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La VOCE ANNO XVIII N°8

aprile 2016

PAGINA 9

"Confessioni di un marxista irregolare nel mezzo di una ripugnante crisi economica europea". Intervento di Yanis Varoufakis

Nel maggio 2013 ho avuto il piacere di trattare quest’argomento durante il sesto Subversive Festival di Zagabria. Solo ora sono riuscito a metterlo per iscritto e ad espanderlo per quanto riguarda alcuni aspetti significativi.

1. 1. Introduzione. Una confessione radicale
Nel 2008, il capitalismo ha subito la sua seconda grande contrazione a livello mondiale, causando una reazione a catena che ha sprofondato l’Europa in una spirale recessiva che sta tuttora minacciando gli europei con un vortice di depressione permanente, cinismo, disintegrazione e misantropia.
Negli scorsi tre anni, mi è capitato di esprimermi sul momento difficile dell’Europa di fronte a platee estremamente variegate. Migliaia di dimostranti anti-austerity a Piazza Syntagma ad Atene, staff della Federal Reserve di New York, europarlamentari dei Verdi al Parlamento Europeo, analisti della Bloomberg a Londra e New York, studenti nei sobborghi degradati di Atene e New York, la Camera dei Comuni di Londra, attivisti di Syriza a Salonicco, proprietari di fondi comuni d’investimento a Manhattan e a Londra, la lista è lunga tanto quanto la progressiva ritirata dei leader europei da principi umanisti, e la ragione di tali interventi continua a persistere. Nonostante l’eterogeneità delle platee, il messaggio è stato sempre uno: l’attuale crisi europea non è solamente una minaccia per i lavoratori, per gli spossessati, per i banchieri, per gruppi particolari, classi sociali o persino nazioni. No, l’attuale atteggiamento dell’Europa pone una seria minaccia alla civiltà così come noi oggi la conosciamo.

Se la mia prognosi è corretta, e la crisi europea non è solamente un’altra caduta ciclica che verrà presto superata nel momento in cui i tassi di profitto aumenteranno in seguito all’inevitabile caduta dei salari, la questione all’ordine del giorno per i pensatori radicali è questa: dovremmo accogliere questo stallo totale del capitalismo europeo come un’opportunità per rimpiazzarlo con un sistema migliore? O dovremmo esserne talmente preoccupati da intraprendere una campagna per stabilizzare il capitalismo europeo? La mia risposta in questi tre anni è stata chiara, e la sua sostanza è stata male interpretata dalla summenzionata lista di diverse platee che ho tentato di influenzare. La crisi europea è, per come la vedo, gravida non di potenziali alternative progressiste, ma di forze radicalmente regressive che avrebbero la capacità di causare un bagno di sangue umanitario estinguendo la speranza di qualsiasi azione progressista per generazioni a venire.

A causa di tale teoria, da voci radicali in buona fede, sono stato accusato di “disfattismo”: un menscevico fuori tempo massimo che si batte senza sosta a favore di analisi il cui scopo sarebbe quello di salvare un sistema socio-economico europeo indifendibile. Un sistema che rappresenta tutto quello che un radicale dovrebbe condannare e combattere: un’Unione Europea anti-democratica, irreversibilmente neoliberista, altamente irrazionale, transnazionale, che ha possibilità praticamente nulle di evolvere in una comunità sinceramente umanista in cui le nazioni europee possano respirare, vivere e svilupparsi. Questa critica, lo confesso, mi fa male. E mi fa male perché contiene più di una parte di verità.

Infatti, condivido la visione di questa Unione Europea come un’istituzione fondamentalmente anti-democratica e irrazionale che sta conducendo i popoli europei verso un sentiero di misantropia, conflitto e recessione permanente. E mi inchino anche alla critica che io mi sto battendo su un’agenda che si basa sul presupposto che la sinistra era, e rimanga, sconfitta in pieno. E così si, in questo senso, mi sento costretto ad accondiscendere al fatto che vorrei che i miei obiettivi fossero di un altro tipo; vorrei molto più promuovere un programma la cui ragion d’essere sia la sostituzione del capitalismo europeo con un differente sistema più razionale – piuttosto che sforzarsi solamente per stabilizzare il capitalismo europeo che fa a pugni con la mia definizione di Buona Società.

A questo punto, forse può essere pertinente introdurre una seconda confessione: confessare che… le confessioni tendono sempre ad essere egocentriche. In effetti, le confessioni sono sempre molto simili a quel che John Von Neumann una volta disse parlando di Robert Oppenheimer dopo aver sentito dire che il suo ex direttore nel Manhattan Project si era trasformato in un attivista contro il nucleare e aveva confessato di sentirsi in colpa per il suo contributo alla carneficina di Hiroshima e Nagasaki. Le caustiche parole di John Von Neumann furono: “Sta confessando il peccato per rivendicarne la gloria”.
Grazie al cielo, non sono Oppenheimer e, di conseguenza, non sarà difficile evitare di rivendicare vari peccati come tentativo di auto-promozione ma, piuttosto, come una finestra da cui dare un’occhiata alle mie visioni di un capitalismo europeo ossessionato dalla crisi, profondamente irrazionale e ripugnante la cui esplosione, malgrado i suoi molti mali, dovrebbe essere evitata ad ogni costo. È una confessione con cui convincere i radicali del fatto che siamo chiamati ad una missione contraddittoria: arrestare la caduta libera del capitalismo europeo allo scopo di guadagnare il tempo di cui c’è bisogno per formulare l’alternativa.
1. 2. Perché sono un marxista?
Quando scelsi il tema della mia tesi di dottorato, nel 1982, scelsi, intenzionalmente, un argomento altamente matematico e un tema nel quale il pensiero di Marx era irrilevante. Quando, più tardi, intrapresi la carriera accademica, come professore in dipartimenti mainstream di Economia, il contratto implicito tra me e i dipartimenti che mi offrivano di tenere le lezioni era che avrei trattato quegli argomenti di teoria economica che non lasciavano spazio a Marx. Alla fine degli anni Ottanta, a mia insaputa, fui assunto all’Università di Sidney in modo da far fuori un altro candidato di sinistra. Poi, dopo il mio ritorno in Grecia nel 2000, unii i miei sforzi a quelli di George Papandreou, cercando di rimuovere il rischio del ritorno al potere di una risorgente destra ostinata a far tornare la Grecia in un atteggiamento di xenofobia (sia per quanto riguardava la politica interna, con un giro di vite contro i lavoratori migranti, sia in questioni di politica estera). Così come tutto il mondo sa ora, il partito del signor Papandreou non solo fallì nel combattere la xenofobia ma, invece, promosse le più virulenti politiche macroeconomiche liberiste comandate dai cosiddetti piani di salvataggio dell’Eurozona, causando involontariamente il ritorno dei nazisti per le strade di Atene. Nonostante io avessi rassegnato le mie dimissioni come consigliere del signor Papadreou all’inizio del 2006, e fossi divenuto uno dei critici più insistenti del governo durante la sua pessima gestione dell’implosione greca post-2009, i miei interventi nel dibattito pubblico in Grecia e in Europa (ad esempio la Modesta proposta per risolvere la crisi dell’Euro, della quale sono co-autore e per la quale mi sono battuto) non contenevano la minima traccia di marxismo.

In virtù di questo lungo sentiero attraverso le università e i dibattiti politici in Europa, uno potrebbe essere sorpreso dal vedermi tirar fuori il proverbiale segreto dal cassetto dichiarandomi marxista. Tali affermazioni non mi giungono naturali. Vorrei poter evitare le etero-definizioni (ovvero l’essere definiti in base al metodo e alla visione del mondo di qualcun altro). Marxista, hegeliano, keynesiano, humiano, sarei naturalmente predisposto a dire che non sono nessuna di queste cose; che ho trascorso il mio tempo cercando di diventare l’ape di Francis Bacon: una creatura che raccoglie il nettare da milioni di fiori e lo trasforma, nel suo stomaco, in qualcosa di nuovo, qualcosa di personale, un qualcosa che è debitore di ogni singolo fiore ma che non è definito da nessuno di essi preso singolarmente. Ma, ahimè, questo sarebbe falso, e dunque non un buon metodo per iniziare una…confessione.

A dire il vero, Karl Marx è stato responsabile nel formare la mia prospettiva del mondo in cui viviamo, dalla mia infanzia al giorno d’oggi. Non è qualcosa di cui parlerei volentieri molto nella buona società odierna perché la sola menzione della parola che inizia con M estingue ogni interesse della platea. Ma è una cosa che non ho mai nemmeno negato. In effetti, dopo alcuni anni trascorsi ad indirizzarmi a platee con le quali non condividevo il retroterra ideologico, è sorto recentemente in me un bisogno di parlare candidamente dell’influenza di Marx sul mio pensiero. Per spiegare il perché, il perché essere un marxista impenitente, penso che sia importante resistergli con ardore su molti argomenti. Essere, in altre parole, eretici nel proprio marxismo.
Se la mia carriera accademica ha largamente ignorato Marx, e i miei attuali consigli politici sono impossibili da descrivere come marxisti, allora perché tirar fuori ora il mio marxismo? La risposta è semplice: persino le mie visioni economiche non-marxiste sono guidate da un assetto mentale pesantemente influenzato da Marx. Ho sempre pensato che un teorico sociale radicale possa sfidare il pensiero economico dominante in due modi diversi: uno è attraverso la strada della critica immanente. Accettare gli assiomi dominanti e quindi esporne le contraddizioni interne. Dire: “Non contesto i tuoi presupposti, ma ecco perché le tue conclusioni non derivano logicamente da quelli”. Questo era, infatti, il metodo usato da Marx per minare il sistema dell’economia politica britannica. Marx accettò ogni singolo assioma di Adam Smith e David Ricardo al fine di dimostrare che, nel contesto delle loro assunzioni, il capitalismo era un sistema contraddittorio. La seconda strada che un teorico radicale può perseguire è, ovviamente, quella della costruzione di teorie alternative a quelle dell’establishment, sperando che esse verranno prese sul serio (che è ciò che gli economisti marxisti del tardo XX secolo stanno facendo).

Il mio parere su questa doppia alternativa è sempre stato che i poteri in carica non sono mai perturbati da teorie che partono da assunti diversi dai propri. Nessun economista dell’establishment presterà mai attenzione a un modello marxista o neo-ricardiano in questi
giorni. L’unica cosa che può destabilizzare e sfidare seriamente gli economisti mainstream neoclassici è la dimostrazione dell’inconsistenza dei loro propri modelli. È per questa ragione che, fin dall’inizio, ho scelto di penetrare nelle viscere della teoria neoclassica e di non spendere quasi nessuna energia nel tentativo di sviluppare modelli alternativi, marxisti, di capitalismo. Le mie ragioni, lo ammetto, erano piuttosto…marxiste[1].

Quando spinto a commentare il mondo in cui viviamo, in quanto contrario all’ideologia dominante sul funzionamento dell’economia globale, non avevo alternative che tornare alla tradizione marxista che aveva forgiato il mio pensiero sin da quando mio padre, metallurgista, aveva impresso in me, quando ero ancora bambino, l’importanza dei cambiamenti tecnologici e delle innovazioni nel processo storico. Come, per esempio, il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro velocizzò la storia; come la scoperta dell’acciaio accelerò il tempo storico dieci volte; e come le tecnologie informatiche basate sul silicio sono discontinuità storiche e socio-economiche di primaria importanza.
Questo trionfo costante della ragione umana sulla natura e sui mezzi tecnologici, che serve anche periodicamente ad esporre l’arretratezza delle nostre sovrastrutture sociali e delle nostre relazioni, è una prospettiva insostituibile che devo a Marx. Il suo materialismo storico fu rinforzato nel modo più interessante e inaspettato. Chiunque abbia guardato l’episodio di Star Trek Voyager intitolato “In un batter d’occhio”, riconoscerà una meravigliosa raffigurazione in quarantacinque minuti del materialismo storico al lavoro: un’impressionante narrazione del processo per cui lo sviluppo dei mezzi di produzione genera progressi tecnologici che costantemente mettono in discussione la superstizione e creano impulsi storici che, in maniera non lineare, generano nuove fasi della civilizzazione.

Il mio primo incontro con i testi di Marx avvenne molto presto nella mia vita, come risultato degli strani tempi in cui mi ritrovai a crescere, con la Grecia intenta ad uscire dall’incubo della dittatura neofascista del 1967-1974. Quel che attirò la mia attenzione fu l’insuperabile, affascinante dono di Marx nel ritrarre la storia umana come un’opera teatrale, in cui la dannazione umana è riscattata da una reale possibilità di salvezza e da una spiritualità autentica. Leggendo frasi quali…
“la moderna società borghese con le sue condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, una società che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate”. (Il Manifesto del Partito Comunista, 1848) …sembrava quasi di presenziare a un incontro fra, da una parte, Faust e il Dottor Frankestein, e dall’altra, Adam Smith e David Ricardo, nella creazione di una narrativa popolata da figure (lavoratori, capitalisti, funzionari, scienziati), che erano gli attori drammatici della Storia, agenti che combattevano per imbrigliare la ragione e la scienza allo scopo di rendere più forte l’umanità mentre, contrariamente alle loro intenzioni, scatenavano forze infernali che usurpavano e sovvertivano la loro libertà e la loro umanità.

Questa prospettiva dialettica, in cui ogni cosa genera il suo opposto, e l’occhio acuto con cui Marx individuava il potenziale per il cambiamento nelle strutture sociali apparentemente più fisse e immutabili, mi aiutò a cogliere le grandi contraddizioni dell’epoca capitalista. Dissolveva il paradosso di un’età che generava le condizioni di benessere più notevoli e, nello stesso istante, la povertà più nera. Oggi, volgendosi alla crisi europea, alla crisi di realizzazione americana, alla stagnazione di lungo termine del capitalismo giapponese, quasi tutti i commentatori non riescono a cogliere il processo dialettico che si svolge sotto il loro naso. Riconoscono la montagna di debiti e le perdite delle banche, ma dimenticano l’altro lato della medaglia, la sua antitesi: la montagna di risparmi inattivi che sono congelati dalla paura e che dunque non si convertono in investimenti produttivi. Un’attenzione marxista alle opposizioni binarie li avrebbe aiutati ad aprire gli occhi…

Una delle ragioni principali per cui l’opinione dominante non riesce a fare i conti con la realtà contemporanea è che non ha mai compreso la tensione dialettica della produzione congiunta di debiti e surplus, di crescita e disoccupazione, di benessere e povertà, di spiritualità e depravazione, per non dire di bene e male, di nuove forme di piacere e di schiavitù, di libertà e sottomissione: di questo calderone di opposizioni binarie che gli scritti drammatici di Marx ci indicavano come le risorse dell’ingegno della Storia.
Fin dalle mie prime riflessioni come economista, giungendo ad oggi, mi è sempre parso chiaro come Marx abbia compiuto una scoperta che sarebbe dovuta rimanere il punto centrale di ogni utile analisi del capitalismo.

Questa scoperta era, ovviamente, quella di un’altra opposizione binaria intrinseca al lavoro umano. Questo è dotato di due nature differenti:
1) lavoro come creazione di valore (respiro vitale), attività che non può mai essere specificata o quantificata in anticipo (e per cui impossibile da mercificare) e,
2) lavoro come quantità (numero di ore di lavoro), utilizzato per la vendita e trasformato in un prezzo. Ciò è quel che contraddistingue il lavoro da altre risorse produttive come l’elettricità: la sua duplice, contraddittoria natura. Una differenza-contraddizione che gli economisti politici dimenticavano di fare prima di Marx, e che gli economisti mainstream rifiutano fermamente di accettare tutt’oggi.

Sia l’elettricità che il lavoro possono essere pensati come merci. Tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori lottano per mercificare il lavoro. I datori di lavoro usano tutta la loro ingegnosità, e quella dei loro manager delle risorse umane, per quantificare, misurare e omogeneizzare il lavoro. Allo stesso tempo i potenziali impiegati si dannano l’anima in un tentativo ansioso di mercificare il loro potere lavorativo, scrivendo e riscrivendo i loro curricula per ritrarsi come fornitori di unità di lavoro quantificabili. E questo è il problema! Perché se lavoratori e datori di lavoro riuscissero a mercificare completamente il lavoro, il capitalismo morirebbe. Questa è una prospettiva senza la quale la tendenza del capitalismo di generare crisi cicliche non potrà mai venire pienamente compresa, una prospettiva alla quale nessuno, senza una conoscenza di base del pensiero di Marx, avrà mai accesso.

1. 3. La fantascienza diventa documentario
In un grande classico, il film del 1953 L’invasione degli ultracorpi, gli alieni non ci attaccano frontalmente, a differenza, ad esempio, di quel che accade in La guerra dei mondi di H.G. Wells. Piuttosto, gli umani sono attaccati dall’interno, fino a che non rimane nulla della loro anima e delle loro emozioni. I loro corpi sono tutto ciò che rimane, come gusci che una volta contenevano una libera volontà e che ora lavorano, attraversano meccanicamente la vita quotidiana, e funzionano da simulacri umani “liberati” dall’aleatoria capricciosità della natura umana. Questo processo è equivalente alla trasformazione necessaria a trasformare il lavoro umano in una fonte di energia non differente dai semi, dall’elettricità, in effetti dai robot. Parlando in termini moderni, è quel che sarebbe accaduto se il lavoro umano fosse diventato perfettamente riducibile a capitale umano e dunque adatto ad essere inserito nei rozzi modelli economici.
Provate a pensarci, ogni singola teoria economica non marxista che tratta gli impulsi produttivi umani e non-umani come se fossero intercambiabili, quantità qualitativamente equivalenti, adotta il presupposto che la de-umanizzazione del lavoro umano sia completa. Ma se tale processo giungesse mai ad essere completo, il risultato sarebbe la fine del capitalismo inteso come sistema capace di creare e distribuire valore. Innanzitutto, una società di simulacri de-umanizzati, o automi, assomiglierebbe ad un orologio meccanico pieno di ingranaggi e molle, ognuno con la sua propria funzione, e che nel complesso producono un “bene”: la misurazione del tempo. Ma se questa società contenesse nient’altro che automi, la misurazione del tempo non sarebbe un “bene”. Sarebbe un “prodotto”, certamente, ma perché mai un “bene”? Senza esseri umani reali a sperimentare il funzionamento dell’orologio, non potrebbero esserci cose come “beni” o “mali”. Una “società” di automi sarebbe, così come gli orologi meccanici o dei circuiti integrati, piena di ingranaggi funzionanti, dimostrando una funzione, una funzione che però non potrebbe venire descritta né in termini morali, né di valore.

Dunque, per ricapitolare, se il capitale dovesse mai riuscire nel quantificare, e dunque nel mercificare completamente, il lavoro, così come prova a fare in ogni momento, lo prosciugherebbe anche di quell’indeterministica, recalcitrante libertà umana che permette la generazione del lavoro. La brillante rivelazione di Marx riguardo l’essenza più profonda delle crisi capitaliste era precisamente questa: maggiore sarà il successo del capitalismo nel convertire il lavoro in una merce, minore sarà il valore che ogni unità genererà, minore il profitto e, infine, più vicina la prossima odiosa recessione sistemica dell’economia. Il ritratto della libertà umana intesa come categoria economica è un aspetto unico del pensiero di Marx, rendendo possibile una peculiare e astute interpretazione drammatica e analitica della propensione del capitalismo a piombare nella recessione, persino nella depressione, a partire dalle fasi più sfrenate di crescita.

Quando Marx scriveva che il lavoro era il fuoco vivente che dava forma alle cose, la transitorietà delle cose, la loro temporalità, stava fornendo il più grande contributo che ogni economista abbia mai dato alla nostra comprensione della profonda contraddizione sepolta dentro il DNA del capitalismo. Quando ritraeva il capitale come “una forza cui dobbiamo sottometterci…che sviluppa un’energia cosmopolita, universale, che oltrepassa ogni limite e rompe ogni legame, e si pone come unica regola, unica universalità, solo limite e solo legame”[2], stava evidenziando la realtà per cui il lavoro può essere comprato tramite capitale liquido (denaro), nella sua forma di merce, ma porta sempre dentro di sé un desiderio ostile al capitalista compratore. Ma Marx ..Leggi tutto..


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