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La VOCE ANNO XVIII N°6

febbraio 2016

PAGINA 7

Segue da Pag.6: Un comitato di affari sempre più antioperaio, autoritario e bellicista

proprio studio perchè gran parte degli studi sulla fiducia interessano i Paesi ricchi e sviluppati, mentre ben poco si sa su cosa accade nei Paesi in via di sviluppo. Gordon mostra che la criminalità, ma più ancora la percezione della criminalità, riducono fortemente la fiducia. Che combattere la criminalità sia desiderabile, non è una novità. L’aspetto interessante del lavoro del giovane sudafricano è che mette in guardia contro gli effetti indesiderati di media e campagne pubblicitarie che facciano leva sulle paure delle persone perchè ciò ha effetti deleteri che vanno ben al di là di quanto si possa immaginare. E che le campagne pubblicitarie, per esempio, puntino a stimolare le paure e le incertezze dei consumatori non è una novità. Gli esperti di marketing sono ben consapevoli che gente intimorita è più propensa a consumare e a cercare nel possesso una rassicurazione dalle proprie paure.

Più felici con internet?

Fino a 20 anni fa internet era una realtà lontana per molti. Oggi internet è presente in più dell’80% delle famiglie dei Paesi occidentali e sta rapidamente crescendo in molti Paesi più poveri. L’uso di internet, e in particolare delle reti sociali, ha sicuramente cambiato il modo di interagire con gli altri e reso più democratico ed economico lo scambio di informazioni, ma come ha influito sul benessere delle persone? Solo di recente la disponibilità di dati sull’uso delle reti sociali online ha consentito di investigare questa relazione, ma finora l’esito di queste ricerche è piuttosto ambiguo. Il cinese Peng Nie ha cercato di rispondere a questa domanda usando una banca dati cinese ricca di informazioni. I suoi risultati confermano precedenti studi svolti su dati tedeschi e italiani: un uso intensivo di internet riduce il benessere delle persone. Ma non è solo una questione di utilizzo: anche, e soprattutto, la percezione dell’uso di internet ha un impatto significativo sul benessere delle persone. Se l’uso di internet sottrae tempo ad altre attività, è più probabile che esso venga visto come una fonte di frustrazione, più che di benessere. Il problema è che questo meccanismo rappresenta una trappola: più si dedica tempo alle interazioni online e meno si ha tempo per le relazioni personali faccia a faccia. Allo stesso tempo, però, meno interazioni personali aumentano la probabilità di dedicare più tempo alle relazioni online. Il risultato è un impoverimento delle relazioni sociali non virtuali e una diminuzione del benessere percepito. In altre parole, le reti sociali online sono un utile strumento da tenere sotto controllo, se ci sta a cuore il benessere nostro e delle persone che ci stanno attorno.

La buona scuola

La scuola è una questione cruciale per la qualità della vita dei giovani. Tutti sappiamo che la scuola è spesso una fucina di tensioni, conflitti e malessere. La domanda cruciale è se questo sia necessario ai fini della qualità dell’apprendimento. Simona Cannistraci ha affrontato questa questione partendo dalla domanda: di cosa hanno bisogno i ragazzi per la propria formazione?

Essi non hanno bisogno solo di imparare delle materie. Una gran quantità di studi psicologici dimostra che hanno anche bisogno di almeno altre tre cose fondamentali: auto-stima, buone relazioni con gli altri e autonomia, cioè la sensazione di controllo della loro vita e delle loro attività. Tutto questo è fondamentale per il loro benessere e per una formazione equilibrata, ma una solida base di studi mostra che la scuola italiana attuale non aiuta a soddisfare questi bisogni. E quelle di altri paesi come Francia, Germania, Gran Bretagna, non sono messe meglio. In questi paesi la scuola invece di promuovere l’autonomia è orientata al controllo degli studenti. Il genuino interesse viene sfavorito in ogni modo, a partire da programmi estensivi e scadenze pressanti che implicano che dedicare tempo alle proprie curiosità, all’approfondimento, si traduce per gli studenti in voti peggiori. Relazioni fortemente gerarchiche con i docenti inducono alla passività e all’obbedienza. In questa situazione lo studio diviene solo un mezzo per trovare un buon lavoro o evitare l’esclusione sociale, i rapporti con gli altri studenti divengono competitivi, la noia e la passività divengono parte integrante dell’esperienza scolastica quotidiana. Insomma, la scuola attuale non condivide la convinzione di Quintiliano che “i giovani non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere.”

E’ possibile creare una scuola in cui il bisogno di educare sia compatibile con i bisogni dei ragazzi di auto-stima, autonomia, e buone relazioni con gli altri? C’è qualche conflitto tra la soddisfazione di questi bisogni e gli obiettivi attuali della scuola in termini di formazione cognitiva? Alcuni paesi come quelli scandinavi, hanno già risposto di si alla prima domanda e di no alla seconda. Infatti la loro scuola sta cambiando, nel senso che si sta crescentemente orientando verso esperienze dette di scuola partecipativa o apprendimento e insegnamento creativo. Si noti, per inciso, che questi sono anche i paesi che generalmente primeggiano nelle classifiche internazionali del rendimento studentesco.

Questi esperimenti possono funzionare anche in Italia? Per rispondere a questa domanda, la Cannistraci ha organizzato un esperimento di apprendimento e insegnamento creativo con studenti di Psicologia del secondo e terzo anno dell’Università Kore a Enna. Agli studenti è stata data la possibilità di scegliere l’argomento di studio (che doveva essere coerente con il corso), il materiale didattico e le modalità di apprendimento (gruppi di lavoro, studio individuale, uso di computer, lavagne, carta ecc.). Una volta scelti gli argomenti, gli studenti hanno scelto gli articoli scientifici che li interessavano, li hanno analizzati in gruppi di lavoro e hanno riferito e discusso i risultati con l’intera classe e i docenti. Quello che hanno messo in pratica somiglia molto ad una tecnica nota come “apprendere per insegnare (learn to teach)”.

La Cannistraci ha elaborato un sofisticato questionario volto a capire se questa esperienza poteva cambiare la percezione degli studenti del contesto educativo (in termini di apertura, inclusività, piacevolezza, orizzontalità delle relazioni), la loro percezione di competenza e auto-stima, e le loro motivazioni: interesse, curiosità, percezione di essere protagonisti delle propria formazione oppure dipendenza dagli insegnanti e desiderio di compiacerli? Gli studenti hanno risposto al questionario prima e dopo il corso e l’analisi dei dati raccolti mostra che, dopo il corso, l’esperienza universitaria degli studenti era migliorata in media per tutti gli aspetti presi in considerazione.

Questo risultato suggerisce che non c’è alcun motivo per cui un’organizzazione scolastica più aperta e creativa non possa prendere piede anche da noi. Il suggerimento che questo studio offre al nostro paese è di promuovere un cambiamento profondo nel sistema scolastico nazionale, partendo da questo tipo di esperimenti nelle proprie scuole e università.
In conclusione questi studi danno indicazioni molto nitide su quello che migliora la qualità della vita in campi di importanza fondamentale e fortemente controversi. In particolare sono ricchi di indicazioni per il nostro paese che viene spesso percepito nel mondo come un simbolo della qualità della vita. Questa percezione sembra poggiare su solidi fondamenti perché l’Italia è caratterizzata da una serie di condizioni di vantaggio per la qualità della vita, frutto della nostra storia ma anche di scelte politiche, economiche e sociali passate. Ma questi studi
suggeriscono anche di riconsiderare certe scelte presenti che non vanno nella direzione di sostenere il nostro vantaggio in termini di qualità della vita.

L’industria di guerra e la Israele - NATO connection

Relazione alla Conferenza Nazionale Palestina e dintorni, organizzata dal Fronte Palestina, Roma, 23 gennaio 2016.

Ammonta a quasi 79 miliardi di dollari il budget finanziario che il governo israeliano ha destinato alle forze armate nei prossimi cinque anni; la metà di essi serviranno a implementare il cosiddetto "Piano Gideon" finalizzato ad accrescerne le capacità di combattere contemporaneamente in più teatri di guerra, "con un arsenale militare idoneo a protrarre gli interventi sia lungo il confine settentrionale con il Libano e la Siria che in altre aree conflittuali come la Striscia di Gaza, la West Bank o in Iran". Secondo quanto dichiarato dal portavoce del ministero della difesa israeliano, il "Piano Gideon" prevede un’elevata prontezza, un’esemplificazione organizzativa, avanzate capacità di combattimento aereo, marittimo, terrestre e sottomarino, nuove infrastrutture "per rendere più efficiente il controllo delle frontiere", tagli agli organici del personale militare professionale o di leva, dei servizi di supporto e di quelli non legati direttamente alle operazioni di guerra. Gli strateghi militari di Tel Aviv puntano poi a sviluppare le performance dei centri strategici e delle reti informatiche, creando un Joint Cyber Command che centralizzi tutte le operazioni "offensive" d’intelligence e di raccolta dati sino ad oggi assegnate a diversi soggetti militari. Con il "Piano Gideon" sarà ulteriormente potenziata la dotazione missilistica avanzata grazie all’acquisizione di nuove batterie del sistema di difesa aerea "Iron Dome", all’installazione dei nuovi sistemi anti-missile a corto e medio raggio "David’s Sling" e "Arrow-3", all’ammodernamento dell’"Arrow-2" già operativo da alcuni anni, ecc..

Una parte consistente dei finanziamenti per il nuovo piano di riarmo israeliano giungerà ancora una volta dagli Stati Uniti d’America. Nel 1997 Washington ha sottoscritto un accordo con Tel Aviv che ha autorizzato sino ad oggi il trasferimento di "aiuti" militari per oltre 30 miliardi di dollari, mentre altri 3,1 miliardi giungeranno entro la fine del 2018. Quasi un terzo di questi fondi sono "investiti" nel campo della ricerca e dello sviluppo dei nuovi sistemi d’arma; ad essi vanno aggiunti i finanziamenti USA riservati ad alcuni programmi strategici che vedono ad esempio le aziende statunitensi e israeliane cooperare nella progettazione e produzione di nuovi sistemi missilistici e/o spaziali, non compresi tra gli "aiuti" annuali alle forze armate d’Israele. Un contributo rilevante allo sviluppo dell’arsenale di morte israeliano è giunto pure dall’Unione europea: nel solo biennio 2012-13 i Paesi UE hanno concesso licenze per l’esportazione di armi ad Israele per 983 milioni di euro, mentre due dei maggiori gruppi industriali nazionali produttori di armi (Elbit Systems e IAI - Israel Aerospace Industries), hanno avuto modo di partecipare - tra il 2007 e il 2014 - a progetti di ricerca finanziati dall’Unione europea per un valore di 244 milioni di euro.

Israele tra i maggiori mercanti di morte al mondo

Gli imponenti aiuti finanziari USA e UE, sommati alle crescenti risorse che le autorità di Tel Aviv destinano al complesso militare-industriale nazionale per la ricerca, la sperimentazione e la produzione di sistemi d’arma, hanno consentito ad Israele di collocarsi tra i primi dieci esportatori di armi al mondo. Nell’ultimo decennio, il ministero della difesa ha autorizzato più di 400.000 licenze di esportazione a circa 130 paesi stranieri. Nel 2012, l’anno record dell’export di armi israeliane, il valore totale delle esportazioni è stato di 7,4 miliardi di dollari (+20% rispetto al 2011). Più di un terzo del fatturato è stato generato dal trasferimento di armi a paesi dell’area Asia-Pacifico, mentre quasi un miliardo di dollari è giunto dal mercato nord americano. Nel 2013 l’export di armi israeliane si è attestato in 6,54 miliardi di dollari, mentre l’anno successivo si è ridotto a 5,66 miliardi, il valore più basso negli ultimi sette anni. Secondo il governo israeliano, la riduzione del fatturato sarebbe dovuta ai tagli ai programmi di acquisizione di nuovi sistemi bellici e alla riduzione dei bilanci della difesa negli Stati Uniti e in buona parte dei paesi europei. Nello specifico, nel 2014 le aziende israeliane hanno sottoscritto contratti per 937 milioni di dollari in Nord America, 724 milioni in Europa, 716 milioni in America latina, 318 milioni in Africa e 2,96 miliardi in Estremo Oriente, Sud-est asiatico, India e Oceania. La riduzione delle esportazioni verso l’Asia e il Nord America è stata comunque compensata in parte dalla crescita di quasi il 40% delle esportazioni verso il continente africano. Sempre nel 2014, il National Cyber Bureau (NCB) ha registrato esportazioni nel settore cyber-informatico per un valore complessivo di 6 miliardi di dollari, con un incremento del 100% rispetto all’anno precedente. Secondo le prime stime ufficiali nel 2015 l’export in questo settore sarebbe ulteriormente cresciuto di 500 milioni. Nel campo informatico e dell’intelligence, dove sono inscindibili i legami tra il "civile" e il militare e sono inevitabili le ricadute belliciste e sicuritarie, Israele controlla oggi tra il 5 e il 7% del mercato mondiale delle produzioni e dell’export.

I maggiori produttori israeliani di armi sono principalmente industrie a capitale statale come IAI - Israel Aerospace Industries (holding con il fatturato record nel 2014 di 3,8 miliardi di dollari), IMI (Israel Military Industries), Rafael Advanced Defense Systems, anche se negli ultimi anni sta crescendo in termini di fatturato e dimensioni delle esportazioni il ruolo delle imprese private (in Israele quasi 7.000 imprenditori privati si occupano di export di armi). I colossi israeliani operano principalmente nel settore elettronico, aerospaziale e missilistico. Il gruppo Rafael, ad esempio, si è specializzato nella produzione di sistemi di telecomunicazione, radar e per la guerra elettronica; IMI (gruppo industriale per cui a fine 2013 è stato predisposto un piano di privatizzazione da parte del governo), produce in particolare armi leggere, fucili, mitragliatori, munizioni, tank, cannoni, artiglieria pesante. Elbit Systems, una delle maggiori aziende in mano ai gruppi finanziari privati, si è affermata invece nel campo delle cyber-war e delle tecnologie d’intelligence. Con un fatturato annuale poco inferiore ai 3 miliardi di dollari, Elbit Systems ha aperto una propria filiale a Fort Worth (Texas) con 1.800 dipendenti, ottenendo dal Dipartimento della difesa e dai principali gruppi industriali militari statunitensi importanti commesse per lo sviluppo degli elicotteri da combattimento "Apaches" e "Black Hawks", dei cacciabombardieri F-35, F-16 ed F-15, di sistemi missilistici, laser, ecc..

Tra i prodotti d’eccellenza del complesso militare-industriale israeliano, compare innanzitutto il sistema anti-missili balistici "Arrow", elaborato da IAI congiuntamente ai gruppi statunitensi Boeing, Lockheed Martin e Raytheon. La versione "Arrow 1" risale ai primi anni ’90, mentre l’"Arrow 2" è stato testato la prima volta nel febbraio 2014 nel poligono californiano di Point Mugu contro un bersaglio simulante un missile Scud. Il programma di cooperazione missilistica israelo-statunitense prevede lo sviluppo dell’"Arrow 3" con una gittata ancora più ampia e in grado di

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