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La VOCE ANNO XXII N°6

febbraio 2020

PAGINA 7

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segue da pag.6: la faida permanente di trump, novello epimeteo. entrati in un’era infine pacifica e di progresso inarrestabile della democrazia ha retto soltanto poco più di un decennio, abbattuta insieme alle twin towers di new york l’11 settembre 2001. e oggi non possiamo che constatare di essere entrati sì in una nuova epoca, ma regressiva; che si caratterizza per l’incapacità ormai cronica da parte dei governi, primi fra tutti quelli occidentali, di riconoscere la natura stessa delle crisi che stiamo attraversando e di trovare una soluzione adeguata alle sfide quotidiane che si trovano a dover affrontare. gli stati sopravvivono come coprotagonisti ignari di un nuovo totalitarismo neoliberale che coinvolge gruppi pubblici e privati, di paesi sviluppati e non, che rivendicano ruoli politici o anche soltanto economici, ma finiscono per condividere una comunità di condotte e di linguaggi. un totalitarismo che nasce dalla crescente strutturazione della rete transnazionale di oikocrazie: governi a base clanica, capaci di conciliare i peculiari intrecci di interessi politici, economici e sociali presenti a livello territoriale con le dinamiche imposte dalla globalizzazione; e in grado di affermarsi come una sorta di “regime unico” ovunque nel mondo, nei paesi democratici come in quelli autoritari[1]. scrivendo della struttura sociale del totalitarismo all’inizio degli anni quaranta, sigmund neumann osservava che «il primo obiettivo del totalitarismo è perpetuare e istituzionalizzare la rivoluzione». lo stato di belligeranza ne rappresenta uno degli elementi definitori: «la guerra rappresenta il suo inizio, il suo requisito, la sua prova. è nel crepuscolo di un mondo in guerra che irrompono le fiamme della rivoluzione. un costante stato di guerra costituisce la condizione naturale della dittatura totalitaria»[2]. ho già avuto modo di osservare, anche da queste pagine, che a differenza che nel passato, però, oggi la belligeranza si manifesta soprattutto nella forma di una guerra civile globale permanente: conflitti interni agli stati, combattuti da piccole unità di “soldati” dotati di armi “leggere”, che si trasformano nella condizione quotidiana di un numero crescente di cittadini inermi, e destinati a riverberare comunque a livello internazionale. l’azione compiuta dall’amministrazione trump e la vendetta promessa dal regime iraniano sono la dimostrazione che a quel tipo di guerra giocata ogni giorno sulla pelle dei civili corrisponde una politica delle élite che rispecchia sempre più i criteri della faida. la faida permanente, potremmo dire, costituisce il contraltare della guerra civile globale permanente. la faida, va detto, non può essere liquidata come uno strumento per garantire la sicurezza nelle società semplici o in quelle che ancora non hanno realizzato appieno il processo di monopolizzazione della forza. non si tratta di un arcaismo, residuale di aree di sottosviluppo: «è più che soltanto grida e furia»[3] e «non consiste in un’inflizione arbitraria o anarchica di sanzioni tra individui»[4]. la faida possiede una propria dimensione (pre)giuridica, serve a mantenere l’ordine e rivendica persino una funzione morale – basterebbero gli esempi del codice barbaricino in sardegna o del kanun in albania a ricordarcelo. la faida è violenza esercitata per riparare un torto che si ritiene di aver subìto, o preventivamente agita per impedire che venga commesso. la vittima non è più l’astratto rappresentante di una nazione o di una classe avversa; bensì colui che con la sua sola presenza costituisce una sfida alla propria identità e, ma soltanto in seconda battuta e non sempre, una minaccia alla propria incolumità. la faida, allora, può ambire ad essere strumento di governo della violenza negli spazi sottratti al controllo dello stato; e così pure può arrivare a giudicare delle violazioni della legge di un clan. ma non può mai assurgere a strumento di relazione tra stati; tanto meno di governi che si pretendono democratici. dal punto di vista, poi, delle opinioni pubbliche, di noi comuni cittadini, la faida pone due problemi peculiari che, in qualche modo, “giustificano” l’inconsistenza dei dibattiti in corso: 1) rende impossibile discuterne nel merito perché le vere ragioni politiche o anche soltanto strategico-militari rimangono occulte: le cause ultime della faida sono note soltanto ai membri del clan; 2) rende impossibile anche attribuire delle chiare responsabilità: tutti gli attori coinvolti possono a buon titolo scaricarsi vicendevolmente, ad infinitum, la responsabilità di averla avviata e, oltretutto, possono dissimulare la propria vera identità. o, almeno, così era stato finora. un autocrate come putin ha più volte dimostrato, da quando è al potere, di sapersi vendicare dei propri nemici reali o potenziali senza che nessuno potesse mai attribuirgli la paternità di quei delitti. trump, invece, ha voluto rivendicare la sua vendetta, esponendo, potremmo dire, la sua “nudità” nei confronti del diritto interno e internazionale. se si vuole, a suo modo è un innovatore nel campo delle faide, facendo seguire all’atto fisico anche quello comunicativo: il tweet come prosecuzione della faida con altri mezzi. da questo punto di vista riesce a distinguersi persino rispetto all’amministrazione di george w. bush che pure – in una fase storica nella quale i termini del conflitto (e delle colpe) erano di gran lunga più evidenti, garantendo alla presidenza americana un grado di consenso interno e di legittimazione internazionale senza precedenti – era riuscita a trasformare una “guerra giusta” (secondo i canoni dello jus belli) in una “guerra santa”, quando non addirittura in una farsa (basti ricordare il discorso del segretario di stato colin powell al consiglio di sicurezza dell’onu, il 5 febbraio 2003, con la fialetta di antrace mostrata al mondo come presunta prova del fatto che il dittatore iracheno saddam hussein disponeva di armi di distruzione di massa). il vero e proprio cambio di paradigma delle relazioni internazionali che deriva dal ritorno alla faida come pratica di governo può trovare una perfetta rappresentazione in una metafora mitica. il novecento, infatti, è stato spesso identificato come il secolo di prometeo, il titano che ama gli uomini al punto da far loro dono del fuoco rubato a zeus, perché possano progredire verso la civiltà. prometeo è colui che sa prevedere, che pensa prima di agire, che compie grandi imprese, anche a costo di essere punito. non è un caso che sia stato scelto come metafora della rivoluzione industriale del novecento, con tutte le sue implicazioni benefiche e malefiche (le due guerre mondiali). ma prometeo ha un fratello, epimeteo, causa indiretta della sua cattiva sorte (avendo lui distribuito agli animali, esaurendole, le qualità che sarebbero dovute servire anche per gli esseri umani). nel mito, epimeteo (colui che si rende conto dopo) pensa dopo aver agito, è contrario allo spirito del diritto in quanto seguace dell’ordine naturale e pre-giuridico, in nome di un’ingenua adesione alla vita e alla terra. e accetta in dono da zeus come propria sposa pandora, la guardiana della speranza, colei che tutto dona. nel nuovo millennio, a giudicare dalle cronache, l’afflato epimeteico si sta diffondendo come un’epidemia tra le leadership occidentali, non ultima quella italiana. ma trump, se non altro per il ruolo che interpreta, rappresenta la più autentica incarnazione di epimeteo e, come il titano del mito, potrebbe essere indotto dalla sua stoltezza ad aprire il vaso contenente tutti i mali dell’umanità. possiamo soltanto augurarci che esista, nel mondo, anche una pandora in grado di richiudere quel vaso prima che sfugga anche la speranza. note. [1] f. armao, 2020, l’età dell’oikocrazia. il nuovo totalitarismo globale dei clan, meltemi, milano. [2] s. neumann, 1965, permanent revolution. totalitarianism in the age of international civil war, praeger, new york, pp. xii e xv. [3] j. grutzpalk, 2002, blood feud and modernity: max weber’s and émile durkheim’s theories, in journal of classical sociology, 2, 2, pp. 115-134. [4] s. caffrey e g. mundy, 2001, informal systems of justice: the formation of law within gypsy communities, in w. o. weyrauch, a cura di, gypsy law. romani legal traditions and culture, university of california press, berkeley (ca), pp. 101-116. l’arte della guerra (il manifesto, 14 gennaio 2020). chiamata alle armi, la nato mobilitata su due fronti. lo spiegamento di forze usa in europa, in aprile-maggio, per la defender europe 20. manlio dinucci. natome: così il presidente trump, che si vanta del proprio talento nel creare acronimi, ha già battezzato lo spiegamento della nato in medio oriente, da lui richiesto per telefono al segretario generale dell’alleanza stoltenberg. questi ha immediatamente acconsentito che la nato debba avere «un accresciuto ruolo in medio oriente, in particolare nelle missioni di addestramento». ha quindi partecipato alla riunione dei ministri degli esteri della ue, sottolineando che l’unione europea deve.
restare a fianco degli stati uniti e della nato poiché, «anche se abbiamo fatto enormi progressi, daesh può ritornare». gli stati uniti cercano in tal modo di coinvolgere gli alleati europei nella caotica situazione provocata dall’assassinio, autorizzato dallo stesso trump, del generale iraniano soleimani appena sbarcato all’aeroporto di baghdad. dopo che il parlamento iracheno ha deliberato l’espulsione degli oltre 5.000 soldati usa, presenti nel paese insieme a migliaia di contractor del pentagono, il primo ministro abdul-mahdi ha chiesto al dipartimento di stato di inviare una delegazione per stabilire la procedura del ritiro. gli usa – ha risposto il dipartimento – invieranno una delegazione «non per discutere il ritiro di truppe, ma l’adeguato dispositivo di forze in medio oriente», aggiungendo che a washington si sta concordando «il rafforzamento del ruolo della nato in iraq in linea con il desiderio del presidente che gli alleati condividano l’onere in tutti gli sforzi per la nostra difesa collettiva». il piano è chiaro: sostituire, totalmente o in parte, le truppe usa in iraq con quelle degli alleati europei, che verrebbero a trovarsi nelle situazioni più rischiose, come dimostra il fatto che la stessa nato, dopo l’assassinio di soleimani, ha sospeso le missioni di addestramento in iraq. oltre che sul fronte meridionale, la nato viene mobilitata su quello orientale. per «difendere l’europa dalla minaccia russa», si sta preparando l’esercitazione defender europe 20, che vedrà in aprile e maggio il più grande spiegamento di forze usa in europa degli ultimi 25 anni. arriveranno dagli stati uniti 20.000 soldati, tra cui alcune migliaia della guardia nazionale provenienti da 12 stati usa, che si uniranno a 9.000 già presenti in europa portando il totale a circa 30.000. essi saranno affiancati da 7.000 soldati di 13 paesi europei della nato, tra cui l’italia, e 2 partner, georgia e finlandia. oltre agli armamenti che arriveranno da oltreatlantico, le truppe usa impiegheranno 13.000 carri armati, cannoni semoventi, blindati e altri mezzi militari provenienti da «depositi preposizionati» usa in europa. convogli militari con mezzi corazzati percorreranno 4.000 km attraverso 12 arterie, operando insieme ad aerei, elicotteri, droni e unità navali. paracadutisti usa della 173a brigata e italiani delle brigata folgore si lanceranno insieme in lettonia. l’esercitazione defender europe 20 assume ulteriore rilievo, nella strategia usa/nato, in seguito all’acuirsi della crisi mediorientale. il pentagono, che l’anno scorso ha inviato altri 14.000 soldati in medio oriente, sta dirottando nella stessa regione alcune forze che si stavano preparando all’esercitazione di guerra in europa: 4.000 paracadutisti della 82a divisione aviotrasportata (comprese alcune centinaia da vicenza) e 4.500 marinai e marines della nave da assalto anfibio uss bataan. altre forze, prima o dopo l’esercitazione in europa, potrebbero essere inviate in medio oriente. la pianificazione della defender europe 20, precisa il pentagono, resta però immutata. in altre parole, 30.000 soldati usa si eserciteranno a difendere l’europa da una aggressione russa, scenario che mai potrebbe verificarsi anche perché nello scontro si userebbero non carri armati ma missili nucleari. scenario comunque utile per seminare tensione e alimentare l’idea del nemico. lettera aperta ai compagni italiani. riceviamo da lorenzo battisti. cari compagni italiani, siamo lavoratori italiani che vivono in francia. siamo militanti del sindacato di classe francese, cgt, la confédération générale du travail. da oltre un mese, dal 5 dicembre, ci sono mobilitazioni e scioperi contro la riforma delle pensioni del governo macron. oltre un mese in cui i trasporti sono bloccati, in cui lavoratori dormono al fuoco dei copertoni nei depositi degli autobus, nelle centrali elettriche, nelle raffinerie, nei porti. ma anche un mese in cui si sono mobilitati lavoratori che non lo avevano mai fatto prima: gli avvocati sono in sciopero, con il loro sindacato e sostenuti da tutto l’ordine; i lavoratori della cultura, che hanno bloccato i teatri e che si esibiscono gratuitamente in strada a sostegno del loro sciopero e di quello di tutti gli altri settori. ma anche scuole, poste, ospedali, in mobilitazione da oltre un anno. o le lavoratrici a cottimo degli hotel, che scioperano da oltre sei mesi. tutto questo non è ovviamente solo uno sciopero contro una delle tante contro riforme delle pensioni. e’ una tenace resistenza contro la cancellazione del progetto di società uscito dalla resistenza al nazismo, che prevedeva per tutti un sistema di protezione sociale che permettesse una vita sicura, lontano da povertà economica e culturale, da fame, angoscia e paura. quello a cui assistiamo non è solo uno sciopero. e’ uno sconvolgimento totale della società, un evento che cambia la propria vita e che segnerà il futuro sociale di questo paese. e’ uno sciopero tra i più lunghi, più lungo di quello del 1995, che bloccò la francia, più lungo di quello del ‘68, forse la più grande mobilitazione dei lavoratori in europa da quella dei minatori contro la tatcher. e’ la prima grande risposta dei lavoratori europei alla crisi cominciata 10 anni fa. nonostante i disagi, tutti i sondaggi continuano a mostrare un grande sostegno agli scioperi. anche i sondaggi fatti con domande talmente contorte pur di suggerire la risposta giusta, falliscono e mostrano percentuali ben oltre il 50% a favore degli scioperanti. la partecipazione agli scioperi, dopo la pausa natalizia, è ricominciata ed è fortissima, giovedì eravamo oltre un milione e settecento mila. una pausa natalizia che non c’è stata per tutti quei lavoratori che da oltre un mese scioperano ad oltranza e che non hanno fatto alcun natale e alcun capodanno e che non hanno ricevuto nulla come stipendio a dicembre e che non riceveranno nulla neanche a gennaio. due mesi senza stipendio, niente regali per i figli, niente cenone. la tredicesima è servita a partecipare allo sciopero e alcuni hanno fatto debiti per continuare a resistere. la solidarietà è stata forte, a dimostrazione del sostegno che hanno questi eroici lavoratori. la cassa nazionale di sostegno allo sciopero è arrivata in un mese a oltre due milioni di euro, e altre casse locali sono state create a sostegno dei lavoratori, come quella di parigi che ha raggiunto in pochi giorni i 100’000 euro. questi soldi non sono stati donati da chissà chi. sono stati donati da persone come noi, che arrivano a fine mese e basta, da mamme single, da anziani con la pensione sociale, da disoccupati, da interinali, da lavoratori immigrati, dai fattorini e da tantissimi che ..segue ./.
Segue da Pag.6: La faida permanente di Trump, novello Epimeteo

entrati in un’era infine pacifica e di progresso inarrestabile della democrazia ha retto soltanto poco più di un decennio, abbattuta insieme alle Twin Towers di New York l’11 settembre 2001. E oggi non possiamo che constatare di essere entrati sì in una nuova epoca, ma regressiva; che si caratterizza per l’incapacità ormai cronica da parte dei governi, primi fra tutti quelli occidentali, di riconoscere la natura stessa delle crisi che stiamo attraversando e di trovare una soluzione adeguata alle sfide quotidiane che si trovano a dover affrontare. Gli stati sopravvivono come coprotagonisti ignari di un nuovo totalitarismo neoliberale che coinvolge gruppi pubblici e privati, di paesi sviluppati e non, che rivendicano ruoli politici o anche soltanto economici, ma finiscono per condividere una comunità di condotte e di linguaggi. Un totalitarismo che nasce dalla crescente strutturazione della rete transnazionale di oikocrazie: governi a base clanica, capaci di conciliare i peculiari intrecci di interessi politici, economici e sociali presenti a livello territoriale con le dinamiche imposte dalla globalizzazione; e in grado di affermarsi come una sorta di “regime unico” ovunque nel mondo, nei paesi democratici come in quelli autoritari[1].

Scrivendo della struttura sociale del totalitarismo all’inizio degli anni Quaranta, Sigmund Neumann osservava che «il primo obiettivo del totalitarismo è perpetuare e istituzionalizzare la rivoluzione». Lo stato di belligeranza ne rappresenta uno degli elementi definitori: «La guerra rappresenta il suo inizio, il suo requisito, la sua prova. È nel crepuscolo di un mondo in guerra che irrompono le fiamme della rivoluzione. Un costante stato di guerra costituisce la condizione naturale della dittatura totalitaria»[2]. Ho già avuto modo di osservare, anche da queste pagine, che a differenza che nel passato, però, oggi la belligeranza si manifesta soprattutto nella forma di una guerra civile globale permanente: conflitti interni agli stati, combattuti da piccole unità di “soldati” dotati di armi “leggere”, che si trasformano nella condizione quotidiana di un numero crescente di cittadini inermi, e destinati a riverberare comunque a livello internazionale.

L’azione compiuta dall’amministrazione Trump e la vendetta promessa dal regime iraniano sono la dimostrazione che a quel tipo di guerra giocata ogni giorno sulla pelle dei civili corrisponde una politica delle élite che rispecchia sempre più i criteri della faida. La faida permanente, potremmo dire, costituisce il contraltare della guerra civile globale permanente.

La faida, va detto, non può essere liquidata come uno strumento per garantire la sicurezza nelle società semplici o in quelle che ancora non hanno realizzato appieno il processo di monopolizzazione della forza. Non si tratta di un arcaismo, residuale di aree di sottosviluppo: «è più che soltanto grida e furia»[3] e «non consiste in un’inflizione arbitraria o anarchica di sanzioni tra individui»[4]. La faida possiede una propria dimensione (pre)giuridica, serve a mantenere l’ordine e rivendica persino una funzione morale – basterebbero gli esempi del codice barbaricino in Sardegna o del Kanun in Albania a ricordarcelo. La faida è violenza esercitata per riparare un torto che si ritiene di aver subìto, o preventivamente agita per impedire che venga commesso. La vittima non è più l’astratto rappresentante di una nazione o di una classe avversa; bensì colui che con la sua sola presenza costituisce una sfida alla propria identità e, ma soltanto in seconda battuta e non sempre, una minaccia alla propria incolumità. La faida, allora, può ambire ad essere strumento di governo della violenza negli spazi sottratti al controllo dello stato; e così pure può arrivare a giudicare delle violazioni della legge di un clan. Ma non può mai assurgere a strumento di relazione tra stati; tanto meno di governi che si pretendono democratici.

Dal punto di vista, poi, delle opinioni pubbliche, di noi comuni cittadini, la faida pone due problemi peculiari che, in qualche modo, “giustificano” l’inconsistenza dei dibattiti in corso: 1) rende impossibile discuterne nel merito perché le vere ragioni politiche o anche soltanto strategico-militari rimangono occulte: le cause ultime della faida sono note soltanto ai membri del clan; 2) rende impossibile anche attribuire delle chiare responsabilità: tutti gli attori coinvolti possono a buon titolo scaricarsi vicendevolmente, ad infinitum, la responsabilità di averla avviata e, oltretutto, possono dissimulare la propria vera identità. O, almeno, così era stato finora.

Un autocrate come Putin ha più volte dimostrato, da quando è al potere, di sapersi vendicare dei propri nemici reali o potenziali senza che nessuno potesse mai attribuirgli la paternità di quei delitti. Trump, invece, ha voluto rivendicare la sua vendetta, esponendo, potremmo dire, la sua “nudità” nei confronti del diritto interno e internazionale. Se si vuole, a suo modo è un innovatore nel campo delle faide, facendo seguire all’atto fisico anche quello comunicativo: il tweet come prosecuzione della faida con altri mezzi.

Da questo punto di vista riesce a distinguersi persino rispetto all’amministrazione di George W. Bush che pure – in una fase storica nella quale i termini del conflitto (e delle colpe) erano di gran lunga più evidenti, garantendo alla Presidenza americana un grado di consenso interno e di legittimazione internazionale senza precedenti – era riuscita a trasformare una “guerra giusta” (secondo i canoni dello jus belli) in una “guerra santa”, quando non addirittura in una farsa (basti ricordare il discorso del Segretario di Stato Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il 5 febbraio 2003, con la fialetta di antrace mostrata al mondo come presunta prova del fatto che il dittatore iracheno Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa).

Il vero e proprio cambio di paradigma delle relazioni internazionali che deriva dal ritorno alla faida come pratica di governo può trovare una perfetta rappresentazione in una metafora mitica. Il Novecento, infatti, è stato spesso identificato come il secolo di Prometeo, il titano che ama gli uomini al punto da far loro dono del fuoco rubato a Zeus, perché possano progredire verso la civiltà. Prometeo è colui che sa prevedere, che pensa prima di agire, che compie grandi imprese, anche a costo di essere punito. Non è un caso che sia stato scelto come metafora della rivoluzione industriale del Novecento, con tutte le sue implicazioni benefiche e malefiche (le due guerre mondiali).

Ma Prometeo ha un fratello, Epimeteo, causa indiretta della sua cattiva sorte (avendo lui distribuito agli animali, esaurendole, le qualità che sarebbero dovute servire anche per gli esseri umani). Nel mito, Epimeteo (colui che si rende conto dopo) pensa dopo aver agito, è contrario allo spirito del diritto in quanto seguace dell’ordine naturale e pre-giuridico, in nome di un’ingenua adesione alla vita e alla terra. E accetta in dono da Zeus come propria sposa Pandora, la guardiana della speranza, colei che tutto dona.

Nel nuovo millennio, a giudicare dalle cronache, l’afflato epimeteico si sta diffondendo come un’epidemia tra le leadership occidentali, non ultima quella italiana. Ma Trump, se non altro per il ruolo che interpreta, rappresenta la più autentica incarnazione di Epimeteo e, come il titano del mito, potrebbe essere indotto dalla sua stoltezza ad aprire il vaso contenente tutti i mali dell’umanità. Possiamo soltanto augurarci che esista, nel mondo, anche una Pandora in grado di richiudere quel vaso prima che sfugga anche la speranza.

NOTE
[1] F. Armao, 2020, L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan, Meltemi, Milano.
[2] S. Neumann, 1965, Permanent Revolution. Totalitarianism in the Age of International Civil War, Praeger, New York, pp. XII e XV.
[3] J. Grutzpalk, 2002, Blood Feud and Modernity: Max Weber’s and Émile Durkheim’s Theories, in Journal of Classical Sociology, 2, 2, pp. 115-134.
[4] S. Caffrey e G. Mundy, 2001, Informal Systems of Justice: The Formation of Law within Gypsy Communities, in W. O. Weyrauch, a cura di, Gypsy Law. Romani Legal Traditions and Culture, University of California Press, Berkeley (CA), pp. 101-116.

L’Arte della guerra (il manifesto, 14 gennaio 2020)

Chiamata alle armi,
la NATO mobilitata su due fronti

Lo spiegamento di forze Usa in Europa, in aprile-maggio,
per la Defender Europe 20
Manlio Dinucci

NATOME: così il presidente Trump, che si vanta del proprio talento nel creare acronimi, ha già battezzato lo spiegamento della Nato in Medio Oriente, da lui richiesto per telefono al segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg.

Questi ha immediatamente acconsentito che la Nato debba avere «un accresciuto ruolo in Medio Oriente, in particolare nelle missioni di addestramento». Ha quindi partecipato alla riunione dei ministri degli esteri della Ue, sottolineando che l’Unione europea deve


restare a fianco degli Stati uniti e della Nato poiché, «anche se abbiamo fatto enormi progressi, Daesh può ritornare».

Gli Stati uniti cercano in tal modo di coinvolgere gli alleati europei nella caotica situazione provocata dall’assassinio, autorizzato dallo stesso Trump, del generale iraniano Soleimani appena sbarcato all’aeroporto di Baghdad.

Dopo che il parlamento iracheno ha deliberato l’espulsione degli oltre 5.000 soldati Usa, presenti nel paese insieme a migliaia di contractor del Pentagono, il primo ministro Abdul-Mahdi ha chiesto al Dipartimento di Stato di inviare una delegazione per stabilire la procedura del ritiro. Gli Usa – ha risposto il Dipartimento – invieranno una delegazione «non per discutere il ritiro di truppe, ma l’adeguato dispositivo di forze in Medio Oriente», aggiungendo che a Washington si sta concordando «il rafforzamento del ruolo della Nato in Iraq in linea con il desiderio del Presidente che gli Alleati condividano l’onere in tutti gli sforzi per la nostra difesa collettiva».

Il piano è chiaro: sostituire, totalmente o in parte, le truppe Usa in Iraq con quelle degli alleati europei, che verrebbero a trovarsi nelle situazioni più rischiose, come dimostra il fatto che la stessa Nato, dopo l’assassinio di Soleimani, ha sospeso le missioni di addestramento in Iraq.

Oltre che sul fronte meridionale, la Nato viene mobilitata su quello orientale. Per «difendere l’Europa dalla minaccia russa», si sta preparando l’esercitazione Defender Europe 20, che vedrà in aprile e maggio il più grande spiegamento di forze Usa in Europa degli ultimi 25 anni.

Arriveranno dagli Stati uniti 20.000 soldati, tra cui alcune migliaia della Guardia Nazionale provenienti da 12 Stati Usa, che si uniranno a 9.000 già presenti in Europa portando il totale a circa 30.000. Essi saranno affiancati da 7.000 soldati di 13 paesi europei della Nato, tra cui l’Italia, e 2 partner, Georgia e Finlandia.

Oltre agli armamenti che arriveranno da oltreatlantico, le truppe Usa impiegheranno 13.000 carri armati, cannoni semoventi, blindati e altri mezzi militari provenienti da «depositi preposizionati» Usa in Europa. Convogli militari con mezzi corazzati percorreranno 4.000 km attraverso 12 arterie, operando insieme ad aerei, elicotteri, droni e unità navali.

Paracadutisti Usa della 173a Brigata e italiani delle Brigata Folgore si lanceranno insieme in Lettonia.

L’esercitazione Defender Europe 20 assume ulteriore rilievo, nella strategia Usa/Nato, in seguito all’acuirsi della crisi mediorientale. Il Pentagono, che l’anno scorso ha inviato altri 14.000 soldati in Medio Oriente, sta dirottando nella stessa regione alcune forze che si stavano preparando all’esercitazione di guerra in Europa: 4.000 paracadutisti della 82a Divisione aviotrasportata (comprese alcune centinaia da Vicenza) e 4.500 marinai e marines della nave da assalto anfibio USS Bataan. Altre forze, prima o dopo l’esercitazione in Europa, potrebbero essere inviate in Medio Oriente.

La pianificazione della Defender Europe 20, precisa il Pentagono, resta però immutata. In altre parole, 30.000 soldati Usa si eserciteranno a difendere l’Europa da una aggressione russa, scenario che mai potrebbe verificarsi anche perché nello scontro si userebbero non carri armati ma missili nucleari.

Scenario comunque utile per seminare tensione e alimentare l’idea del nemico.

Lettera aperta ai compagni italiani

riceviamo da Lorenzo Battisti

Cari compagni italiani,
siamo lavoratori italiani che vivono in Francia. Siamo militanti del sindacato di classe francese, CGT, la Confédération Générale du Travail.

Da oltre un mese, dal 5 Dicembre, ci sono mobilitazioni e scioperi contro la riforma delle pensioni del Governo Macron. Oltre un mese in cui i trasporti sono bloccati, in cui lavoratori dormono al fuoco dei copertoni nei depositi degli autobus, nelle centrali elettriche, nelle raffinerie, nei porti. Ma anche un mese in cui si sono mobilitati lavoratori che non lo avevano mai fatto prima: gli avvocati sono in sciopero, con il loro sindacato e sostenuti da tutto l’ordine; i lavoratori della cultura, che hanno bloccato i teatri e che si esibiscono gratuitamente in strada a sostegno del loro sciopero e di quello di tutti gli altri settori. Ma anche scuole, poste, ospedali, in mobilitazione da oltre un anno. O le lavoratrici a cottimo degli hotel, che scioperano da oltre sei mesi.

Tutto questo non è ovviamente solo uno sciopero contro una delle tante contro riforme delle pensioni. E’ una tenace resistenza contro la cancellazione del progetto di società uscito dalla Resistenza al nazismo, che prevedeva per tutti un sistema di protezione sociale che permettesse una vita sicura, lontano da povertà economica e culturale, da fame, angoscia e paura.

Quello a cui assistiamo non è solo uno sciopero. E’ uno sconvolgimento totale della società, un evento che cambia la propria vita e che segnerà il futuro sociale di questo paese. E’ uno sciopero tra i più lunghi, più lungo di quello del 1995, che bloccò la Francia, più lungo di quello del ‘68, forse la più grande mobilitazione dei lavoratori in Europa da quella dei minatori contro la Tatcher. E’ la prima grande risposta dei lavoratori europei alla crisi cominciata 10 anni fa.

Nonostante i disagi, tutti i sondaggi continuano a mostrare un grande sostegno agli scioperi. Anche i sondaggi fatti con domande talmente contorte pur di suggerire la risposta giusta, falliscono e mostrano percentuali ben oltre il 50% a favore degli scioperanti. La partecipazione agli scioperi, dopo la pausa natalizia, è ricominciata ed è fortissima, giovedì eravamo oltre un milione e settecento mila. Una pausa natalizia che non c’è stata per tutti quei lavoratori che da oltre un mese scioperano ad oltranza e che non hanno fatto alcun Natale e alcun Capodanno e che non hanno ricevuto nulla come stipendio a Dicembre e che non riceveranno nulla neanche a Gennaio. Due mesi senza stipendio, niente regali per i figli, niente cenone. La tredicesima è servita a partecipare allo sciopero e alcuni hanno fatto debiti per continuare a resistere.

La solidarietà è stata forte, a dimostrazione del sostegno che hanno questi eroici lavoratori. La cassa nazionale di sostegno allo sciopero è arrivata in un mese a oltre due milioni di euro, e altre casse locali sono state create a sostegno dei lavoratori, come quella di Parigi che ha raggiunto in pochi giorni i 100’000 euro. Questi soldi non sono stati donati da chissà chi. Sono stati donati da persone come noi, che arrivano a fine mese e basta, da mamme single, da anziani con la pensione sociale, da disoccupati, da interinali, da lavoratori immigrati, dai fattorini e da tantissimi che
..segue ./.

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