sulla stampa mainstream.[2]

Il secondo diciassettenne si chiamava Ahmad Hassan Shubeir; è nato e cresciuto a Gaza e, oltre alle difficoltà che incontrano tutti coloro che vivono in quella prigione a cielo aperto, lui soffre di un difetto congenito al cuore.

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