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La VOCE 1704 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XIX N°8 | aprile 2017 | PAGINA C - 35 |
http://www.resistenze.org/ L'Italia, i brevetti e la necessità di nuove politiche industriali Roberto Romano, Sergio Ferrari | economiaepolitica.it 24/03/2016 L'EPO (European Patent Office) ha presentato il 6 marzo 2016 il suo rapporto annuale sui brevetti depositati presso il suo istituto. Sebbene i brevetti siano solo parzialmente un indicatore della propensione all'innovazione di un Paese, indiscutibilmente fotografano l'atteggiamento delle imprese rispetto agli investimenti nella ricerca e alla loro tutela. Nonostante la crescita complessiva del 6,1% dei brevetti depositati tra il 2014 e il 2015, la quota percentuale sul totale vede l'Italia su un modesto 2%, contro valori dell'11% della Cina, del 6% della Corea, dell'11% della Germania, del 18% del Giappone, per arrivare al 24% degli Stati Uniti. In termini di domande di brevetti per milione di abitanti, ci troviamo a livello mondiale al diciottesimo posto e nessuna nostra impresa compare tra le prime 25. L'Italia continua a spendere una piccola frazione di ciò che spendono gli altri Paesi in ricerca e sviluppo, gli ultimi dati parlano di un modesto 1,3%, e ciò in parte spiega perché il PIL è crollato del 10% durante il periodo della lunga recessione (2007-2014). Infatti, la ripartizione internazionale dei brevetti è proporzionale agli sforzi fatti dai Paesi e dalle imprese in questa direzione. Se poi guardiamo ai singoli campi "economici" dei brevetti – comunicazione digitale, computer, macchinari elettrici e apparati, misurazione, chimica organica, motori e turbine, biotecnologia, farmaceutica – possiamo quasi toccare con mano il ritardo (arretramento) dell'Italia. Solo nella farmaceutica e nei motori e turbine raggiungiamo il 3% dei brevetti totali. Nella farmaceutica ci collochiamo dietro a Germania (9%), Francia (7%), Svizzera (7%), Giappone (5%) e gli inarrivabili Stati Uniti (38%). Nei motori e turbine siamo dietro a Germania (23%), Stati Uniti (33%) Giappone (14%) e Francia (5%). Nei settori emergenti come la biotecnologia l'Italia rappresenta addirittura un misero 1% del totale dei brevetti, e questa sono evidentemente tecnologie che cambieranno non poco il futuro industriale dei Paesi. Per tutti gli altri settori l'Italia rappresenta un modesto 2%, collocandosi spesso dietro ai paesi emergenti. Anche se consideriamo la meccanica strumentale – uno dei settori storicamente di forza del nostro sistema industriale – dove abbiamo registrato un crollo della produzione del 22% a seguito della crisi generale, le cose non vanno meglio. In questo settore l'Italia intercetta sempre il 2% del totale dei brevetti EPO, contro il 18% della Germania e degli Stati Uniti, il 21% del Giappone. Come la buona stampa riesca a ricavare elementi di soddisfazione da questo quadro è un interrogativo che solleva ulteriori domande sul tema dell'informazione, che richiede altre analisi, certamente non positive per giudicare la situazione politica-culturale del nostro Paese. In questa occasione è sufficiente ricordare come l'andamento dei brevetti del nostro paese conferma un declino che trova origine nel ritardo della nostra cultura industriale. Una questione complessa e che ha origini lontane. Certo è che l'accumulo dei ritardi ha prodotto effetti strutturali non rimediabili con i tradizionali interventi degli incentivi finanziari per le imprese. Infatti, le nostre imprese inseguono un modello di specializzazione produttiva che è stato occupato progressivamente da paesi ormai competitivi anche sul piano tecnologico, oltre che su quello del costo del lavoro. Per superare questi limiti strutturali e per guardare oltre agli attuali vincoli tecnologici, occorrono ampi investimenti a sostegno della ricerca delle imprese, ma non a pioggia e non finalizzato alla "semplice" resistenza nell'esistente. Occorrono capacità e strumenti tali da avviare i necessari cambiamenti tecnologici e strutturali. A questo fine è necessaria una azione politica di respiro molto ampio, incominciando da un intervento massiccio nella ricerca pubblica e da una politica industriale articolata e programmata.
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