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  La VOCE ANNO XII N° 3        novembre 2009           PAGINA 4     

giovane: mors mea, vita tua. Per inciso, è in questa fase che, nella contraddizione tra la natura pubblica dell’università e l’aspirazione personale alla discendenza culturale, si rende evidente la labilità, nell’accademia, del limite tra pubblico e privato.


Ma di questo non tratteremo. Il comportamento del ricercatore caduco, date le premesse, è fortemente condizionato dai desiderata, anche inespressi, del professore-madre e dai suoi stili di vita. Lo imita.


Se il professore è poco sociale e dedica tempi lunghi alla ricerca in laboratorio o in biblioteca, il precario, per analogia, non partecipa alla vita collettiva della società di cui, nonostante tutte le ritrosie, pure fa parte.


E, sempre per analogia, mantiene il silenzio. Ma – e qui risiede l’interesse del caso in esame – se il professore pratica invece vita sociale, sforando nei casi più estremi nella politica attiva, il precario anziché seguire le orme del prof-madre, inaspettatamente ne disconosce l’autorità su tale versante comportamentale e insiste nel non professare sociabilità. Le motivazioni sono molteplici e complesse, ma possiamo riassumerle in due filoni principali:


1) la finitezza delle risorse a disposizione dell’individuo più giovane: il lavoratore avventizio, multifunzionale per natura, esercita la propria provvisorietà in molti campi ed è perciò poco propenso a disperdere energie e ad impegnarsi in attività sociali, sindacali o politiche che non gli garantiscano direttamente la sopravvivenza economica. Risultato: meglio astenersi, non c’è né forza né tempo.


2) la fugacità dell’esistenza lavorativa del temporaneo (e della sua esistenza in vita tout court): l’intermittente adotta perciò comportamenti mimetici, non si espone, non eccelle mai, sa che ogni mossa falsa può renderlo riconoscibile e designarlo come vittima ad un predatore, o all’individuo amico che ne dispone vita e morte.


Ancora una volta tace. Infine, un’ulteriore causa dell’afonìa del lavoratore sporadico è ravvisabile nel controllo esercitato su di esso dai suoi simili: la diffidenza gli è costantemente dimostrata dai colleghi decidui che mai sono favorevoli allo scatto in avanti del singolo, al grido di sdegno, alla manifestazione di consapevolezza, allo strappo nella tela, e sempre invece animati da un sentimento misto di paura e vergogna.


Paura per caducità; vergogna per sottostima indotta («se non ce l’ho fatta, è colpa mia…» è il refrain del non-assunto). Il silenzio, in sintesi, si configura come risultato di pratiche individuali – ma estese capillarmente a tutta la popolazione precaria – di autocensura, autorepressione e autosegregazione, determinanti l’astensione di forze vitali dalla vita socio-politica di un paese che, è evidente, ne soffre la mancanza.


Non è facile individuare una soluzione al mutismo generazionale, se un governo (prima o poi) non dimostrerà la volontà di ridimensionare il fenomeno dei contratti creativi. Nell’attesa di tempi migliori, da parte dei lavoratori afasici sarà necessario acquisire consapevolezza delle condizioni di lavoro premoderne (non diremo schiavistiche per non offendere gli animi più sensibili) cui sono sottoposti, condizioni che tolgono diritti fondamentali a chi lavora, e che sanciscono una frattura sociale inaccettabile: da una parte i privilegiati (gli “strutturati”) con tutele e scatti stipendiali legiferati, e dall’altra i dannati, i free-lance senza protezione. La presa di coscienza sul piano dei diritti dovrà affiancarsi ad una rilettura disincantata dell’impalcatura

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