Last name:

 La VOCE   COREA   CUBA   JUGOSLAVIA   PALESTINA   RUSSIA   SCIENZA   ARTE 

Stampa pagina

 Stampa inserto 

La VOCE 2009

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  


GIÙ

SU


La VOCE ANNO XXIII N°1

settembre 2020

PAGINA 2         - 22

Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
segue da pag.21: imperialismo e movimento contro la guerra nel trentennio della ricolonizzazione. nel giro di pochi mesi, con l’esplodere della prima guerra del golfo – cioè con la aggressione occidentale contro l’iraq di saddam hussein –, il nostro movimento si trovò improvvisamente a doversi confrontare con la guerra vera e propria. fu uno shock fortissimo: da un lato, la critica teorica e indiretta divenne scontro diretto ed esplicito con gran parte del corpo docente di cui sopra, la cui ideologia tecnicista-tecnocratica si traduceva, rispetto alla guerra, in fideistica accettazione delle argomentazioni di politici, strateghi e militari in merito a “bombardamenti chirurgici” (sic) e “rispetto del diritto internazionale” (dato che per quella aggressione si usava il paravento onu, con la complicità della leadership tardo-sovietica); dall’altro, capivamo di essere testimoni della prima gravissima violazione del dettato costituzionale (art.11) dopo la seconda guerra mondiale cioè di essere, noi ventenni di allora, l’ultima generazione educata all’intransigenza sul ripudiodella guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali: violato quel principio, era stata aperta la breccia dalla quale sarebbero scappati tutti i buoi. eppure nel 1990 il sentire comune era ancora ben sintonizzato sul dettato di quell’articolo 11 e il dissenso sulla partecipazione italiana era palese: ricordo brevi interviste tv alla gente per strada, e tutte le risposte erano di sdegno e opposizione. contraddizioni si aprirono anche quando si affacciò l’eventualità che il nostro paese o singoli suoi cittadini dovessero pagare dei costi umani per quella sciagurata avventura – si pensi all’abbattimento di un paio di “nostri” aerei ed al “caso cocciolone”. quando, immediatamente dopo la cessazione delle ostilità (inizio 1991) con intento palesemente provocatorio il partito socialista organizzò proprio all’interno della nostra facoltà un incontro con l’allora ministro degli esteri, gianni de michelis, finalizzato a rivendicare la partecipazione italiana a quella guerra, la nostra contestazione assunse toni di disperazione: personalmente ricordo che gli urlai da due metri di distanza qualcosa del tipo “allora quanti morti? mille? un milione? importa qualcosa?” ma l’agitazione era tale che mi si annebbiò la vista dall’ira e dovetti allontanarmi. negli anni successivi per altre "missioni di pace" fu estorto un mandato onu: successe ad esempio per la somalia, dove in realtà la presenza dei contingenti occidentali era finalizzata a impedire l’esercizio del potere da parte del legittimo presidente aidid. nemmeno in quel caso mancarono crimini, commessi anche direttamente dalle truppe italiane ad esempio in occasione degli scontri al check point pasta, dove furono uccisi decine di cittadini somali che protestavano, o tramite tortura con cavi elettrici da parte di soldati della folgore. truppe italiane furono impiegate per altre “missioni di pace” nello scacchiere jugoslavo, dapprima in croazia (unprofor) e bosnia (sfor). un imbarazzante linktra il caso somalo e quello jugoslavo fu l’assassinio di ilaria alpi e miran hrovatin, “colpevoli” di avere trovato prove non solo di un traffico illecito di rifiuti (l’africa è usata come pattumiera dai paesi europei) ma anche di una triangolazione di armi la cui destinazione finale era proprio la croazia neofascista – e non si dimentichi che per lo stesso motivo furono lasciati ardere vivi i passeggeri della moby prince, la cui rotta intercettava quella dei cargo riforniti di armi dalla base usa di camp darby. tra gli altri effetti sortiti dall’omicidio alpi-hrovatin ci fu quello di mettere a tacere i giornalisti troppo zelanti ad onorare la loro professione: la figura dell’inviato di guerra divenne una figura di servizio – o embedded, come si sarebbe detto esplicitamente a partire dalla seconda guerra del golfo – e più in generale l’intero comparto del giornalismo d’inchiesta subì un declino verticale. tanto per fare un paio di esempi ulteriori, si pensi alle intimidazioni subite dalla nota giornalista milena gabanelli a seguito del suo reportage da vukovar (croazia), intimidazioni che la indussero ad abbandonare per sempre le questioni internazionali ripiegando, con la trasmissione report, sulle inchieste relative ai malcostumi nazionali; oppure si pensi al tentativo della giornalista giuliana sgrena di raccogliere informazioni sull’impiego di bombe al fosforo bianco da parte degli usa a falluja (2005), tentativo che terminerà con il suo rapimento e il tiro al bersaglio, da parte dei soldati usa, contro l’auto dei servizi segreti italiani che l’hanno appena liberata. il rinnovato interventismo imperialista della fase storica post-ottantanove dovette dunque garantirsi dapprima la presa di controllo dell’informazione : la disinformazione strategica è stata alla base della costruzione del consenso di tutte le guerre di ricolonizzazione. il caso jugoslavo è stato paradigmatico (anche) di questo aspetto. se per la prima guerra del golfo la presentazione mediatica fu distorta da agenzie specializzate come la hill&knowlton – che curarono operazioni propagandistiche come quella del cormorano sporco di petrolio o quella della supplica tra le lacrime della figlia del diplomatico kuwaitiano all’onu –, per le secessioni jugoslave il compito fu dapprima soprattutto affidato alla ruder&finn public global affairs, il cui responsabile james harff candidamente dichiarò di lavorare per tutti i partiti secessionisti e si vantò di avere costruito il “caso” dei “lager serbi” allo scopo di equiparare la parte serba ai nazisti nell’immaginario pubblico, visto che “noi siamo dei professionisti, non siamo pagati per essere morali” (sic). nonostante lo smascheramento della ruder&finn, molteplici attori legati al carrozzone nato continuarono a cimentarsi nella disinformazione strategica sulle vicende jugoslave ed anzi interferirono ancor più pesantemente, con il risultato che esse divennero assolutamente incomprensibili per l’opinione pubblica e persino i settori più coscienti dell’intellettualità democratica persero ogni capacità interpretativa a riguardo. il primo e principale tassello che fu sottratto alla conoscenza pubblica fu il vergognoso patteggiamento imposto dalla germania al vertice di maastricht, nel dicembre 1991, quando l’unità monetaria europea fu barattata con il riconoscimento della “indipendenza” di slovenia e croazia, cioè usando la jugoslavia come agnello sacrificale sull’altare della cosiddetta europa unita. fu questo un atto di aperta aggressione imperialista. ne seguirono molti altri, che non stiamo qui a riassumere. gli apparati militari della nato si mobilitarono infine, nel 1999, per far fuori ciò che ancora di jugoslavo rimaneva sulla mappa del continente europeo: l’assalto contro serbia-montenegro mirava a dividerle e a strappare il kosovo, regione di grande importanza strategica, nella quale infatti gli usa edificheranno subito la loro più grande base militare all’estero dai tempi del vietnam (camp bondsteel). diversamente dagli interventi “di pace” o “umanitari” dei primi anni novanta, la aggressione del 1999 non aveva più alcuna copertura onu. l’ingerenza militare nello scacchiere jugoslavo era stata progressivamente intensificata vestendo direttamente i panni della alleanza atlantica: alla opinione pubblica l’interventismo nato era presentato come un generoso favore fatto dalle grandi potenze occidentali per superare gli impacci e le lentezze dell’onu dinanzi a “stupri di massa” e “pulizie etniche”. in realtà, ad essere superato, cioè distrutto per sempre, fu l’intero sistema delle relazioni internazionali così come era scaturito alla fine della seconda guerra mondiale. da allora l’onu non ha infatti più svolto alcuna significativa funzione; viceversa, l’ipotesi di una nuova funzione della nato come “paciere nelle aree di crisi” su scala globale fu messa nero su bianco nel vertice del 50.mo anniversario dell’alleanza, che si tenne nell’aprile 1999, proprio durante i bombardamenti su belgrado. questa epocale transizione di fase fu ben colta dal comitato delle scienziate/i contro la guerra, che nacque proprio al termine di quei bombardamenti come sussulto di settori residuali di intellettualità universitaria ancora legati a valori… inattuali, come il ripudio della guerra. sotto la lente di ingrandimento delle scienziate/i contro la guerra, oltre alla distruzione del diritto internazionale, finirono anche: i meccanismi.
della disinformazione strategica; i nuovi sistemi d’arma (uranio impoverito, mini-nukes); la questione energetica come nodo strutturale che muoveva l’interventismo neo-colonialista. se non direttamente per il controllo dei pozzi, le nuove guerre si combattevano per i corridoidell’picco di hubbert(momento della massima potenzialità estrattiva del petrolio). tutto questo sembrava essere stato determinante nel decorso politico-militare dell’ultimo decennio del xx secolo, eppure all’opinione pubblica veniva negata ogni conoscenza in materia: si poneva quindi un enorme problema di democrazia dell’informazione e della scienza. il terzo millennio si apre col “botto”. al contempo, gli echi delle menzogne usate per costruire i conflitti degli anni novanta avevano avvelenato il discorso pubblico a tal punto che non solo le scienziate/i contro la guerra ed altri settori sociali particolarmente critici, ma l’opinione pubblica nel suo complesso aveva maturato uno scetticismo sostanziale rispetto a quanto presentato sui media – tanto che iniziarono a uscire libri con titoli del tipo: tutto quello che sai è falso. giocoforza, anche dinanzi agli attentati dell’11 settembre 2001 l’ondata di scetticismo fu massiccia e generalizzata. tutt’oggi la percezione di quegli eventi incredibili (nel senso di non-credibili) a livello di massa è debole e incerta: dell’11 settembre si preferisce non parlare; anche tra quelli che credono alla tesi dell’operazione di al qaida (cioè di bin laden) la gran parte è comunque persuasa che “gliel’hanno lasciato fare”. quegli attentati clamorosi dovevano servire come giustificazione per una massiccia re-dislocazione di contingenti militari statunitensi e di altri paesi “alleati” verso l’asia centrale, a partire dalla occupazione dell’afghanistan dove i paesi nato ingaggiarono una guerra di lunga durata contro alcune fazioni locali: una guerra che dopo vent’anni devono riconoscere di avere perso! nuovi scenari di guerra verso oriente. di lì a poco, con la tristemente nota operazione propagandistica sulle "armi di distruzione di massa di saddam hussein”, fu scatenata contro l’iraq la seconda guerra del golfo (2003). i tempi però erano cambiati, era finita l’innocenza degli anni novanta: se lo stesso comitato scienziate/i contro la guerra aveva previsto, sulla scorta delle analisi in tema energetico, un riesplodere del conflitto in quell’area, la francia di jacques chirac clamorosamente si smarcò e criticò l’intervento a guida usa, palesando per la prima volta dopo moltissimi anni – finalmente – una contraddizione inter-imperialista. non più solo l’onu, dunque, ma la stessa nato si presentava in ordine sparso ai nuovi appuntamenti di guerra. per i falchi dell’interventismo a guida usa i problemi si moltiplicavano: bisognava trovare nuove truppe da impiegare nelle tante “missioni” messe in campo, ma i morti e il disagio dei reduci non potevano più essere nascosti. l’esistenza di un sistema della disinformazione strategica, atto a preparare le guerre, era oramai un segreto di pulcinella; ben presto, attivisti come julian assange o insider come edward snowden avrebbero reso di pubblico dominio la manipolazione e gli intrighi statunitensi ai danni dell’intera diplomazia, oltreché dell’opinione pubblica, mondiale. in questo clima di sfiducia e alleanze zoppicanti si preparò il disastro siriano. nell’impossibilità di impegnare direttamente truppe occidentali, nel difficilissimo contesto della siria si utilizzò la ricetta della guerra per procura.proprio mentre si lanciavano ipocriti allarmi sulla nascita dello “stato islamico” (isis), contro il governo baathista del presidente bashar assad venivano scatenati jihadisti di ogni risma, spesso presentati come “opposizione democratica”. fu questo ad esempio il caso dell’esercito siriano libero (esl), appoggiato dalla turchia ma soprattutto contiguo ad al nusra, di fatto filiazione locale di al qaida. solo nel luglio 2016 si mise in scena il distanziamento di al nusra da al qaida, apparentemente come conseguenza di una "internalizzazione" del conflitto ma più probabilmente per la sopravvenuta "impresentabilità" dell’esl rispetto all’opinione pubblica occidentale, nonché come conseguenza di un ulteriore rafforzamento del legame con la turchia e allontanamento dall’influenza saudita. la guerra in siria dura tuttora, e torneremo a parlarne. nel frattempo (2011), su iniziativa dell’imperialismo francese, fu scatenata una nuova devastante operazione ai danni della libia di muhammar gheddafi. il colonnello gheddafi era stato un protagonista assoluto della liberazione dell’africa dal colonialismo, e continuava a rappresentare quel ruolo con le iniziative, prese nel contesto della unione panafricana, di emancipazione monetaria e commerciale dall’occidente. il socialismo della jamahirija libica, con le sue specificità, per mezzo secolo aveva garantito alla popolazione libica un livello di benessere elevato, basato sul controllo sovrano delle grandi riserve energetiche e sulla redistribuzione dei proventi a tutta la popolazione. un modello virtuoso del genere, di emancipazione reale e radicale delle popolazioni autoctone, era intollerabile per il senso di superiorità dell’occidente – eredità immutata dei trascorsi coloniali – e per la francia in particolare, e doveva perciò essere annientato in un modo o nell’altro. tentativi di assaltare militarmente la libia erano stati fatti anche da parte statunitense già negli anni ottanta. va ricordato anzi che le prime vittime della guerra di ri-colonizzazione della libia risalivano al giugno 1980 ed erano state… italiane! mi riferisco all’abbattimento del dc9 itavia (“strage di ustica”) da parte di un caccia – non si sa ancora se statunitense o francese – impegnato a inseguire aerei libici che scortavano l’aereo su cui gheddafi rientrava a tripoli dopo essere stato in visita in italia senza la “autorizzazione” degli “alleati” nato. a dirla tutta, secondo alcune interpretazioni, anche i morti della strage alla stazione di bologna, avvenuta appena un mese dopo, sarebbero da imputare alla volontà di “coprire” la strage di ustica con una seconda strage, ancor più efferata ed enigmatica, che avrebbe oscurato la prima, e lo scandalo che ne era derivato, sulle colonne dei giornali (questo indipendentemente dalla manovalanza, che poteva essere tranquillamente neofascista). tornando alla aggressione del 2011, va detto che essa fu preparata politicamente con la manipolazione delle primavere arabe nei paesi confinanti (egitto e tunisia), mentre a livello mediatico fu “coperta” con nuove menzogne – da allora in poi le avremmo chiamate fake news, ma si trattava sempre della solita disinformazione strategica cucinata dai dipartimenti per la guerra psicologica degli eserciti nato e dalle agenzie specializzate assoldate all’uopo. si inventarono "fosse comuni" sulle spiagge di misurata e "forniture di viagra” ai soldati libici per stuprare le donne “bottino di guerra”… di fronte a “cotanta barbarie africana” l’opera civilizzatricedegli eserciti occidentali raggiunse il suo obiettivo con la cattura di gheddafi da parte di banditi locali con il supporto logistico della nato. la allora segretaria di stato usa, la democratica hillary clinton (obama presidente), poté assistere a tutta la scena grazie alle riprese fatte sul campo con il cellulare; e quando gheddafi, al culmine delle sevizie, fu impalato che era ancora vivo, lei esclamò: “wow!”. non meriterebbe spendere parole per il comportamento italiano in quei frangenti. di fronte a una guerra che era a tutti gli effetti anche anti-italiana, poiché mirata anche a spezzare il rapporto privilegiato dell’italia con la libia ratificato pure in accordi appena sottoscritti dal governo di berlusconi, quest’ultimo non seppe fare di meglio che disconoscere gli accordi stessi e tradire la tanto vantata amicizia personale con il colonnello. ..segue ./.
Segue da Pag.21: IMPERIALISMO E MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA NEL TRENTENNIO DELLA RICOLONIZZAZIONE

Nel giro di pochi mesi, con l’esplodere della prima Guerra del Golfo – cioè con la aggressione occidentale contro l’Iraq di Saddam Hussein –, il nostro movimento si trovò improvvisamente a doversi confrontare con la guerra vera e propria. Fu uno shock fortissimo: da un lato, la critica teorica e indiretta divenne scontro diretto ed esplicito con gran parte del corpo docente di cui sopra, la cui ideologia tecnicista-tecnocratica si traduceva, rispetto alla guerra, in fideistica accettazione delle argomentazioni di politici, strateghi e militari in merito a “bombardamenti chirurgici” (sic) e “rispetto del diritto internazionale” (dato che per quella aggressione si usava il paravento ONU, con la complicità della leadership tardo-sovietica); dall’altro, capivamo di essere testimoni della prima gravissima violazione del dettato costituzionale (Art.11) dopo la Seconda Guerra Mondiale cioè di essere, noi ventenni di allora, l’ultima generazione educata all’intransigenza sul ripudiodella guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali: violato quel principio, era stata aperta la breccia dalla quale sarebbero scappati tutti i buoi.

Eppure nel 1990 il sentire comune era ancora ben sintonizzato sul dettato di quell’Articolo 11 e il dissenso sulla partecipazione italiana era palese: ricordo brevi interviste TV alla gente per strada, e tutte le risposte erano di sdegno e opposizione. Contraddizioni si aprirono anche quando si affacciò l’eventualità che il nostro paese o singoli suoi cittadini dovessero pagare dei costi umani per quella sciagurata avventura – si pensi all’abbattimento di un paio di “nostri” aerei ed al “caso Cocciolone”.

 

Quando, immediatamente dopo la cessazione delle ostilità (inizio 1991) con intento palesemente provocatorio il Partito Socialista organizzò proprio all’interno della nostra Facoltà un incontro con l’allora Ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, finalizzato a rivendicare la partecipazione italiana a quella guerra, la nostra contestazione assunse toni di disperazione: personalmente ricordo che gli urlai da due metri di distanza qualcosa del tipo “Allora quanti morti? Mille? Un milione? Importa qualcosa?” ma l’agitazione era tale che mi si annebbiò la vista dall’ira e dovetti allontanarmi.

 

Negli anni successivi per altre "missioni di pace" fu estorto un mandato ONU: successe ad esempio per la Somalia, dove in realtà la presenza dei contingenti occidentali era finalizzata a impedire l’esercizio del potere da parte del legittimo presidente Aidid. Nemmeno in quel caso mancarono crimini, commessi anche direttamente dalle truppe italiane ad esempio in occasione degli scontri al Check Point Pasta, dove furono uccisi decine di cittadini somali che protestavano, o tramite tortura con cavi elettrici da parte di soldati della Folgore.

Truppe italiane furono impiegate per altre “missioni di pace” nello scacchiere jugoslavo, dapprima in Croazia (UNPROFOR) e Bosnia (SFOR). Un imbarazzante linktra il caso somalo e quello jugoslavo fu l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, “colpevoli” di avere trovato prove non solo di un traffico illecito di rifiuti (l’Africa è usata come pattumiera dai paesi europei) ma anche di una triangolazione di armi la cui destinazione finale era proprio la Croazia neofascista – e non si dimentichi che per lo stesso motivo furono lasciati ardere vivi i passeggeri della Moby Prince, la cui rotta intercettava quella dei cargo riforniti di armi dalla base USA di Camp Darby.

Tra gli altri effetti sortiti dall’omicidio Alpi-Hrovatin ci fu quello di mettere a tacere i giornalisti troppo zelanti ad onorare la loro professione: la figura dell’inviato di guerra divenne una figura di servizio – o embedded, come si sarebbe detto esplicitamente a partire dalla Seconda Guerra del Golfo – e più in generale l’intero comparto del giornalismo d’inchiesta subì un declino verticale. Tanto per fare un paio di esempi ulteriori, si pensi alle intimidazioni subite dalla nota giornalista Milena Gabanelli a seguito del suo reportage da Vukovar (Croazia), intimidazioni che la indussero ad abbandonare per sempre le questioni internazionali ripiegando, con la trasmissione Report, sulle inchieste relative ai malcostumi nazionali; oppure si pensi al tentativo della giornalista Giuliana Sgrena di raccogliere informazioni sull’impiego di bombe al fosforo bianco da parte degli USA a Falluja (2005), tentativo che terminerà con il suo rapimento e il tiro al bersaglio, da parte dei soldati USA, contro l’auto dei servizi segreti italiani che l’hanno appena liberata.

 

Il rinnovato interventismo imperialista della fase storica post-Ottantanove dovette dunque garantirsi dapprima la presa di controllo dell’informazione : la disinformazione strategica è stata alla base della costruzione del consenso di tutte le guerre di ricolonizzazione. Il caso jugoslavo è stato paradigmatico (anche) di questo aspetto. Se per la Prima Guerra del Golfo la presentazione mediatica fu distorta da agenzie specializzate come la Hill&Knowlton – che curarono operazioni propagandistiche come quella del cormorano sporco di petrolio o quella della supplica tra le lacrime della figlia del diplomatico kuwaitiano all’ONU –, per le secessioni jugoslave il compito fu dapprima soprattutto affidato alla Ruder&Finn Public Global Affairs, il cui responsabile James Harff candidamente dichiarò di lavorare per tutti i partiti secessionisti e si vantò di avere costruito il “caso” dei “lager serbi” allo scopo di equiparare la parte serba ai nazisti nell’immaginario pubblico, visto che “noi siamo dei professionisti, non siamo pagati per essere morali” (sic).

Nonostante lo smascheramento della Ruder&Finn, molteplici attori legati al carrozzone NATO continuarono a cimentarsi nella disinformazione strategica sulle vicende jugoslave ed anzi interferirono ancor più pesantemente, con il risultato che esse divennero assolutamente incomprensibili per l’opinione pubblica e persino i settori più coscienti dell’intellettualità democratica persero ogni capacità interpretativa a riguardo. Il primo e principale tassello che fu sottratto alla conoscenza pubblica fu il vergognoso patteggiamento imposto dalla Germania al vertice di Maastricht, nel dicembre 1991, quando l’unità monetaria europea fu barattata con il riconoscimento della “indipendenza” di Slovenia e Croazia, cioè usando la Jugoslavia come agnello sacrificale sull’altare della cosiddetta Europa unita.

Fu questo un atto di aperta aggressione imperialista. Ne seguirono molti altri, che non stiamo qui a riassumere. Gli apparati militari della NATO si mobilitarono infine, nel 1999, per far fuori ciò che ancora di jugoslavo rimaneva sulla mappa del continente europeo: l’assalto contro Serbia-Montenegro mirava a dividerle e a strappare il Kosovo, regione di grande importanza strategica, nella quale infatti gli USA edificheranno subito la loro più grande base militare all’estero dai tempi del Vietnam (Camp Bondsteel).

 

Diversamente dagli interventi “di pace” o “umanitari” dei primi anni Novanta, la aggressione del 1999 non aveva più alcuna copertura ONU. L’ingerenza militare nello scacchiere jugoslavo era stata progressivamente intensificata vestendo direttamente i panni della Alleanza Atlantica: alla opinione pubblica l’interventismo NATO era presentato come un generoso favore fatto dalle grandi potenze occidentali per superare gli impacci e le lentezze dell’ONU dinanzi a “stupri di massa” e “pulizie etniche”. In realtà, ad essere superato, cioè distrutto per sempre, fu l’intero sistema delle relazioni internazionali così come era scaturito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Da allora l’ONU non ha infatti più svolto alcuna significativa funzione; viceversa, l’ipotesi di una nuova funzione della NATO come “paciere nelle aree di crisi” su scala globale fu messa nero su bianco nel vertice del 50.mo anniversario dell’Alleanza, che si tenne nell’aprile 1999, proprio durante i bombardamenti su Belgrado.

 

Questa epocale transizione di fase fu ben colta dal comitato delle Scienziate/i contro la guerra, che nacque proprio al termine di quei bombardamenti come sussulto di settori residuali di intellettualità universitaria ancora legati a valori… inattuali, come il ripudio della guerra. Sotto la lente di ingrandimento delle Scienziate/i contro la guerra, oltre alla distruzione del Diritto Internazionale, finirono anche: i meccanismi

della disinformazione strategica; i nuovi sistemi d’arma (uranio impoveritomini-nukes); la questione energetica come nodo strutturale che muoveva l’interventismo neo-colonialista. Se non direttamente per il controllo dei pozzi, le nuove guerre si combattevano per i corridoidell’Picco di Hubbert(momento della massima potenzialità estrattiva del petrolio). Tutto questo sembrava essere stato determinante nel decorso politico-militare dell’ultimo decennio del XX secolo, eppure all’opinione pubblica veniva negata ogni conoscenza in materia: si poneva quindi un enorme problema di democrazia dell’informazione e della scienza.

 

IL TERZO MILLENNIO SI APRE COL “BOTTO”

 

Al contempo, gli echi delle menzogne usate per costruire i conflitti degli anni Novanta avevano avvelenato il discorso pubblico a tal punto che non solo le Scienziate/i contro la guerra ed altri settori sociali particolarmente critici, ma l’opinione pubblica nel suo complesso aveva maturato uno scetticismo sostanziale rispetto a quanto presentato sui media – tanto che iniziarono a uscire libri con titoli del tipo: Tutto quello che sai è falso. Giocoforza, anche dinanzi agli attentati dell’11 Settembre 2001 l’ondata di scetticismo fu massiccia e generalizzata. Tutt’oggi la percezione di quegli eventi incredibili (nel senso di non-credibili) a livello di massa è debole e incerta: dell’11 Settembre si preferisce non parlare; anche tra quelli che credono alla tesi dell’operazione di Al Qaida (cioè di Bin Laden) la gran parte è comunque persuasa che “gliel’hanno lasciato fare”.

Quegli attentati clamorosi dovevano servire come giustificazione per una massiccia re-dislocazione di contingenti militari statunitensi e di altri paesi “alleati” verso l’Asia centrale, a partire dalla occupazione dell’Afghanistan dove i paesi NATO ingaggiarono una guerra di lunga durata contro alcune fazioni locali: una guerra che dopo vent’anni devono riconoscere di avere perso!

 

NUOVI SCENARI DI GUERRA VERSO ORIENTE

 

Di lì a poco, con la tristemente nota operazione propagandistica sulle "armi di distruzione di massa di Saddam Hussein”, fu scatenata contro l’Iraq la Seconda Guerra del Golfo (2003). I tempi però erano cambiati, era finita l’innocenza degli anni Novanta: se lo stesso comitato Scienziate/i contro la guerra aveva previsto, sulla scorta delle analisi in tema energetico, un riesplodere del conflitto in quell’area, la Francia di Jacques Chirac clamorosamente si smarcò e criticò l’intervento a guida USA, palesando per la prima volta dopo moltissimi anni – finalmente – una contraddizione inter-imperialista.

 

Non più solo l’ONU, dunque, ma la stessa NATO si presentava in ordine sparso ai nuovi appuntamenti di guerra. Per i falchi dell’interventismo a guida USA i problemi si moltiplicavano: bisognava trovare nuove truppe da impiegare nelle tante “missioni” messe in campo, ma i morti e il disagio dei reduci non potevano più essere nascosti. L’esistenza di un sistema della disinformazione strategica, atto a preparare le guerre, era oramai un segreto di pulcinella; ben presto, attivisti come Julian Assange o insider come Edward Snowden avrebbero reso di pubblico dominio la manipolazione e gli intrighi statunitensi ai danni dell’intera diplomazia, oltreché dell’opinione pubblica, mondiale.

 

In questo clima di sfiducia e alleanze zoppicanti si preparò il disastro siriano. Nell’impossibilità di impegnare direttamente truppe occidentali, nel difficilissimo contesto della Siria si utilizzò la ricetta della guerra per procura.Proprio mentre si lanciavano ipocriti allarmi sulla nascita dello “Stato Islamico” (ISIS), contro il governo baathista del presidente Bashar Assad venivano scatenati jihadisti di ogni risma, spesso presentati come “opposizione democratica”. Fu questo ad esempio il caso dell’Esercito Siriano Libero (ESL), appoggiato dalla Turchia ma soprattutto contiguo ad Al Nusra, di fatto filiazione locale di Al Qaida. Solo nel luglio 2016 si mise in scena il distanziamento di Al Nusra da Al Qaida, apparentemente come conseguenza di una "internalizzazione" del conflitto ma più probabilmente per la sopravvenuta "impresentabilità" dell’ESL rispetto all’opinione pubblica occidentale, nonché come conseguenza di un ulteriore rafforzamento del legame con la Turchia e allontanamento dall’influenza saudita.

 

La guerra in Siria dura tuttora, e torneremo a parlarne. Nel frattempo (2011), su iniziativa dell’imperialismo francese, fu scatenata una nuova devastante operazione ai danni della Libia di Muhammar Gheddafi. Il colonnello Gheddafi era stato un protagonista assoluto della liberazione dell’Africa dal colonialismo, e continuava a rappresentare quel ruolo con le iniziative, prese nel contesto della Unione Panafricana, di emancipazione monetaria e commerciale dall’Occidente. Il socialismo della Jamahirija libica, con le sue specificità, per mezzo secolo aveva garantito alla popolazione libica un livello di benessere elevato, basato sul controllo sovrano delle grandi riserve energetiche e sulla redistribuzione dei proventi a tutta la popolazione. Un modello virtuoso del genere, di emancipazione reale e radicale delle popolazioni autoctone, era intollerabile per il senso di superiorità dell’Occidente – eredità immutata dei trascorsi coloniali – e per la Francia in particolare, e doveva perciò essere annientato in un modo o nell’altro. Tentativi di assaltare militarmente la Libia erano stati fatti anche da parte statunitense già negli anni Ottanta. Va ricordato anzi che le prime vittime della guerra di ri-colonizzazione della Libia risalivano al giugno 1980 ed erano state… italiane! Mi riferisco all’abbattimento del DC9 Itavia (“strage di Ustica”) da parte di un caccia – non si sa ancora se statunitense o francese – impegnato a inseguire aerei libici che scortavano l’aereo su cui Gheddafi rientrava a Tripoli dopo essere stato in visita in Italia senza la “autorizzazione” degli “alleati” NATO. A dirla tutta, secondo alcune interpretazioni, anche i morti della strage alla stazione di Bologna, avvenuta appena un mese dopo, sarebbero da imputare alla volontà di “coprire” la strage di Ustica con una seconda strage, ancor più efferata ed enigmatica, che avrebbe oscurato la prima, e lo scandalo che ne era derivato, sulle colonne dei giornali (questo indipendentemente dalla manovalanza, che poteva essere tranquillamente neofascista).

Tornando alla aggressione del 2011, va detto che essa fu preparata politicamente con la manipolazione delle primavere arabe nei paesi confinanti (Egitto e Tunisia), mentre a livello mediatico fu “coperta” con nuove menzogne – da allora in poi le avremmo chiamate fake news, ma si trattava sempre della solita disinformazione strategica cucinata dai dipartimenti per la guerra psicologica degli eserciti NATO e dalle agenzie specializzate assoldate all’uopo. Si inventarono "fosse comuni" sulle spiagge di Misurata e "forniture di viagra” ai soldati libici per stuprare le donne “bottino di guerra”… Di fronte a “cotanta barbarie africana” l’opera civilizzatricedegli eserciti occidentali raggiunse il suo obiettivo con la cattura di Gheddafi da parte di banditi locali con il supporto logistico della NATO. La allora Segretaria di Stato USA, la democratica Hillary Clinton (Obama presidente), poté assistere a tutta la scena grazie alle riprese fatte sul campo con il cellulare; e quando Gheddafi, al culmine delle sevizie, fu impalato che era ancora vivo, lei esclamò: “Wow!”.

 

Non meriterebbe spendere parole per il comportamento italiano in quei frangenti. Di fronte a una guerra che era a tutti gli effetti anche anti-italiana, poiché mirata anche a spezzare il rapporto privilegiato dell’Italia con la Libia ratificato pure in accordi appena sottoscritti dal governo di Berlusconi, quest’ultimo non seppe fare di meglio che disconoscere gli accordi stessi e tradire la tanto vantata amicizia personale con il colonnello.

..segue ./.

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  

Stampa pagina

 Stampa inserto 

La VOCE 2009

 La VOCE   COREA   CUBA   JUGOSLAVIA   PALESTINA   RUSSIA   SCIENZA   ARTE 

Visite complessive:
Copyright - Tutti gli articoli possono essere liberamente riprodotti con obbligo di citazione della fonte.