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La VOCE 2001

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La VOCE ANNO XXII N°5

gennaio 2020

PAGINA c         - 27

segue da pag.26: l’india si unisce a 164 paesi votando a favore del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. mentre in occasione del terzo comitato dell’assemblea generale delle nazioni unite l’india e altre 165 nazioni hanno votato a favore della risoluzione intitolata “il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione”, gli stati uniti, israele, nauru, micronesia e le isole marshall hanno votato contro. nove paesi, tra cui australia, guatemala e ruanda, si sono astenuti. la risoluzione è stata sponsorizzata da corea del nord, egitto, nicaragua, zimbabwe e palestina e la votazione ha avuto luogo il 19 novembre 2019. il voto è arrivato il giorno dopo l’annuncio del cambio di politica da parte degli stati uniti riguardo gli insediamenti israeliani nei “territori palestinesi occupati”. lunedì, il segretario di stato americano mike pompeo aveva dichiarato: “definire la creazione di insediamenti civili incompatibili con il diritto internazionale non ha funzionato. non ha fatto avanzare la causa della pace”. la dichiarazione di pompeo, tuttavia, ha suscitato molte critiche. rispondendo all’inversione politica annunciata dagli stati uniti, il portavoce delle nazioni unite stephane dujarric, ha dichiarato martedi durante una conferenza stampa a new york: “la posizione di lunga data delle nazioni unite in merito agli insediamenti israeliani nei territori palestinese occupati, ovvero che violano la legge internazionale, è rimasta invariata “. la risoluzione ha riconosciuto il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e ha sottolineato la necessità della fine dell’ “occupazione israeliana iniziata nel 1967 così come di un accordo di pace equo, duraturo e completo tra la parte palestinese e quella israeliana, accordo che deve essere basato sulle risoluzioni dell’onu, sugli accordi di madrid, incluso il principio di “terra in cambio di pace”, sull’arab peace initiative e sulla road map del quartetto, per una soluzione permanente, con due stati, del conflitto israelo-palestinese “. la risoluzione sollecita inoltre “tutti gli stati, le agenzie e le organizzazioni preposte delle nazioni unite a continuare a sostenere e ad assistere il popolo palestinese nella realizzazione del proprio diritto all’autodeterminazione”. secondo il sito web del ministero degli affari esteri (mea), il sostegno dell’india alla causa palestinese è parte integrante della politica estera della nazione. nel 1974, l’india divenne il primo paese non arabo a riconoscere la palestine liberation organization (plo) come unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese. nel 1988, l’india fu uno dei primi paesi a riconoscere lo stato palestinese. mentre, nel 1996, aprì il suo ufficio di rappresentanza a gaza, spostandolo successivamente a ramallah nel 2003. l’india ha inoltre svolto un ruolo attivo nell’allargamento del sostegno alla causa palestinese attraverso i forum multilaterali. il paese ha inoltre sponsorizzato il progetto di risoluzione sul “diritto dei palestinesi all’autodeterminazione” durante la 53a sessione dell’assemblea generale delle nazioni unite (unga) e ha votato a favore. ha inoltre votato a favore della risoluzione dell’unga nell’ottobre 2003 contro la costruzione del muro di separazione da parte di israele. nel 2011, l’india ha votato perché la palestina diventasse membro a pieno titolo dell’unesco. l’india ha inoltre co-sponsorizzato e votato a favore della risoluzione unga del 29 novembre 2012 che permise alla palestina di diventare uno “stato osservatore non membro” delle nazioni unite senza diritto di voto. alla asian african commemorative conference dell’aprile 2015, l’india sostenne la dichiarazione di bandung sulla palestina. sostenne anche l’installazione della bandiera palestinese presso la sede delle nazioni unite nel settembre 2015. trad: grazia parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – invictapalestina.org. come facebook, anche whatsapp sta ora censurando le voci palestinesi. whatsapp, una divisione di facebook, sta bloccando selettivamente attivisti e giornalisti palestinesi nell’usare i suoi servizi per coprire le aggressioni israeliane, prova della collaborazione tra facebook e israele nel soffocare le notizie palestinesi. raseef22 – 21 novembre 2019. ancora una volta, i palestinesi sono costretti al silenzio dai canali dei social media, questa volta da whatsapp, una divisione di facebook, che ha vietato l’utilizzo del servizio a oltre 100 attivisti palestinesi, dopo che questi l’avevano utilizzato per la copertura in diretta degli abusi e delle violazioni dei diritti umani da parte degli israeliani durante il recente bombardamento della striscia di gaza. il palestinian media collective (amad) ha fortemente condannato il “feroce attacco” da parte delle piattaforme dei social media contro i “contenuti palestinesi”, non ultimo whatsapp, aggiungendo che il 15 novembre l’applicazione ha bloccato e chiuso centinaia di account appartenenti a giornalisti e attivisti palestinesi. il recente sdegno giunge dopo che giornalisti e attivisti palestinesi che a gaza hanno documentato i recenti eventi sul campo si sono lamentati del fatto che il loro numero è stato bloccato e inserito nella lista nera, non permettendo loro di accedere all’applicazione. inoltre, l’agenzia di stampa “palestine today” ha dichiarato che i numeri dei supervisori dei suoi account whatsapp sono stati inseriti nella lista nera e sospesi dopo aver coperto l’assalto israeliano a gaza. ciò è avvenuto solo due giorni dopo il barbaro bombardamento israeliano di gaza in risposta ai razzi lanciati da attivisti del movimento della jihad islamica palestinese, che a loro volta erano stati lanciati dopo che il 12 novembre israele aveva assassinato il comandante militare del movimento, baha baha’a abulata. prima che la mattina del 14 novembre, grazie alla mediazione egiziana, fosse dichiarata la tregua, la campagna di bombardamenti aveva già provocato la morte di 34 palestinesi, tra cui donne e bambini, e il ferimento di altri 111 whatsapp, una divisione di facebook, sta bloccando selettivamente attivisti e giornalisti palestinesi nell’usare i suoi servizi per coprire le aggressioni israeliane, prova della collaborazione tra facebook e israele nel soffocare le notizie palestinesi. facebook aggiorna continuamente il suo algoritmo con elenchi di terminologie, nomi e parole che considera contrari alla sua politica, in modo che i messaggi che fanno riferimento agli abusi di israele contro i palestinesi vengano eliminati e interi account fb vengano bloccati. complicità esplicita. nella sua dichiarazione, il palestinian media collective (amad) ha dichiarato: “questa censura di whatsapp si palesa nel contesto di una flagrante complicità con l’occupazione israeliana nella lotta contro i contenuti palestinesi, e nel proseguimento di quella politica che vuole mettere a tacere e prevenire le voci dei palestinesi, così che non possano raggiungere il mondo”, aggiungendo che ciò rappresenta un” palese tentativo di nascondere i crimini dell’occupazione contro il nostro popolo “. la dichiarazione è così proseguita: “di conseguenza, lodiamo l’importante ruolo svolto dai nostri giornalisti e dai colleghi attivisti nel servizio della causa palestinese e li invitiamo a non arrendersi alle misure adottate dai siti di social media e a ricorrere a meccanismi appropriati per continuare ad operare su queste importanti piattaforme, adottando le misure necessarie per garantire la loro presenza e seguendo le esistenti linee
guida per salvaguardare i loro account. ” la dichiarazione ha anche invitato le organizzazioni per i diritti umani e i giornalisti, sia locali che internazionali, a “stare al fianco dei giornalisti e degli attivisti palestinesi per proteggerli dalle pagine e dai siti complici dell’occupazione israeliana che operano contro di loro”. infine, la dichiarazione ha sottolineato che la voce dei giornalisti e degli attivisti palestinesi “rimarrà presente e non sarà messa a tacere, ma continuerà a rivelare la falsità della narrazione dell’occupazione”. prima facebook. nel mese precedente, l’agenzia di stampa palestinese (safa) aveva dichiarato: “con l’inizio del 2019, ci sono state più di 500 violazioni contro i contenuti digitali palestinesi su facebook e, nello scorso settembre, la piattaforma ha bloccato 140 account e pagine palestinesi, così come si sono verificati centinaia di casi di blocco delle trasmissioni in diretta “. safa ha sottolineato che su facebook esiste un “forte inasprimento” contro i contenuti palestinesi, con la piattaforma che fornisce alla sua società di algoritmi un nuovo elenco di terminologie e parole che considera contrarie alla sua politica sociale, in modo che vengano cancellati post o account. tra i termini che facebook ha aggiunto alla lista di controllo, secondo safa, ci sono: martire, hamas, resistenza, qassam, jihad, fronte popolare – così come i nomi di alcuni martiri come yahya ayash e prigionieri come hasan salama tra gli altri. safa ha anche preso atto dell’accusa sollevata lo scorso settembre contro israele dall’organizzazione internazionale “impact” per le politiche sui diritti umani, secondo cui lo stato sionista avrebbe sfruttato le sue relazioni con facebook per oscurare i contenuti palestinesi, rivelando ripetuti incontri tra alti funzionari di facebook e israele. all’epoca, l’agenzia di stampa palestinese accusò facebook di “doppio standard” in quanto si concentrerebbe sui contenuti palestinesi ma non applicherebbe gli stessi standard ai post razzisti da parte israeliana – citando la registrazione di quasi 474.250 post razzisti o di incitamento contro gli arabi pubblicati nei social solo nell’ultimo anno, secondo una ricerca del “the arab center for the advancement of social media”. la verità prevarrà. ugualmente, il 16 novembre i giornalisti palestinesi hanno lanciato una campagna in solidarietà con il loro collega muath amarna, che ha perso l’occhio sinistro a causa di un proiettile delle forze di occupazione durante la sua copertura degli scontri scoppiati nel villaggio di surif vicino a hebron,il 15 di novembre. i giornalisti palestinesi si sono attivati su twitter con due hashtag #muaths_eye e #the_eye_of_truth_wont_be_extinguished, in cui hanno espresso la loro solidarietà al collega che a causa, ancora una volta , dell’occupazione, non sarà più in grado di continuare il suo lavoro. alcuni giornalisti hanno caricato la sua foto con l’occhio bendato, accompagnata dal commento: “siamo tutti muath”. in tre lingue diverse – arabo, inglese e francese – i giornalisti palestinesi hanno scritto: “muath amarna è un giornalista palestinese che con la sua macchina fotografica ha documentato molti scontri. ma dopo il 15 novembre, non è più in grado di completare il suo lavoro giornalistico a causa di un proiettile sparato contro di lui dai soldati dell’occupazione durante la sua copertura degli scontri nel villaggio di surif a hebron. il proiettile l’ha reso cieco del suo occhio sinistro “. nella stessa dichiarazione, il sindacato dei giornalisti palestinesi ha anche condannato il targeting di amarna, aggiungendo che aveva portato il crimine davanti alla lega araba e alle nazioni unite esortandoli a prendere una posizione contro i crimini dell’occupazione che colpiscono specificamente i giornalisti palestinesi. alla fine di ottobre, il sindacato ha anche registrato circa 606 casi di attacchi contro giornalisti palestinesi, tra cui giornalisti feriti da munizioni vere, proiettili di gomma, bombole di gas lacrimogeni e bombe sonore, nonché assalti fisici, convocazioni per interrogatori, raid su eventi mediatici, imposizione agli arresti domiciliari e prevenzione della copertura di notizie, nonché altri abusi. il sindacato ha affermato che questi attacchi sono intenzionali e mirano a impedire al corpo dei giornalisti palestinesi di denunciare i crimini dell’occupazione. trad: grazia parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – invictapalestina.org. the kimberly process*: la lavanderia multimilionaria dei diamanti insanguinati di israele. pochi sanno che i diamanti sono l’esportazione manifatturiera numero uno di israele, una “pietra angolare” della sua economia. secondo il primo ministro israeliano benjamin netanyahu, quell’economia “genera l’88% del budget per la sicurezza che finanzia le forze di difesa israeliane e le agenzie di sicurezza ( mossad e shin bet)”. sean clinton – 19 novembre 2019 - immagine di copertina di pixabay. la scorsa settimana c’è stato un brutale e spietato attacco contro una famiglia che dormiva nella sua casa di gaza, uccidendo marito e moglie e disseminando pezzi dei loro corpi lungo la strada; il bombardamento successivo ha ucciso 34 persone, tra cui una famiglia di otto persone. il fatto che tutto ciò sia stato fatto da un esponente di spicco dell’industria mondiale dei diamanti, dimostra chiaramente l’entità della frode perpetrata da quell’industria nel definirsi ” conflict free”. pochi sanno che i diamanti sono l’esportazione manifatturiera numero uno di israele, una “pietra angolare” della sua economia. secondo il primo ministro israeliano benjamin netanyahu, quell’economia “genera l’88% del budget per la sicurezza che finanzia le forze di difesa israeliane e le agenzie di sicurezza ( mossad e shin bet)”. il jerusalem post riporta che “israele fattura circa 28 miliardi di dollari in diamanti all’anno. il valore dei diamanti esportati è così significativo (circa un quinto delle esportazioni industriali totali) che il governo riferisce che i suoi dati non comprendono i diamanti per garantire che le gemme non ne distorcano i valori “. durante questa settimana, i membri dell’organismo di regolamentazione dei diamanti, il kimberley process (kp), si incontrano a nuova delhi per concludere tre anni di revisioni e di riforme volte principalmente ad espandere la definizione di ” conflict diamond” ” al fine di mettere fuorilegge i diamanti legati alle violazioni dei diritti dell’uomo da parte di forze governative. questo intento fallirà sicuramente. non è stata infatti presentata una sola mozione per mettere fuori legge i diamanti insanguinati che entrano nella catena di approvvigionamento a ..segue ./.
Segue da Pag.26: L’India si unisce a 164 Paesi votando a favore del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi

Mentre in occasione del terzo comitato dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite l’India e altre 165 nazioni hanno votato a favore della risoluzione intitolata “Il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione”, gli Stati Uniti, Israele, Nauru, Micronesia e le Isole Marshall hanno votato contro.

Nove Paesi, tra cui Australia, Guatemala e Ruanda, si sono astenuti.

La risoluzione è stata sponsorizzata da Corea del Nord, Egitto, Nicaragua, Zimbabwe e Palestina e la votazione ha avuto luogo il 19 novembre 2019.

Il voto è arrivato il giorno dopo l’annuncio del cambio di politica da parte degli Stati Uniti riguardo gli insediamenti israeliani nei “Territori Palestinesi occupati”.

Lunedì, il segretario di Stato americano Mike Pompeo aveva dichiarato: “Definire la creazione di insediamenti civili incompatibili con il diritto internazionale non ha funzionato. Non ha fatto avanzare la causa della pace”.

La dichiarazione di Pompeo, tuttavia, ha suscitato molte critiche.

Rispondendo all’inversione politica annunciata dagli Stati Uniti, il portavoce delle Nazioni Unite Stephane Dujarric, ha dichiarato martedi durante una conferenza stampa a New York: “La posizione di lunga data delle Nazioni Unite in merito agli insediamenti israeliani nei Territori Palestinese Occupati, ovvero che violano la legge internazionale, è rimasta invariata “.

La risoluzione ha riconosciuto il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e ha sottolineato la necessità della fine dell’ “occupazione israeliana iniziata nel 1967 così come di un accordo di pace equo, duraturo e completo tra la parte palestinese e quella israeliana, accordo che deve essere basato sulle risoluzioni dell’Onu, sugli accordi di Madrid, incluso il principio di “terra in cambio di pace”, sull’Arab Peace Initiative e sulla road map del Quartetto, per una soluzione permanente, con due Stati, del conflitto israelo-palestinese “.

La risoluzione sollecita inoltre “tutti gli Stati, le agenzie e le organizzazioni preposte delle Nazioni Unite a continuare a sostenere e ad assistere il popolo palestinese nella realizzazione del proprio diritto all’autodeterminazione”.

Secondo il sito web del Ministero degli Affari Esteri (MEA), il sostegno dell’India alla causa palestinese è parte integrante della politica estera della nazione.

Nel 1974, l’India divenne il primo paese non arabo a riconoscere la Palestine Liberation Organization (PLO) come unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese.

Nel 1988, l’India fu uno dei primi Paesi a riconoscere lo Stato palestinese. Mentre, nel 1996, aprì il suo ufficio di rappresentanza a Gaza, spostandolo successivamente a Ramallah nel 2003.

L’India ha inoltre svolto un ruolo attivo nell’allargamento del sostegno alla causa palestinese attraverso i forum multilaterali.

Il Paese ha inoltre sponsorizzato il progetto di risoluzione sul “diritto dei palestinesi all’autodeterminazione” durante la 53a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA) e ha votato a favore.

Ha inoltre votato a favore della risoluzione dell’UNGA nell’ottobre 2003 contro la costruzione del muro di separazione da parte di Israele.

Nel 2011, l’India ha votato perché la Palestina diventasse membro a pieno titolo dell’UNESCO.

L’India ha inoltre co-sponsorizzato e votato a favore della Risoluzione UNGA del 29 novembre 2012 che permise alla Palestina di diventare uno “Stato osservatore non membro” delle Nazioni Unite senza diritto di voto.

Alla Asian African Commemorative Conference dell’aprile 2015, l’India sostenne la Dichiarazione di Bandung sulla Palestina. Sostenne anche l’installazione della bandiera palestinese presso la sede delle Nazioni Unite nel settembre 2015.

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org

Come Facebook, anche WhatsApp sta ora censurando le voci palestinesi.

WhatsApp, una divisione di Facebook, sta bloccando selettivamente attivisti e giornalisti palestinesi nell’usare i suoi servizi per coprire le aggressioni israeliane, prova della collaborazione tra Facebook e Israele nel soffocare le notizie palestinesi.

Raseef22 – 21 novembre 2019

Ancora una volta, i palestinesi sono costretti al silenzio dai canali dei social media, questa volta da WhatsApp, una divisione di Facebook, che ha vietato l’utilizzo del servizio a oltre 100 attivisti palestinesi, dopo che questi l’avevano utilizzato per la copertura in diretta degli abusi e delle violazioni dei diritti umani da parte degli israeliani durante il recente bombardamento della striscia di Gaza.

Il Palestinian Media Collective (AMAD) ha fortemente condannato il “feroce attacco” da parte delle piattaforme dei social media contro i “contenuti palestinesi”, non ultimo WhatsApp, aggiungendo che il 15 Novembre l’applicazione ha bloccato e chiuso centinaia di account appartenenti a giornalisti e attivisti palestinesi.

Il recente sdegno giunge dopo che giornalisti e attivisti palestinesi che a Gaza hanno documentato i recenti eventi sul campo si sono lamentati del fatto che il loro numero è stato bloccato e inserito nella lista nera, non permettendo loro di accedere all’applicazione.

Inoltre, l’agenzia di stampa “Palestine Today” ha dichiarato che i numeri dei supervisori dei suoi account WhatsApp sono stati inseriti nella lista nera e sospesi dopo aver coperto l’assalto israeliano a Gaza. Ciò è avvenuto solo due giorni dopo il barbaro bombardamento israeliano di Gaza in risposta ai razzi lanciati da attivisti del movimento della jihad islamica palestinese, che a loro volta erano stati lanciati dopo che il 12 novembre Israele aveva assassinato il comandante militare del movimento, Baha Baha’a AbulAta. Prima che la mattina del 14 novembre, grazie alla mediazione egiziana, fosse dichiarata la tregua, la campagna di bombardamenti aveva già provocato la morte di 34 palestinesi, tra cui donne e bambini, e il ferimento di altri 111

WhatsApp, una divisione di Facebook, sta bloccando selettivamente attivisti e giornalisti palestinesi nell’usare i suoi servizi per coprire le aggressioni israeliane, prova della collaborazione tra Facebook e Israele nel soffocare le notizie palestinesi.

Facebook aggiorna continuamente il suo algoritmo con elenchi di terminologie, nomi e parole che considera contrari alla sua politica, in modo che i messaggi che fanno riferimento agli abusi di Israele contro i palestinesi vengano eliminati e interi account FB vengano bloccati.

Complicità esplicita

Nella sua dichiarazione, il Palestinian Media Collective (AMAD) ha dichiarato: “Questa censura di WhatsApp si palesa nel contesto di una flagrante complicità con l’occupazione israeliana nella lotta contro i contenuti palestinesi, e nel proseguimento di quella politica che vuole mettere a tacere e prevenire le voci dei palestinesi, così che non possano raggiungere il mondo”, aggiungendo che ciò rappresenta un” palese tentativo di nascondere i crimini dell’occupazione contro il nostro popolo “.

La dichiarazione è così proseguita: “Di conseguenza, lodiamo l’importante ruolo svolto dai nostri giornalisti e dai colleghi attivisti nel servizio della causa palestinese e li invitiamo a non arrendersi alle misure adottate dai siti di social media e a ricorrere a meccanismi appropriati per continuare ad operare su queste importanti piattaforme, adottando le misure necessarie per garantire la loro presenza e seguendo le esistenti linee
guida per salvaguardare i loro account. ”

La dichiarazione ha anche invitato le organizzazioni per i diritti umani e i giornalisti, sia locali che internazionali, a “stare al fianco dei giornalisti e degli attivisti palestinesi per proteggerli dalle pagine e dai siti complici dell’occupazione israeliana che operano contro di loro”.

Infine, la dichiarazione ha sottolineato che la voce dei giornalisti e degli attivisti palestinesi “rimarrà presente e non sarà messa a tacere, ma continuerà a rivelare la falsità della narrazione dell’occupazione”.

Prima Facebook

Nel mese precedente, l’agenzia di stampa palestinese (SAFA) aveva dichiarato: “Con l’inizio del 2019, ci sono state più di 500 violazioni contro i contenuti digitali palestinesi su Facebook e, nello scorso settembre, la piattaforma ha bloccato 140 account e pagine palestinesi, così come si sono verificati centinaia di casi di blocco delle trasmissioni in diretta “.

SAFA ha sottolineato che su Facebook esiste un “forte inasprimento” contro i contenuti palestinesi, con la piattaforma che fornisce alla sua società di algoritmi un nuovo elenco di terminologie e parole che considera contrarie alla sua politica sociale, in modo che vengano cancellati post o account.

Tra i termini che Facebook ha aggiunto alla lista di controllo, secondo SAFA, ci sono: martire, Hamas, resistenza, Qassam, Jihad, Fronte popolare – così come i nomi di alcuni martiri come Yahya Ayash e prigionieri come Hasan Salama tra gli altri.

SAFA ha anche preso atto dell’accusa sollevata lo scorso settembre contro Israele dall’organizzazione internazionale “IMPACT” per le politiche sui diritti umani, secondo cui lo Stato sionista avrebbe sfruttato le sue relazioni con Facebook per oscurare i contenuti palestinesi, rivelando ripetuti incontri tra alti funzionari di Facebook e Israele.

All’epoca, l’agenzia di stampa palestinese accusò Facebook di “doppio standard” in quanto si concentrerebbe sui contenuti palestinesi ma non applicherebbe gli stessi standard ai post razzisti da parte israeliana – citando la registrazione di quasi 474.250 post razzisti o di incitamento contro gli arabi pubblicati nei social solo nell’ultimo anno, secondo una ricerca del “The Arab Center for the Advancement of Social Media”.

La verità prevarrà

Ugualmente, il 16 novembre i giornalisti palestinesi hanno lanciato una campagna in solidarietà con il loro collega Muath Amarna, che ha perso l’occhio sinistro a causa di un proiettile delle forze di occupazione durante la sua copertura degli scontri scoppiati nel villaggio di Surif vicino a Hebron,il 15 di novembre.

I giornalisti palestinesi si sono attivati su Twitter con due hashtag #Muaths_eye e #The_eye_of_truth_wont_be_extinguished, in cui hanno espresso la loro solidarietà al collega che a causa, ancora una volta , dell’occupazione, non sarà più in grado di continuare il suo lavoro. Alcuni giornalisti hanno caricato la sua foto con l’occhio bendato, accompagnata dal commento: “Siamo tutti Muath”.

In tre lingue diverse – arabo, inglese e francese – i giornalisti palestinesi hanno scritto: “Muath Amarna è un giornalista palestinese che con la sua macchina fotografica ha documentato molti scontri. Ma dopo il 15 novembre, non è più in grado di completare il suo lavoro giornalistico a causa di un proiettile sparato contro di lui dai soldati dell’occupazione durante la sua copertura degli scontri nel villaggio di Surif a Hebron. Il proiettile l’ha reso cieco del suo occhio sinistro “.

Nella stessa dichiarazione, il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha anche condannato il targeting di Amarna, aggiungendo che aveva portato il crimine davanti alla Lega Araba e alle Nazioni Unite esortandoli a prendere una posizione contro i crimini dell’occupazione che colpiscono specificamente i giornalisti palestinesi.

Alla fine di ottobre, il sindacato ha anche registrato circa 606 casi di attacchi contro giornalisti palestinesi, tra cui giornalisti feriti da munizioni vere, proiettili di gomma, bombole di gas lacrimogeni e bombe sonore, nonché assalti fisici, convocazioni per interrogatori, raid su eventi mediatici, imposizione agli arresti domiciliari e prevenzione della copertura di notizie, nonché altri abusi.

Il Sindacato ha affermato che questi attacchi sono intenzionali e mirano a impedire al corpo dei giornalisti palestinesi di denunciare i crimini dell’occupazione.

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org

The Kimberly Process*: la lavanderia multimilionaria dei diamanti insanguinati di Israele.

Pochi sanno che i diamanti sono l’esportazione manifatturiera numero uno di Israele, una “pietra angolare” della sua economia. Secondo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, quell’economia “genera l’88% del budget per la sicurezza che finanzia le forze di difesa israeliane e le agenzie di sicurezza ( Mossad e Shin Bet)”.



Sean Clinton – 19 novembre 2019 - Immagine di copertina di Pixabay

La scorsa settimana c’è stato un brutale e spietato attacco contro una famiglia che dormiva nella sua casa di Gaza, uccidendo marito e moglie e disseminando pezzi dei loro corpi lungo la strada; il bombardamento successivo ha ucciso 34 persone, tra cui una famiglia di otto persone. Il fatto che tutto ciò sia stato fatto da un esponente di spicco dell’industria mondiale dei diamanti, dimostra chiaramente l’entità della frode perpetrata da quell’industria nel definirsi ” conflict free”.

Pochi sanno che i diamanti sono l’esportazione manifatturiera numero uno di Israele, una “pietra angolare” della sua economia. Secondo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, quell’economia “genera l’88% del budget per la sicurezza che finanzia le forze di difesa israeliane e le agenzie di sicurezza ( Mossad e Shin Bet)”.

Il Jerusalem Post riporta che “Israele fattura circa 28 miliardi di dollari in diamanti all’anno. Il valore dei diamanti esportati è così significativo (circa un quinto delle esportazioni industriali totali) che il governo riferisce che i suoi dati non comprendono i diamanti per garantire che le gemme non ne distorcano i valori “.

Durante questa settimana, i membri dell’organismo di regolamentazione dei diamanti, il Kimberley Process (KP), si incontrano a Nuova Delhi per concludere tre anni di revisioni e di riforme volte principalmente ad espandere la definizione di ” conflict diamond” ” al fine di mettere fuorilegge i diamanti legati alle violazioni dei diritti dell’uomo da parte di forze governative. Questo intento fallirà sicuramente. Non è stata infatti presentata una sola mozione per mettere fuori legge i diamanti insanguinati che entrano nella catena di approvvigionamento a
..segue ./.

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