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ANDREA
MARTOCCHIA
La
precarietà accademica, ovvero il gioco del silenzio
È
legittimo chiedersi perché in Italia i precari, forza numericamente
rilevante, assorbano in silenzio i colpi impietosi loro inferti da un
sistema lavorativo che, qualche decennio fa, avrebbe procurato notti
insonni a datori di lavoro, privati o pubblici, a imprenditori o
rettori. Il fenomeno dei lavori a termine conosce, nell’ambiente
universitario, dove peraltro ha dimensioni dilaganti, la sua massima
espressione di afasia: al ricercatore-docente avventizio, con
mansioni da “adulto”, ma status di “giovane” individuo non
ancora accolto dalla comunità, è precluso l’ascolto e la parola.
Non sente la voce ufficiale dell’istituzione che lo esclude, più
per consuetudine che per legge, dalle assise accademiche e dalla
vita “democratica” di ateneo, adducendo a motivo la intrinseca
inafferrabilità della categoria precaria. Anche la voce sindacale,
cui il lavoratore disagiato è tradizionalmente sensibile, è
flebile: i sindacati stentano ancora ad accettare tanta perversione
in un territorio da sempre off-limits. Il lavoratore provvisorio non
sente il richiamo del branco, che non esiste. Il temporaneo della
ricerca e della docenza universitaria non è un animale gregario, si
mantiene su posizioni di autismo culturale; individuo solingo in un
ecosistema ostile, si concentra sulla propria sorte e ricama su se
stesso. I colleghi li ritiene competitori diretti, a maggior ragione
se precari anch’essi; anzi, più il lavoratore è instabile, più
teme i suoi simili. L’unico riferimento esterno è, per il
ricercatore avventizio, il professore-madre. Il rapporto filiale tra
professore e allievo, premessa indispensabile alla comprensione del
fenomeno, merita qui un approfondimento. Seguiamolo dalla nascita.
Il professore individua nella popolazione studentesca un soggetto in
cui, per affinità impalpabili, riconosce la propensione alla
prosecuzione della scuola; lo tiene sott’occhio, gli propone la
tesi, lo segue fino alla laurea; lo sostiene come candidato
dottorando: sono così posti i fondamenti della subordinazione
diretta del giovane al professore. L’individuo “analogo”
accede al corso di dottorato, ed ha una borsa per tre anni. È la
metamorfosi: il precario esce dal bozzolo; inizia il percorso di
precariato vero e proprio, costituito da una sequenza di assegni e
borse, di premi e concessioni. Si manifestano ora, acuti, i segni
della dipendenza, alimentati dalla promessa di una prossima (ma mai
troppo) dipartita dell’individuanzione che consentirebbe
“automaticamente” l’accesso ai ruoli
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