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La VOCE ANNO XXVI N°2

ottobre 2021

PAGINA         - 43

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segue da pag.42: assalto alla scuola repubblicana. passaggio da una scuola di stato ad una scuola a gestione comunitaria, a base territoriale, per mezzo di associazioni professionali (insegnanti e più in generale tutti i portatori legittimi di interesse). sono tutte cose che si leggono, neanche a farlo apposta, in un libro dal titolo eloquente “liberare la scuola”, edito lo scorso anno dalla casa editrice il mulino. anch’essa quasi completamente appiattita sulla nuova ideologia scolastica. si capisce, allora, come alla luce di queste considerazioni la valutazione degli apprendimenti non sia il vero centro della questione, che invece è perentoriamente occupato da un’ipotesi globale di revisione dell’organizzazione scolastica pubblica (con quello che tutto ciò comporta in termini di funzioni generali dell’istruzione). la posta in gioco dunque non è la preparazione dei nostri ragazzi, distrutta dalla scuola dell’autonomia, dalla didattica delle competenze, e dai loro improvvisati teorici, ma la semplice rimozione delle ultime tracce di quel peccato originale della repubblica che nacque conservando le strutture formative della tanto disprezzata italia liberale. un odio ideologico, a lungo covato soprattutto nelle pieghe di un certo risentimento cattolico e che oggi torna baldanzosamente in auge, sospinto, per un’ironia della sorte che certo i nostri fanatici non sono in grado di cogliere, dalla dilagante cultura protestante della nostra tarda modernità. commenti. anna emilia berti 4 agosto 2021 at 16:04. anche se non sono a conoscenza di alcuna indagine sistematica sulla percezione che i docenti universitari italiani hanno delle competenze linguiste, logiche e argomentative dei loro studenti, credo che si possa sottoscrivere l'affermazione di scotto di luzio che "da tempo, coloro che in un qualunque dipartimento universitario si ostinano a sottoporre i propri studenti a prove scritte si trovano a dover correggere prima di ogni altra cosa la grammatica della lingua italiana. e si tratta di "e" con l'accento e "a" senza h, di doppie e scempie a caso o meglio secondo la pronuncia errata della lingua parlata, di apostrofi dove non ci starebbero. parole mai lette e solo ascoltate (in qualche caso molto di rado) sono quasi sempre di incerta resa grafica. ma è tutta la struttura del linguaggio ad essere collassata in questi studenti, dalla scelta del lessico alla sintassi. inutile dire che non si tratta di mera forma, ma di organizzazione logica del pensiero mediata dal linguaggio. va aggiunto che questo disastro è ancora più evidente nelle tesi di laurea, quando si intuisce, dalle discontinuità stilistiche e di contenuto, che sono un assemblaggio di copia e incolla (e se ne ha la prova se si cerca verificarlo con una ricerca certosina, non limitandosi a software antiplagio ma anche all'esame di possibili fonti a stampa). come reagiscono a questa catastrofe i docenti universitari, e quali responsabilità hanno nei confronti della scuola e più in generale del paese? la mia esperienza, quando ho cercato di sollevare in problema nelle sedi istituzionali, è che se ne lavano le mani, affermando che non è loro compito fornire competenze di pertinenza dei precedenti gradi scolastici. e non ne tengono conto, nella valutazione degli studenti, dando loro dei voti altissimi, non corrispondenti alla reale formazione, in questo modo ingannando i futuri datori di lavoro. come documenta alma laurea nel rapporto 2021 sul profilo e sulla condizione occupazionale dei laureati "il voto medio di laureaè sostanzialmente immutato negli ultimi anni (103,2 su 110 nel 2020, era 103,0 su 110 nel 2010), ma con variazioni apprezzabili per tipo di corso di laurea: 100,1 per i laureati di primo livello, 105,6 per i magistrali a ciclo unico e 108,0 per i magistrali biennali". ho insegnato negli ultimi anni in corsi di laurea che formano esclusivamente (scienze della formazione primaria) o prevalentemente (laurea magistrale in pedagogia) insegnanti e mi sono chiesta più volte con angoscia cosa avrebbero combinato quegli studenti che bocciavo o a cui davo voti
bassissimi proprio per le lacune denunciate da scotto di luzio; e la mia angoscia aumentava constatando che queste lacune non avevano impedito agli stessi studenti di conseguire ottimi voti negli esami di altri insegnamenti. cosa potrebbe fare l'università? a mio avviso, la mossa più urgente dovrebbe consistere in una più seria selezione in ingresso, basata proprio sulla padronanza del linguaggio e l'organizzazione logica del pensiero; nel contempo andrebbero istituiti corsi e laboratori di scrittura a frequenza (in presenza o a distanza) obbligatoria. anche corsi su come leggere e studiare non ci starebbero male: dagli errori che spesso riscontro nei compiti sono giunta alla conclusione che molti studenti non siano in grado di cogliere i punti principali di un testo e le sue connessioni logiche. invece che limitarsi a imputare le inadeguatezze della scuola ai vari governi, sarebbe ora che gli universitari facessero un esame di coscienza e si interrogassero sulle proprie responsabilità. enrico rebuffat 5 agosto 2021 at 20:44. l'articolo mette in evidenza un fatto che, sebbene macroscopico, rischia di passare inosservato: i test invalsi vengono usati per criticare la bassa qualità della scuola e sostenere la necessità di continue riforme; ma i problemi di apprendimento che essi testimoniano sono in parte dovuti proprio a quel genere di riforme, che hanno progressivamente indebolito gli apprendimenti fondamentali come l'italiano. insegno da vent'anni nel liceo classico, dove teoricamente si iscrivono gli studenti più preparati in italiano: ma ormai ogni settembre sappiamo già che i nuovi iscritti, dopo otto anni di scuola, saranno sostanzialmente ancora da alfabetizzare nella loro lingua madre. per questo rispetto la scuola media è ormai da molto tempo un buco nero, che inghiotte gli studenti e dopo tre anni li licenzia quasi più deboli di come vi sono entrati. non è una coincidenza che la scuola media sia stata investita dal riformismo prima delle superiori, perdendo la bussola dei saperi fondamentali. nel liceo classico per un pò si è cercato di resistere. ma dieci anni fa, quando l'allarme per il deficit in italiano era già conclamato, con la ‘riforma gelminì le ore curricolari di italiano nel biennio furono ridotte del 20%, a fronte di un ampliamento dei programmi, che avrebbero dovuto comprendere anche l'avvio della storia della letteratura. da allora per i docenti la scelta è stata tra ricominciare con i dettati ortografici da terza elementare e tenere duro, sacrificando in parte i contenuti specifici dell'indirizzo, oppure chiudere un occhio (entrambi gli occhi) e fingere di non vedere: e non pochi hanno scelto per rassegnazione o per quieto vivere la seconda strada. al triennio, poi, purtroppo si è spesso privilegiato l'addestramento alle tipologie (peraltro effimere) dell'esame di stato, e ci si è compiaciuti di valorizzare i 'contenuti' come se questi potessero prescindere dalla loro espressione linguistica. è su problemi come questi che le riforme dovrebbero appuntarsi, non sulla paccottiglia da ‘scuola del futuro'. e dovrebbero farlo in primo luogo rimediando ai danni delle riforme precedenti. sorrenti 9 agosto 2021 at 13:03. grazie per l'efficace termine "paccottiglia da scuola del futuro". purtroppo al governo è pieno di gente che pensa che la paccottiglia sia didatticamente efficace e possa sostituire l'impegno dello studente. as bombi 6 agosto 2021 at 20:47. leggo il testo di adolfo scotto di luzio "assalto alla scuola repubblicana", e il commento di anna emilia berti, poco dopo aver ascoltato il discorso di virginia magnaghi, valeria spacciante e valeria grossi nella cerimonia di consegna dei diplomi presso la scuola normale di pisa. ..segue ./.
Segue da Pag.42: Assalto alla scuola repubblicana

passaggio da una scuola di Stato ad una scuola a gestione comunitaria, a base territoriale, per mezzo di associazioni professionali (insegnanti e più in generale tutti i portatori legittimi di interesse). Sono tutte cose che si leggono, neanche a farlo apposta, in un libro dal titolo eloquente “Liberare la scuola”, edito lo scorso anno dalla casa editrice il Mulino. Anch’essa quasi completamente appiattita sulla nuova ideologia scolastica.

Si capisce, allora, come alla luce di queste considerazioni la valutazione degli apprendimenti non sia il vero centro della questione, che invece è perentoriamente occupato da un’ipotesi globale di revisione dell’organizzazione scolastica pubblica (con quello che tutto ciò comporta in termini di funzioni generali dell’istruzione). La posta in gioco dunque non è la preparazione dei nostri ragazzi, distrutta dalla scuola dell’autonomia, dalla didattica delle competenze, e dai loro improvvisati teorici, ma la semplice rimozione delle ultime tracce di quel peccato originale della Repubblica che nacque conservando le strutture formative della tanto disprezzata Italia liberale. Un odio ideologico, a lungo covato soprattutto nelle pieghe di un certo risentimento cattolico e che oggi torna baldanzosamente in auge, sospinto, per un’ironia della sorte che certo i nostri fanatici non sono in grado di cogliere, dalla dilagante cultura protestante della nostra tarda modernità.

COMMENTI.

Anna Emilia Berti 4 Agosto 2021 At 16:04
Anche se non sono a conoscenza di alcuna indagine sistematica sulla percezione che i docenti universitari italiani hanno delle competenze linguiste, logiche e argomentative dei loro studenti, credo che si possa sottoscrivere l'affermazione di Scotto di Luzio che "Da tempo, coloro che in un qualunque dipartimento universitario si ostinano a sottoporre i propri studenti a prove scritte si trovano a dover correggere prima di ogni altra cosa la grammatica della lingua italiana. E si tratta di "e" con l'accento e "a" senza h, di doppie e scempie a caso o meglio secondo la pronuncia errata della lingua parlata, di apostrofi dove non ci starebbero. Parole mai lette e solo ascoltate (in qualche caso molto di rado) sono quasi sempre di incerta resa grafica. Ma è tutta la struttura del linguaggio ad essere collassata in questi studenti, dalla scelta del lessico alla sintassi. Inutile dire che non si tratta di mera forma, ma di organizzazione logica del pensiero mediata dal linguaggio.
Va aggiunto che questo disastro è ancora più evidente nelle tesi di laurea, quando si intuisce, dalle discontinuità stilistiche e di contenuto, che sono un assemblaggio di copia e incolla (e se ne ha la prova se si cerca verificarlo con una ricerca certosina, non limitandosi a software antiplagio ma anche all'esame di possibili fonti a stampa).
Come reagiscono a questa catastrofe i docenti universitari, e quali responsabilità hanno nei confronti della scuola e più in generale del Paese?
La mia esperienza, quando ho cercato di sollevare in problema nelle sedi istituzionali, è che se ne lavano le mani, affermando che non è loro compito fornire competenze di pertinenza dei precedenti gradi scolastici. E non ne tengono conto, nella valutazione degli studenti, dando loro dei voti altissimi, non corrispondenti alla reale formazione, in questo modo ingannando i futuri datori di lavoro. Come documenta Alma Laurea nel Rapporto 2021 sul profilo e sulla condizione occupazionale dei laureati "Il voto medio di laureaè sostanzialmente immutato negli ultimi anni (103,2 su 110 nel 2020, era 103,0 su 110 nel 2010), ma con variazioni apprezzabili per tipo di corso di laurea: 100,1 per i laureati di primo livello, 105,6 per i magistrali a ciclo unico e 108,0 per i magistrali biennali".
Ho insegnato negli ultimi anni in corsi di laurea che formano esclusivamente (scienze della formazione primaria) o prevalentemente (laurea magistrale in pedagogia) insegnanti e mi sono chiesta più volte con angoscia cosa avrebbero combinato quegli studenti che bocciavo o a cui davo voti
bassissimi proprio per le lacune denunciate da Scotto di Luzio; e la mia angoscia aumentava constatando che queste lacune non avevano impedito agli stessi studenti di conseguire ottimi voti negli esami di altri insegnamenti.
Cosa potrebbe fare l'università? A mio avviso, la mossa più urgente dovrebbe consistere in una più seria selezione in ingresso, basata proprio sulla padronanza del linguaggio e l'organizzazione logica del pensiero; nel contempo andrebbero istituiti corsi e laboratori di scrittura a frequenza (in presenza o a distanza) obbligatoria. Anche corsi su come leggere e studiare non ci starebbero male: dagli errori che spesso riscontro nei compiti sono giunta alla conclusione che molti studenti non siano in grado di cogliere i punti principali di un testo e le sue connessioni logiche.
Invece che limitarsi a imputare le inadeguatezze della scuola ai vari Governi, sarebbe ora che gli universitari facessero un esame di coscienza e si interrogassero sulle proprie responsabilità.

Enrico Rebuffat 5 Agosto 2021 At 20:44
L'articolo mette in evidenza un fatto che, sebbene macroscopico, rischia di passare inosservato: i test Invalsi vengono usati per criticare la bassa qualità della scuola e sostenere la necessità di continue riforme; ma i problemi di apprendimento che essi testimoniano sono in parte dovuti proprio a quel genere di riforme, che hanno progressivamente indebolito gli apprendimenti fondamentali come l'italiano.
Insegno da vent'anni nel liceo classico, dove teoricamente si iscrivono gli studenti più preparati in italiano: ma ormai ogni settembre sappiamo già che i nuovi iscritti, dopo otto anni di scuola, saranno sostanzialmente ancora da alfabetizzare nella loro lingua madre. Per questo rispetto la scuola media è ormai da molto tempo un buco nero, che inghiotte gli studenti e dopo tre anni li licenzia quasi più deboli di come vi sono entrati. Non è una coincidenza che la scuola media sia stata investita dal riformismo prima delle superiori, perdendo la bussola dei saperi fondamentali.
Nel liceo classico per un pò si è cercato di resistere. Ma dieci anni fa, quando l'allarme per il deficit in italiano era già conclamato, con la ‘riforma Gelminì le ore curricolari di italiano nel biennio furono ridotte del 20%, a fronte di un ampliamento dei programmi, che avrebbero dovuto comprendere anche l'avvio della storia della letteratura. Da allora per i docenti la scelta è stata tra ricominciare con i dettati ortografici da terza elementare e tenere duro, sacrificando in parte i contenuti specifici dell'indirizzo, oppure chiudere un occhio (entrambi gli occhi) e fingere di non vedere: e non pochi hanno scelto per rassegnazione o per quieto vivere la seconda strada. Al triennio, poi, purtroppo si è spesso privilegiato l'addestramento alle tipologie (peraltro effimere) dell'esame di stato, e ci si è compiaciuti di valorizzare i 'contenuti' come se questi potessero prescindere dalla loro espressione linguistica.
È su problemi come questi che le riforme dovrebbero appuntarsi, non sulla paccottiglia da ‘scuola del futuro'. E dovrebbero farlo in primo luogo rimediando ai danni delle riforme precedenti.

sorrenti 9 Agosto 2021 At 13:03
Grazie per l'efficace termine "paccottiglia da scuola del futuro". Purtroppo al Governo è pieno di gente che pensa che la paccottiglia sia didatticamente efficace e possa sostituire l'impegno dello studente.

AS Bombi 6 Agosto 2021 At 20:47
Leggo il testo di Adolfo Scotto di Luzio "Assalto alla scuola repubblicana", e il commento di Anna Emilia Berti, poco dopo aver ascoltato il discorso di Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Valeria Grossi nella cerimonia di consegna dei diplomi presso la Scuola Normale di Pisa.

..segue ./.

  P R E C E D E N T E   

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