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La VOCE ANNO XVIII N°6

febbraio 2016

PAGINA 6

Un comitato di affari sempre più antioperaio, autoritario e bellicista

Nonostante condizioni esterne favorevoli (petrolio ai minimi, cambio favorevole all’export, il QE di Draghi), la borghesia italiana non ha agganciato la ripresa economica.
Mentre i licenziamenti proseguono, gli operai fanno la fame, i giovani sono costretti a emigrare, il meridione langue.
Ciò significa che il renzismo con le sue frottole e il suo vuoto agitarsi non ha disincagliato il paese, ma lo fa affondare.
Renzi ha toccato il soffitto da un pezzo ed è in affanno. Non potendo sfondare in alto, intensifica l’offensiva contro la classe operaia e gli altri lavoratori, per salvaguardare i profitti e privilegi di capitalisti, ricchi e parassiti sociali.
La pressione in fabbrica aumenta su ritmi e orari di lavoro, sui salari, per estorcere più plusvalore possibile.
I padroni si avvantaggiano del Jobs Act per licenziare, minacciare, ricattare. Al netto dei dati truccati, la disoccupazione rimane a livelli record e le disuguaglianze sociali si approfondiscono.
Un obiettivo permanente dell’attacco padronal-renziano è il movimento operaio e sindacale.
Svuotare i contratti collettivi nazionali di lavoro di ogni elemento unificante, di ogni automatismo per renderli strumenti a totale vantaggio delle imprese; cancellare con mille pretesti – a cominciare da quello sulla “sicurezza” - i residui diritti dei lavoratori, per primo quello di sciopero; allungare l’orario di lavoro per estorcere più plusvalore; indebolire e dividere i sindacati in quanto organizzazioni storicamente necessarie in cui gli sfruttati si uniscono e lottano… è una offensiva a tutto campo, rispetto alla quale socialdemocratici e riformisti non danno una risposta degna di questo nome e i vertici sindacali dimostrano tutta la loro arrendevolezza.
Le decisioni prese dal governo Renzi come il Jobs Act, la controriforma delle scuola, l’Italicum, la militarizzazione delle città, le missioni belliche, la controriforma della Costituzione - da bocciare in tronco nel referendum che si terrà quest’anno - hanno dimostrato il suo carattere reazionario, neoliberista e oligarchico.
Le misure di tipo clientelare a favore di classi sociali sfruttatrici e privilegiate, prese con la “legge di instabilità” di tipo berlusconiano, coperte dalle menzogne e dagli spot pubblicitari lo confermano, senza peraltro frenare la continua emorragia di consensi del governo, che diverrà più evidente man mano che si accentueranno i suoi tratti prepotenti e repressivi.
Mentre si esauriscono le illusioni su natura e ruolo del PD (il calo degli iscritti a questo partito liberista prosegue senza soste), negli strati profondi degli sfruttati cresce il malcontento e l’ostilità contro il governo del bulletto democristiano, espressione dell’intreccio fra finanzieri d’assalto, padroni e media asserviti. Si prepara un nuovo sviluppo della mobilitazione operaia e popolare.
La situazione chiama gli sfruttati a levare di nuovo in alto i pugni, a unirsi in un deciso rifiuto della politica e delle manovre antioperaie e antipopolari del governo Renzi e dell’UE, da far saltare con gli scioperi nelle fabbriche e le manifestazioni nelle piazze.
Da queste lotte emergerà la ricerca di un vero cambiamento sociale, che potrà realizzarsi solo con un Governo operaio e degli altri lavoratori sfruttati, la sola alternativa di potere con cui sconfiggere definitivamente la borghesia e salvare il paese.
Per avvicinare il suo avvento avanziamo rivendicazioni di classe, moltiplichiamo gli organismi operai e popolari, soprattutto costruiamo e colleghiamo nuclei comunisti nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro.

Quale società per una migliore qualità della vita?

di Stefano Bartolini e Francesco Sarracino

Nel 2015, quindici tra i più quotati giovani ricercatori del mondo sui temi della qualità della vita si sono incontrati periodicamente al Polo Lionello, tra le colline toscane del Valdarno. I ricercatori erano stati selezionati per portare avanti progetti di ricerca su una serie di temi tanto cruciali quanto controversi. Ad esempio: quale modello di pensioni, scuola, mercato del lavoro, spesa pubblica, mass media, funziona meglio per promuovere la qualità della vita dei cittadini? Quest’ultima come viene influenzata dalla diseguaglianza economica? E la diffusione di internet, che impatto esercita sulla qualità della vita?

Era per cercare una risposta a queste domande che la Winter School, ideata da Stefano Bartolini, Luigino Bruni e Francesco Sarracino e finanziata dalla Regione Toscana, aveva selezionato giovani economisti, sociologi, antropologi, psicologi, provenienti da Cina, Stati Uniti, Gran Bretagna, Corea del Sud, Italia, Francia, Svizzera, Sud Africa, e Romania. Il motore dell’iniziativa, l’allora assessore all’agricoltura Gianni Salvadori, riteneva che la Toscana fosse il luogo ideale per una riflessione globale sulla qualità della vita, essendone uno dei simboli riconosciuti in tutto il mondo. E la qualità della vita è un tema caldo, così sentito da avere indotto i vari istituti statistici nazionali del mondo (come il nostro ISTAT) a riformare le proprie statistiche per fornirne una miglior valutazione. Dopotutto, a cos’altro dovrebbero essere finalizzate le scelte economiche, sociali e culturali che facciamo, se non a migliorare la qualità della nostra vita?

Le ricerche della Winter School si sono da poco concluse. Esse considerano una varietà di aspetti della qualità della vita, dalla salute delle persone alla loro felicità, alla qualità della formazione scolastica. Le questioni affrontate sono di rilievo. Vediamole.

Diseguaglianza dei redditi e felicità

Nei Paesi dove le diseguaglianze dei redditi sono più forti la gente è più o meno felice? La ricercatrice Laura Ravazzini dell’Università di Neuchatel mostra che nelle società più diseguali sia gli strati della società più deboli economicamente che quelli più forti godono di minor benessere. Il messaggio colpisce: il problema dell’alta diseguaglianza non è che divide tra vincenti e perdenti, il problema è che trasforma tutti in perdenti. La spiegazione più plausibile la forniscono altri noti studi che mostrano che le società più diseguali funzionano peggio per aspetti che sono molto rilevanti per la felicità, come maggiore criminalità e più disagi giovanili, maggior solitudine e isolamento, meno fiducia nel prossimo e, in media, una salute peggiore. La diseguaglianza è aumentata rapidamente in Italia negli ultimi 15 anni. Sembra arrivato il momento di un azione decisa per ridurla.

Lavorare più a lungo: effetti sulla salute

Di fronte ai problemi di sostenibilità dei sistemi pensionistici praticamente tutti i Paesi hanno intrapreso la stessa soluzione:
aumentare l’età pensionabile. Ma quali sono gli effetti sulla salute del lavorare sempre più lungo? Il dibattito finora oppone due fazioni: da un lato coloro che sono convinti che il lavoro sia soprattutto stress e, quindi, che in età avanzata sia dannoso per la salute. E dall’ altro, coloro che pensano che il lavoro sia soprattutto motivazione, identità, relazioni, e che quindi sia parte della ricetta per mantenersi a lungo sani e giovani. Lo studio di Chiara Ardito, del Collegio Carlo Alberto di Torino, sfrutta con metodologie robuste una base dati Italiana di grande qualità costruita con grandi sforzi e conclude che hanno ragione i primi: le malattie cardiovascolari e la mortalità sono aumentati significativamente a causa della riforma Dini che ha aumentato l’età pensionabile. Alcune categorie sono risultate particolarmente vulnerabili all’aumento dell’età pensionabile, fra questi i lavoratori manuali, con bassi salari e che hanno avuto carriere più intense.

Quindi l’innalzamento dell’età pensionabile non comporta solo risparmi per il bilancio pubblico, ma anche dei costi. Si tratta di un risparmio su certe poste del bilancio pubblico (pensioni) ottenuto trasferendo dei costi su altre poste, quelle relative al sistema sanitario nazionale. Se il saldo per il bilancio pubblico sia positivo o negativo è una questione aperta alla quale questo studio non risponde. Ma i costi dell’aumento della età pensionabile a carico del sistema sanitario nazionale sono probabilmente sostanziali. Infatti, lo studio della Ardito riguarda solo l’aumento delle malattie cardiovascolari e della mortalità, cioè eventi gravi o estremi. Che questi eventi rappresentino la punta dell’iceberg di un peggioramento generale della salute di lavoratori sempre più anziani è più di un sospetto. E questo aggravamento potrebbe pesare molto sulle casse del sistema sanitario nazionale. E poi non è solo una questione di soldi ma anche di qualità della vita. Da questo punto di vista è possibile che un risparmio nei conti pensionistici non valga i grandi costi umani di un peggioramento della salute indotto da un aumento della età pensionabile.

Di quale mercato del lavoro abbiamo bisogno?

Per rispondere a questa domanda il californiano Robson Morgan, che lavora con il guru delle ricerche sulla felicità - Richard Easterlin - è partito dalla constatazione che la crisi economica aveva prodotto perdite di felicità nelle nazioni colpite. Ma ha notato che queste perdite non erano distribuite uniformemente tra i vari Paesi: in alcuni casi vi sono state epidemie di infelicità e malumore collettivo, in altri casi le perdite di felicità sono state più limitate. Morgan ne ha scoperto un motivo confrontando un vasto numero di Paesi: le differenze nel mercato del lavoro. Alcuni tipi di mercato del lavoro avevano funzionato meglio di altri nel proteggere il benessere della gente in tempi di crisi.

Quello che aveva contato era il livello di protezione del posto di lavoro e di spese in politiche attive del lavoro. Tali spese includono quelle per programmi di formazione e riqualificazione del lavoro, di creazione di posti di lavoro, di supporto al collocamento. Questo tipo di spese hanno avuto un impatto significativo nel moderare i danni della crisi. Invece un’elevata protezione del posto di lavoro ha amplificato l’effetto negativo della crisi sul benessere. Questo risultato può apparire sorprendente, ma Morgan lo spiega con il fatto che nei mercati del lavoro più rigidi è anche più difficile ritrovare lavoro nel caso lo si perda. È come se la rigidità del mercato del lavoro amplificasse i rischi connessi alla perdita del posto di lavoro. In altre parole, una ampia protezione del posto di lavoro di fatto crea un mercato del lavoro duale, spaccato tra garantiti - terrorizzati in tempi di crisi dal perdere i loro privilegi - e frustrati - esposti alla flessibilità più selvaggia.

La ricetta migliore sembra essere: elevate spese in politiche attive e pochi vincoli al licenziamento. Questo mix è l’identikit della flexsecurity, inventata originariamente in Danimarca. È questo il modello di mercato del lavoro che sembra vincente, almeno per quanto riguarda la protezione che esso offre dai danni che le crisi economiche producono alla felicità. Questi risultati hanno rilevanza per l’attuale dibattito sul mercato del lavoro nel nostro paese. Il Jobs Act infatti si è concentrato sulla flessibilità ma ha trascurato la sicurezza, cioè gli investimenti in politiche attive del lavoro.

Invidiare da soli

Un’altra questione importante per il benessere delle persone riguarda il ruolo dei cosiddetti paragoni sociali. Per spiegare cosa sono partiamo dall’esempio di un individuo medio, il sig. Rossi. Egli confronta ciò che possiede e il suo stile di vita con quello di un selezionato gruppo di persone che rispetta e alle quali vuole somigliare. Queste persone, dette gruppi di riferimento, determinano lo standard dei consumi a cui il sig. Rossi aspira e persino ciò che considera un bisogno. In questo senso il benessere che il sig. Rossi ricava dai beni che consuma dipende dai paragoni sociali che egli stesso compie. Avere molto può sembrare poco al sig. Rossi se quelli a cui si paragona hanno di più. In altre parole i paragoni sociali sono un potente motore del paradosso della insoddisfazione moderna, secondo cui se da un lato la prosperità migliora la qualità della vita, dall’altro alimenta i paragoni sociali generando infelicità.

Il polacco Marcin Piekalkiewicz suggerisce un’interessante strategia per ridurre l’impatto negativo dei paragoni sociali: investire in relazioni sociali. Il giovane ricercatore mostra, utilizzando varie banche dati e diverse metodologie, che le persone più ricche di relazioni sociali attribuiscono meno importanza alle comparazioni sociali e ne stima l’effetto: l’interesse per le comparazioni sociali è praticamente annullato per coloro che, ad esempio, vedono i propri amici di frequente, che hanno qualcuno con cui parlare di cose personali e a cui rivolgersi in caso di aiuto, o che svolgono attività di volontariato. In altre parole, Piekalkiewicz mostra che le relazioni sociali non sono solo un collante del vivere insieme ed un motore della crescita economica, ma anche un importante balsamo contro gli effetti collaterali della crescita economica. Il motivo è che la solitudine, la scarsità di relazioni sociali, generano insicurezza e la gente tende a reagire ad essa cercando il successo economico come forma di rassicurazione e sostegno alla autostima.

Questo studio suggerisce che il forte tessuto sociale, comunitario e civile di buona parte dell’Italia (in particolare centro-nord), la vitalità del suo associazionismo, la qualità urbana dei centri storici delle sue città - che offre una coreografia ideale per lo sviluppo delle relazioni sociali - vanno sostenute dalle politiche nazionali e locali. Esse sono infatti componenti essenziali di un disegno di qualità della vita che promuove l’aspetto positivo della socialità e ne limita quello negativo, l’invidia sociale. Su alcuni aspetti, come le politiche per la qualità urbana, il nostro paese sembra segnalare invece un deciso ritardo rispetto a molti paesi europei.

Criminalità, fiducia e mass media

In generale, la qualità delle relazioni intime e sociali ha un impatto fondamentale sul benessere della gente. Le relazioni dipendono da fattori sociali molto più di quanto comunemente si pensi. Steven Gordon, un ricercatore proveniente dal Sud Africa, ha studiato l’effetto della criminalità e della percezione della criminalità sulla propensione delle persone a fidarsi degli altri. Ha considerato proprio il Sud Africa per il

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