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per perorare la loro liberazione è che gli Stati Uniti rinuncino alla guerra contro Cuba, tolgano l’embargo, stabiliscano relazioni, concedano l’estradizione di Posada Carriles e liberino i Cinque, prigionieri negli Stati Uniti da ormai quasi 12 anni.
[N.d.tr.: I "Cinque giovani cubani", vittime del disturbo ossessivo-compulsivo che affliggeva George W. Bush, negli anni Novanta, furono inviati di nascosto negli Stati Uniti per infiltrarsi nei gruppi terroristici anticastristi. Ora sono reclusi in carceri nordamericane. Funzionari del governo dell’Avana ammettevano di aver mandato quegli agenti dell’intelligence cubana perché l’FBI non si impegnava a tener sotto controllo le attività eversive contro Cuba. Ma, invece di prendere in considerazione le informazioni raccolte da questi agenti sui progetti terroristici nei confronti dell’Isola, il pubblico ministero del Dipartimento di giustizia di Miami, l’8 giugno 2001 li processava e condannava per spionaggio.]
Forse il presidente Obama potrebbe essere troppo impegnato a risolvere i problemi economici, le guerre in Iraq e in Afghanistan e la riforma della sanità per prestare molta attenzione a Cuba.
Forse ha demandato ai burocrati del Dipartimento di Stato e del Consiglio di Sicurezza Nazionale la risoluzione di questi problemucci, ed è per questo che stiamo dove stiamo.
Tutto deriva da una premessa sbagliata e ricca di equivoci. Più di 100 anni di aggressioni statunitensi contro Cuba si sono basati sull’idea errata che Cuba sia una proprietà di Washington. Ancora viene assunta come valida la arrogante considerazione dell’allora Segretario di Stato John Quincy Adams nel 1823:
"Esistono leggi politiche, simili alla legge di gravitazione naturale. Come una mela strappata dalla tempesta al suo albero, la sua origine, non può fare a meno di cadere per terra, Cuba, per forza di cose, separata dalla sua innaturale connessione con la Spagna, e incapace di sostenersi per se sola, ha l’unica possibilità di gravitare verso l’Unione americana, la quale, per la medesima legge di natura, non può che accoglierla nel suo seno."
Da questo errato presupposto sgorga il concetto che gli Stati Uniti hanno il potere di fabbricare dissidenti, "blogger e twitterer", sempre controllati da Washington e da Miami: come se tutto questo derivasse da una legge di natura. Che questa elucubrazione straniera possa ottenere una qualche forma di legittimazione a Cuba rimane un mito a cui credono soltanto coloro che non conoscono l’Isola e che non vivono qui.
Con tutti i milioni di dollari annualmente investiti in questo affare, Washington non ha creato una opposizione e tanto meno un partito politico. Ha solamente messo in piedi a Cuba una industria di persone felici di ricevere gruzzoli importanti di denaro per dissentire, aprire blog e fare comunicazione attraverso Twitter.
A Cuba, esiste una grande diversità di opinioni, tutte legittime, relative al futuro del Paese. Chiunque ha fatto la fila al negozio degli alimentari o partecipa alle discussioni organizzate nell’Isola, questo lo sa. Queste discussioni avvengono tanto nei luoghi di lavoro come nelle riunioni del Partito.
Però su un punto c’è l’unanimità: Cuba appartiene ai Cubani e non agli USAmericani!
Per questo principio filosofico derivato direttamente da José Martì (N.d.tr.: leader del movimento per l’indipendenza cubana; a Cuba è considerato il più grande eroe nazionale, forse anche più di Che Guevara) i Cubani sono disposti a serrare i ranghi e a morire.
Se Washington arrivasse a capire questo, dovrebbe eliminare l’embargo e tutto quello che ne corrisponde e deriva. Sfortunatamente, questo è un concetto che appare essere contro natura ad un Washington imperiale che considera Cuba come il suo giardinetto politico dietro casa.
L'altro giorno, presso la Casa delle Americhe, Silvio Rodríguez ha sottolineato come "Cuba non è un paese normale, per quello che ha preteso di essere e tanto più per il trattamento che le è stato riservato per ciò che ha preteso di essere. Indipendente!
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