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LA VOCE 1311 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XVI N°3 | novembre 2013 | PAGINA 3 - 23 |
segue: Contro lintroduzione del reato di "negazionismo" Revisionismo estremo, rovescismo e negazionismo non si fondano su scoperte documentarie, o su problemi autentici che l’accesso a eventuali nuove fonti pongono al ricercatore: essi perseguono un fine che nulla ha a che fare con la verità e con le pratiche volte al suo accertamento. In particolare, i negazionisti vogliono contestare, sulla base di arzigogolati e capziosi ragionamenti, la verità dei campi di sterminio: ossia, la pratica “scientifica” e “industriale” di eliminazione sistematica attuata dai nazisti contro gli Ebrei (e Sinti e Rom; e Slavi, omosessuali, Testimoni di Genova, “comunisti”...). Una verità accertata grazie a migliaia di documenti e testimonianze, viene derubricata a una diceria, a una grandiosa mistificazione, o nella migliore delle ipotesi a una “esagerazione”. Nacque nella Francia del Dopoguerra, il movimento negazionista, sulla base di spunti di intellettuali filofascisti quali Maurice Bardèche e Robert Brasillach (condannato a morte per collaborazionismo con i nazisti), che non negavano l’esistenza dei lager, ma affermavano che le morti di prigionieri erano dovute a cause “naturali”, e ancora più all’arrivo dei liberatori russi (si sa che Auschwitz fu appunto liberato dall’Armata Rossa). L’“inventore” del negazionismo fu tuttavia un altro francese, Paul Rassinier, che aveva militato a sinistra e, addirittura, era stato nei campi di concentramento tedeschi, ma che, cercò di attribuire ogni responsabilità all’Unione Sovietica, minimizzando la pratica genocida nazista, arrivando infine a negarla. Ecco la Shoah diventare, nei suoi libri, un po’ alla volta, “un’impostura”. Non varrebbe la pena di confutare i seguaci di Rassinier; ma come dicevo il negazionismo sta diventando un fenomeno non irrilevante. La risposta legislativa è quella giusta per ostacolarne la diffusione? Ribadisco il mio no. Ma non solo perché la libertà di espressione deve rimanere intatta, finché si tratti di idee; e neppure basta ricordare che la persecuzione degli Irving ne fa degli eroi proprio di quella libertà, con un effetto esattamente opposto a quello perseguito. Il no, come si evince dal manifesto contro la proposta Mastella, a cui facevo riferimento, è soprattutto connesso a un fatto: non ci può essere un’autorità (politica, giudiziaria, mediatica...) che decide la Verità della Storia. La sola auctoritas è quella che promana dalla comunità degli studiosi, in un lento lavoro collettivo di costruzione della conoscenza, a cui ogni singolo, ogni generazione, porta il suo contributo, in un incessante lavoro di “revisione”, sulla base di nuove fonti, di tecniche perfezionate, di domande nuove a fonti già note. La conoscenza storica, per tal via,“non facit saltus”, di regola: procede piuttosto per accumulazione, correzione, integrazione. Soltanto la comunità degli studiosi, in tale paziente opera edificatoria (che implica anche le demolizioni e le ricostruzioni “ab imis”, in casi estremi), è deputata a verificare la validità delle acquisizioni dei singoli, censurandole quando scorrette, imprecise, errate; accettandole quando in linea coi crismi scientifici della ricerca. Aggiungo che la mobilitazione volta combattere il negazionismo implica una battaglia in difesa del metodo storico, e contro l’invasiva pseudostoria che ci viene ammannita nell’eterno talk show televisivo, in cui tutti i fatti della Storia sono buttati nel tritacarne della chiacchiera, e trasformati in “opinioni”. Tutte equivalenti, tutte legittime allo stesso grado, perché “de minimis non curat”, il conduttore di turno: e le cose minime per i rivenduglioli di pseudostoria sono proprio i punti essenziali della pratica storiografica: metodo, tecniche, rigore scientifico. Pur sapendo che in Europa esistono situazioni assai differenziate, e che la memoria del “passato che non passa” assume pesi diversi in paesi diversi (il che spiega legislazioni come quella austriaca che ha portato in carcere Irving), la linea di fondo da cui non si può deflettere è che non occorrono leggi per imporre la Verità. Le conseguenze possibili sono inquietanti: come non pensare a un “antinegazionismo” che diventa religione politica di Stato? Per tal via, scriveva Enzo Traverso, «potrebbe conoscere la stessa triste parabola conosciuta dall’antifascismo, trasformato in ideologia di Stato nei paesi del blocco sovietico. La legittimità dell’antifascismo è stata così distrutta quasi completamente. Se invece le leggi antinegazioniste non si basano su un principio generale, ma prevedono soltanto un’eccezione relativa all’Olocausto, rischiano allora di suscitare un’incomprensibile discriminazione o addirittura una nociva “concorrenza” tra le memorie delle violenze del passato, tra le vittime o i loro discendenti...» (nel dibattito sul “Caso Irving”, in “HM. Notiziario di Historia Magistra”, n. 9, 2006). Sarebbe, al contrario, utile che la Politica facesse un bel passo indietro rispetto al lavoro della Storiografia; e, in un’Italia sovraccarica di usi (e abusi) politici della Storia, il ceto parlamentare e di governo si occupasse della corretta amministrazione dello Stato. Lasciando a chi di dovere il compito di produrre cultura, di fare ricerca, e di combattere, con le armi proprie – metodo, metodo e ancora metodo – le forme di pseudoconoscenza là dove esse si manifestano. Ministro Mastella, ci lasci lavorare, per cortesia! --- http://www.camerepenali.it/news/5502/Al-negazionismo-si-risponde-con-le-armi-della-cultura-non-con-quelle-del-diritto-penale.html 16/10/2013 LUnione critica aspramente lintroduzione in Italia del reato di "negazionismo", ennesimo, pessimo esempio di legislazione reattiva e simbolica. Al negazionismo si risponde con le armi della cultura non con quelle del diritto penale. Dopo il femminicidio la Shoah, continua la deriva simbolica del diritto penale che fa del male, prima di tutto, proprio ai simboli che usa. Lintroduzione anche in Italia del reato di "negazionismo" era stata annunciata da più di un Ministro negli ultimi anni ma si era sempre arenata anche a seguito del diffuso dissenso da parte di storici e giuristi. Ora lipotesi viene frettolosamente e pressoché unanimemente riesumata dalla Commissione Giustizia del Senato, con un emendamento che, oltre ad ampliare ed aggravare le ipotesi di apologia di reato, porterebbe ad introdurre nellart. 414 del codice penale una sanzione per chi "nega crimini di genocidio o contro lumanità". Già vivificare una categoria di reati come quelli di apologia, che in una legislazione avanzata dovrebbero essere espunti, è operazione di retroguardia, ma inserire un reato di opinione, come quello che è la risultante della indicata modifica, è ancora più sbagliato. La tragedia della Shoah è così fortemente scolpita nella storia e nella coscienza collettiva del nostro Paese, da non temere alcuno svilimento se una sparuta minoranza di persone la pone in dubbio o ne ridimensiona la portata. Anzi, proprio il rispetto che si deve al dramma della Shoah, e alle milioni di vittime innocenti che ha travolto, dovrebbe consigliare ai legislatori di evitare di trasformare il codice penale senza tener conto dei principi fondamentali del diritto moderno, abbandonando la via della risposta reattiva rispetto ai fatti di cronaca ed imboccando quella di un diritto penale minimo e costituzionalmente orientato. Per contro, lidea di arginare unopinione - anche la più inaccettabile o infondata - con la sanzione penale è in contrasto con uno dei capisaldi della nostra Carta Costituzionale, la quale allart. 21 comma 1 non pone limiti di sorta alla libertà di manifestazione del pensiero. Ed il giudizio su un accadimento storico - per quanto contrastante con ogni generale e documentata evidenza o moralmente inaccettabile - in altro modo non può definirsi se non come unopinione, che dunque non può mai essere impedita e repressa dalla giustizia penale: spetterà alla comunità scientifica rintuzzarla, ove sia il caso, e alla maturità dellopinione pubblica democratica lasciare nellisolamento chi la formula. A coloro che negano la Shoah bisogna rispondere con le armi della cultura, e, se si vuole, con la censura morale, ma non con il codice penale. Del resto, anche un solo argine - benché eticamente condivisibile - allesercizio delle libertà politiche (e tale è, prima fra tutte, la libertà di espressione) introduce un vulnus al principio che lelenco di esse deve restare assolutamente incomprimibile: quellelenco infatti, come diceva Calamandrei "non si può scorciare senza regredire verso la tirannide". Roma, 16 ottobre 2013 La Giunta |