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La VOCE 1909

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La VOCE ANNO XXII N°1

settembre 2019

PAGINA 4


           
l’obiettivo della cina dietro 5g e guerra con gli usa di andrea pomella | da ilsussidiario.net piano made in cina 2025 e volontà di divenire un’economia basata sull’autosufficienza nazionale sono le due linee guida dell’azione di pechino il g20 di osaka sembrava aver sancito una tregua nelle guerre commerciali fra usa e cina, il presidente trump aveva promesso di non imporre nuovi dazi e di allentare i vincoli alle attività di huawei. una tregua che molti commentatori vedono già vacillare, ma che probabilmente ha contribuito a creare un clima positivo nei rapporti fra l’italia e il colosso asiatico, di cui può essere espressione la decisione di thomas miao, il ceo di huawei italia, di investire nel nostro paese 3,1 miliardi di dollari, creando mille posti di lavoro, con un effetto moltiplicatore sull’indotto che dovrebbe assicurarne altri duemila. miao ha tenuto a precisare che le relazioni commerciali con l’italia sono indipendenti da quelle con gli altri paesi e che il legame che unisce le due economie ha radici secolari e le rende del tutto complementari. la sensazione è che la firma del memorandum, avvenuta a marzo, inizi a dare i primi frutti e che le reazioni contrastanti che aveva suscitato abbiano mitigato i loro effetti sul dibattito pubblico. a fronte del ritardo accumulato dall’italia nelle relazioni commerciali con la cina nei confronti degli altri paesi europei – la germania, ad esempio, ha un volume d’affari con la cina cinque volte maggiore rispetto a quello del nostro paese – si può ipotizzare che la brusca accelerazione impressa dal memorandum abbia spiazzato gran parte degli osservatori. indipendentemente dal contesto delle relazioni internazionali, sembra che il memorandum abbia innescato un processo ormai irreversibile e che il rapporto con la cina sia destinato a consolidarsi. ciò che però va chiarito è il modo in cui questi rapporti verranno governati. il dossier huawei rappresenta un caso paradigmatico e che può fungere da modello per le prossime occasioni di business. i rischi sono rappresentati da fusioni o acquisizioni predatorie di imprese di importanza strategica per la nostra economia nazionale, mentre gli investimenti huawei finanziano centri di ricerca e sviluppo che possono dotare il tessuto industriale di nuove capacità produttive di tipo greenfield che, cioè, creano ex novo processi di accumulazione e occupazione. in quest’ottica gli investimenti in italia hanno una valenza diversa rispetto all’acquisizione della kuka robotics, considerato il perno del processo di automatizzazione dell’industria tedesca. l’alto valore strategico della tecnologia 5g, il cui sviluppo si riverbera su tutti i campi della quarta rivoluzione industriale e su quelli più “sensibili” delle future forme di guerra asimmetrica come quelle del cyber warfare, implica per il governo la necessità di mantenere il controllo di asset principali. non è, quindi, un caso che zte abbia affiancato huawei nella polemica nata dalla possibilità del governo italiano di esercitare il golden power sulle acquisizioni da imprese al di fuori dell’unione europea. questioni di importanza cruciale che impongono una seria riflessione sulla questione più importante del rapporto fra italia e cina, ovvero quella degli investimenti. la prospettiva finora privilegiata era quella relativa alle esportazioni cinesi, al modo in cui il colosso asiatico avrebbe riversato sui mercati europei la sua sovraccapacità produttiva, di cui la nuova via della seta è il vettore principale. in realtà la nuova via della seta è soprattutto figlia della proiezione geopolitica della volontà cinese di essere protagonista di questa nuova fase delle relazioni internazionali che si concretizza parallelamente a un’epocale trasformazione dell’economia cinese. la sensazione è che le tensioni politiche di matrice interna dei diversi soggetti in campo finiscano per far passare in secondo piano la questione geo-economica. il colosso asiatico si muove su due direttrici che sono i due aspetti della stessa strategia di lungo periodo. il primo è quello che si identifica nel piano made in cina 2025, il secondo nella volontà cinese di divenire un’economia basata sull’autosufficienza nazionale. non è un caso che in una recente intervista il ceo di huawei abbia dichiarato di essere già in possesso di un “piano b” per rendere la sua impresa del tutto autonoma dalla componentistica prodotta negli usa. in puro stile cinese, la ristrutturazione dell’industria in senso tecnologico è una strategia in cui coesistono sia gli aspetti difensivi che aggressivi. la cina ha un obiettivo primario, che consiste nel mettersi a riparo dall’incertezza politica e finanziaria di questa fase, di cui il crollo degli investimenti cina in usa e il rischio di un’escalation nelle guerre commerciali sono l’aspetto più macroscopico. in un contesto di incertezza è la cina che nel breve periodo rischia di più, e per rafforzarsi punta a una strategia che la renda completamente autonoma dal rapporto prima di dipendenza e poi di concorrenza con l’economia americana. la cina, quindi, punta all’autosufficienza nazionale in senso keynesiano, cosa che implica la capacità di produrre internamente tutto ciò che è possibile produrre, tendenza rafforzata dal rischio che comportano le guerre commerciali, perché la cina punta ad avere le capacità che le permettano di produrre ciò che non si può più importare. un obiettivo che in questa fase non può essere raggiunto senza raccogliere la sfida della quarta rivoluzione industriale. la visione di un’economia export lead che inonda i mercati concorrenti di prodotti a scarso valore aggiunto, è ormai superata e apparteneva a una fase di pura accumulazione pianificata dall’alto. la cina attuale è un paese in cui i salari crescono in modo consistente e la quota delle esportazioni diminuisce in modo significativo ogni anno, dati confermati dal fmi che ha registrato il quasi azzeramento del saldo delle partite correnti, che era del 10% nel 2007, mentre è solo dello 0,4% nel 2019. è il mercato interno la vera frontiera dell’economia cinese, orizzonte che ha sia una valenza economica che sociale. la generazione di piazza tienanmen ha pragmaticamente scambiato la libertà politica con la concreta possibilità di un crescente benessere e la dirigenza cinese sa bene che per rimanere in sella deve garantire questo sviluppo sostenuto. una generazione che sta invecchiando e che non ha fatto molti figli, cosa che implica la diminuzione della forza lavoro disponibile e quindi la necessità di robotizzare il processo produttivo. considerare questi aspetti è utile per decostruire i pregiudizi, alimentati da stereotipi e da legittime preoccupazioni che hanno accompagnato la firma del memorandum di marzo. se risultava comprensibile avere timore delle esportazioni cinesi, magari tacendo il peso di quelle tedesche che ha raggiunto il 7,3% del pil, adesso non si può non considerare il fatto che la cina tenda “naturalmente” all’espansione del mercato interno e all’equilibrio nello scambio estero. una tendenza che unita al costante apprezzamento dello yuan ci fa pensare che molto probabilmente l’economia cinese, in questa fase di incertezza, stia fungendo da unico vero stabilizzatore dell’economia internazionale. se la cina continuerà ad aprire il suo mercato agli esportatori e agli investitori esteri, avremo un’ulteriore conferma di questa funzione positiva. la china society for human rights studies smaschera l'ipocrisia degli stati uniti sui diritti umani
global times - (traduzione de l’antidiplomatico) - notizia del: 27/07/2019 un articolo della china society for human rights studies (cshrs) ha messo in luce l'ipocrisia degli stati uniti sui diritti umani, come evidenziato dalla sua situazione di discriminazione razziale. "nonostante la sua posizione personale come difensore dei diritti umani, gli stati uniti non hanno né la volontà né la capacità di risolvere il grave problema della discriminazione razziale sul proprio territorio. questo espone i difetti istituzionali e strutturali degli stati uniti”, si legge nell'articolo del cshrs pubblicato venerdì. la discriminazione razziale negli stati uniti si trova in ogni aspetto della vita delle persone, in particolare nelle forze dell'ordine, nella magistratura, nell'economia e nella società, secondo l'articolo intitolato "la profonda discriminazione razziale negli stati uniti evidenzia la loro ipocrisia sui diritti umani”. evidenziando che la discriminazione razziale ha portato a un peggioramento delle relazioni razziali, a crescenti crimini d'odio e ad un aumento della crisi sociale, l'articolo sottolinea che la discriminazione razziale è un ostacolo strutturale alla realizzazione di pari diritti e status per le minoranze razziali. la discriminazione razziale è diventata un grave problema sociale per gli stati uniti, ed è ora un punto critico per i conflitti sociali, afferma l'articolo. lo stato delle relazioni razziali negli stati uniti è determinato dalla struttura politica, dalle tradizioni storiche e dall'ideologia del paese, afferma l'articolo, aggiungendo che senza una riforma di questi, non ci può essere modo di superare l'impasse nella discriminazione razziale e porre fine al conseguente circolo vizioso nelle relazioni razziali e la corretta protezione dei diritti umani delle minoranze razziali non può avvenire. lo xinjiang, gli uiguri e la storica polemica sui diritti umani la visita del presidente cinese xi jinping in europa ha sollevato nuove polemiche sui diritti umani in cina e nello xinjiang in particolare. ma, a guardar bene, quanto c'è di realistico nelle loro argomentazioni? di maria morigi - 15 luglio 2019 per la recente visita in europa del presidente xi jingping (come se non fossero bastate le parole di tajani, il disappunto dell’europa sugli svantaggi dell’apertura verso le “opportunità cinesi” e le dichiarazioni di coloro che sono diffidenti per “vocazione genetica”…), ecco che puntuali si son fatti sentire anche i “mistici” difensori dei diritti umani e civili assoluti, quei diritti che a loro dire sarebbero negati dal “regime” cinese. european grassroots antiracist movement e altre associazioni (tra cui si distinguono l’ormai storica e nota associazione free tibet, la setta religiosa del falun gong e una svariata serie di realtà fin troppo tolleranti verso i gruppi terroristi che hanno insanguinato le terre degli uiguri) hanno lanciato un appello alla comunità internazionale, con la partecipazione sentita dei radicali italiani. repubblica del 22 marzo 2019 nell’articolo intitolato “libertà per gli uiguri in cina: l’appello internazionale nel giorno di xi a roma”” ci informa che: “oltre undici milioni di persone di lingua turca e prevalentemente di religione islamica vivono nella regione dello xinjiang, nella cina nord-occidentale. i loro rapporti con il governo centrale cinese, che nega loro l’autonomia richiesta [richiesta da chi? n.d.r], sono da tempo caratterizzati da tensioni e discriminazioni. secondo le nazioni unite, oltre un milione di uiguri e di persone appartenenti ad altre minoranze turcofone sono detenute arbitrariamente nei centri dello xinjiang… le “persecuzioni” nei confronti degli uiguri sono “senza precedenti in conseguenza del rafforzamento del regime di xi jinping, che sta dispiegando il suo progetto totalitario a livello nazionale e internazionale, usando la crescente brutalità contro gli individui e le comunità che si oppongono al suo potere, come i tibetani o membri del falun gong”. con grande soddisfazione poi vediamo che il foglio.it del 14 luglio 2019 pubblica l’articolo “l’italia condanna la cina sui diritti umani, guai in vista sulla via della seta. guerra di propaganda al consiglio per i diritti umani dell’onu appena concluso. una lettera dell’occidente compatto (senza l’america) contro le detenzioni di massa nello xinjiang”. nessun rilievo viene dato, però, al fatto che non solo c’è una risposta di pechino, ma anche una lettera di replica (non inserita ufficialmente tra gli atti della riunione plenaria, perché non tutti i paesi sono membri del consiglio per i diritti umani) firmata dagli ambasciatori di 37 paesi dall’asia (tra cui russia, corea del nord e i paesi confinanti con la cina) che, attenti alla loro sicurezza e alle misure antiterrorismo, lodano le attività cinesi nello xinjiang e il “contributo della cina alla causa internazionale dei diritti umani”. da tutta questa storia emerge un solo dato significativo: la totale ignoranza dei fatti e della legislazione cinese. perché lo xinjiang-uyghur gode di status di regione autonoma dal 1° ottobre 1955 dopo essere stato parte integrante della cina fin dal 1884 come provincia amministrativa, inoltre le prerogative concesse alle regioni autonome sono contenute nella carta costituzionale (approvata dal congresso nazionale del popolo il 4 dicembre 1982 e ufficialmente aggiornata da revisioni) esattamente al capitolo 3, sezione “organi dell’autogoverno nelle regioni autonome nazionali”. stiamo parlando di una regione dove particolarmente accesi furono gli interessi sovietici (vedansi le due repubbliche del turkestan orientale 1933-34 e 1944-49). insanguinato da terrorismo e attentati, pretese indipendentiste e ideologie pan-turche o pan-islamiche, lo xinjiang è ancora sorvegliato da forze di polizia e controlli che riescono a garantire vita normale ai comuni cittadini, servizi, attività economiche e turismo in forte espansione. va poi aggiunto che nel solo xinjiang è riconosciuta (e ben tutelata) la presenza di ben 47 gruppi etnici, di cui 13 sono quelli principali per numeri demografici. inoltre sono praticate politiche di “discriminazione positiva” nell’istruzione (per le minoranze etniche: borse di studio e accesso all’università con voti di ammissione più bassi) e l’islam è in piena fioritura con ingrandimenti di moschee e attività culturali, sostenuto dall’associazione islamica di cina (aic). e poi non dovremmo nemmeno dimenticare che molte delle varie organizzazioni pan-islamiche o pan-turche operative in xinjiang e colluse con al qaeda e isis (eastern turkestan islamic movement, eastern turkestan liberation organization, united revolutionary front of east turkestan, uyghur liberation organization,turkestan islamic party) non hanno avuto difficoltà a farsi riconoscere come colpevoli dei più gravi attentati dagli anni ’90 in poi. il partito islamico del turkestan, solo per fare un esempio, è stato infatti designato “organizzazione terroristica” da unione europea, kirghizistan, kazakistan, pakistan, russia, emirati arabi uniti, regno unito, usa e messo fuori legge dalla repubblica popolare cinese.

L’obiettivo della Cina dietro 5G e guerra con gli Usa

di Andrea Pomella | da ilsussidiario.net

Piano Made in Cina 2025 e volontà di divenire un’economia basata sull’autosufficienza nazionale sono le due linee guida dell’azione di Pechino


Il G20 di Osaka sembrava aver sancito una tregua nelle guerre commerciali fra Usa e Cina, il Presidente Trump aveva promesso di non imporre nuovi dazi e di allentare i vincoli alle attività di Huawei. Una tregua che molti commentatori vedono già vacillare, ma che probabilmente ha contribuito a creare un clima positivo nei rapporti fra l’Italia e il colosso asiatico, di cui può essere espressione la decisione di Thomas Miao, il Ceo di Huawei Italia, di investire nel nostro paese 3,1 miliardi di dollari, creando mille posti di lavoro, con un effetto moltiplicatore sull’indotto che dovrebbe assicurarne altri duemila. Miao ha tenuto a precisare che le relazioni commerciali con l’Italia sono indipendenti da quelle con gli altri paesi e che il legame che unisce le due economie ha radici secolari e le rende del tutto complementari.

La sensazione è che la firma del memorandum, avvenuta a marzo, inizi a dare i primi frutti e che le reazioni contrastanti che aveva suscitato abbiano mitigato i loro effetti sul dibattito pubblico. A fronte del ritardo accumulato dall’Italia nelle relazioni commerciali con la Cina nei confronti degli altri paesi europei – la Germania, ad esempio, ha un volume d’affari con la Cina cinque volte maggiore rispetto a quello del nostro Paese – si può ipotizzare che la brusca accelerazione impressa dal memorandum abbia spiazzato gran parte degli osservatori.

Indipendentemente dal contesto delle relazioni internazionali, sembra che il memorandum abbia innescato un processo ormai irreversibile e che il rapporto con la Cina sia destinato a consolidarsi. Ciò che però va chiarito è il modo in cui questi rapporti verranno governati. Il dossier Huawei rappresenta un caso paradigmatico e che può fungere da modello per le prossime occasioni di business. I rischi sono rappresentati da fusioni o acquisizioni predatorie di imprese di importanza strategica per la nostra economia nazionale, mentre gli investimenti Huawei finanziano centri di ricerca e sviluppo che possono dotare il tessuto industriale di nuove capacità produttive di tipo greenfield che, cioè, creano ex novo processi di accumulazione e occupazione.

In quest’ottica gli investimenti in Italia hanno una valenza diversa rispetto all’acquisizione della Kuka robotics, considerato il perno del processo di automatizzazione dell’industria tedesca. L’alto valore strategico della tecnologia 5G, il cui sviluppo si riverbera su tutti i campi della quarta rivoluzione industriale e su quelli più “sensibili” delle future forme di guerra asimmetrica come quelle del cyber warfare, implica per il Governo la necessità di mantenere il controllo di asset principali. Non è, quindi, un caso che Zte abbia affiancato Huawei nella polemica nata dalla possibilità del Governo italiano di esercitare il Golden Power sulle acquisizioni da imprese al di fuori dell’Unione europea. Questioni di importanza cruciale che impongono una seria riflessione sulla questione più importante del rapporto fra Italia e Cina, ovvero quella degli investimenti.

La prospettiva finora privilegiata era quella relativa alle esportazioni cinesi, al modo in cui il colosso asiatico avrebbe riversato sui mercati europei la sua sovraccapacità produttiva, di cui la Nuova via della Seta è il vettore principale. In realtà la Nuova via della Seta è soprattutto figlia della proiezione geopolitica della volontà cinese di essere protagonista di questa nuova fase delle relazioni internazionali che si concretizza parallelamente a un’epocale trasformazione dell’economia cinese. La sensazione è che le tensioni politiche di matrice interna dei diversi soggetti in campo finiscano per far passare in secondo piano la questione geo-economica. Il colosso asiatico si muove su due direttrici che sono i due aspetti della stessa strategia di lungo periodo. Il primo è quello che si identifica nel piano Made in Cina 2025, il secondo nella volontà cinese di divenire un’economia basata sull’autosufficienza nazionale. Non è un caso che in una recente intervista il Ceo di Huawei abbia dichiarato di essere già in possesso di un “piano b” per rendere la sua impresa del tutto autonoma dalla componentistica prodotta negli Usa.

In puro stile cinese, la ristrutturazione dell’industria in senso tecnologico è una strategia in cui coesistono sia gli aspetti difensivi che aggressivi. La Cina ha un obiettivo primario, che consiste nel mettersi a riparo dall’incertezza politica e finanziaria di questa fase, di cui il crollo degli investimenti Cina in Usa e il rischio di un’escalation nelle guerre commerciali sono l’aspetto più macroscopico. In un contesto di incertezza è la Cina che nel breve periodo rischia di più, e per rafforzarsi punta a una strategia che la renda completamente autonoma dal rapporto prima di dipendenza e poi di concorrenza con l’economia americana.

La Cina, quindi, punta all’autosufficienza nazionale in senso keynesiano, cosa che implica la capacità di produrre internamente tutto ciò che è possibile produrre, tendenza rafforzata dal rischio che comportano le guerre commerciali, perché la Cina punta ad avere le capacità che le permettano di produrre ciò che non si può più importare. Un obiettivo che in questa fase non può essere raggiunto senza raccogliere la sfida della Quarta rivoluzione industriale. La visione di un’economia export lead che inonda i mercati concorrenti di prodotti a scarso valore aggiunto, è ormai superata e apparteneva a una fase di pura accumulazione pianificata dall’alto.

La Cina attuale è un Paese in cui i salari crescono in modo consistente e la quota delle esportazioni diminuisce in modo significativo ogni anno, dati confermati dal Fmi che ha registrato il quasi azzeramento del saldo delle partite correnti, che era del 10% nel 2007, mentre è solo dello 0,4% nel 2019. È il mercato interno la vera frontiera dell’economia cinese, orizzonte che ha sia una valenza economica che sociale. La generazione di piazza Tienanmen ha pragmaticamente scambiato la libertà politica con la concreta possibilità di un crescente benessere e la dirigenza cinese sa bene che per rimanere in sella deve garantire questo sviluppo sostenuto.

Una generazione che sta invecchiando e che non ha fatto molti figli, cosa che implica la diminuzione della forza lavoro disponibile e quindi la necessità di robotizzare il processo produttivo. Considerare questi aspetti è utile per decostruire i pregiudizi, alimentati da stereotipi e da legittime preoccupazioni che hanno accompagnato la firma del memorandum di marzo. Se risultava comprensibile avere timore delle esportazioni cinesi, magari tacendo il peso di quelle tedesche che ha raggiunto il 7,3% del Pil, adesso non si può non considerare il fatto che la Cina tenda “naturalmente” all’espansione del mercato interno e all’equilibrio nello scambio estero. Una tendenza che unita al costante apprezzamento dello yuan ci fa pensare che molto probabilmente l’economia cinese, in questa fase di incertezza, stia fungendo da unico vero stabilizzatore dell’economia internazionale.

Se la Cina continuerà ad aprire il suo mercato agli esportatori e agli investitori esteri, avremo un’ulteriore conferma di questa funzione positiva.

La China Society for Human Rights Studies smaschera l'ipocrisia degli Stati Uniti sui diritti umani

Global Times - (Traduzione de l’AntiDiplomatico) - Notizia del: 27/07/2019

Un articolo della China Society for Human Rights Studies (CSHRS) ha messo in luce l'ipocrisia degli Stati Uniti sui diritti umani, come evidenziato dalla sua situazione di discriminazione razziale.

"Nonostante la sua posizione personale come difensore dei diritti umani, gli Stati Uniti non hanno né la volontà né la capacità di risolvere il grave problema della discriminazione razziale sul proprio territorio. Questo espone i difetti istituzionali e strutturali degli Stati Uniti”, si legge nell'articolo del CSHRS pubblicato venerdì.

La discriminazione razziale negli Stati Uniti si trova in ogni aspetto della vita delle persone, in particolare nelle forze dell'ordine, nella magistratura, nell'economia e nella società, secondo l'articolo intitolato "La profonda discriminazione razziale negli Stati Uniti evidenzia la loro ipocrisia sui diritti umani”.

Evidenziando che la discriminazione razziale ha portato a un peggioramento delle relazioni razziali, a crescenti crimini d'odio e ad un aumento della crisi sociale, l'articolo sottolinea che la discriminazione razziale è un ostacolo strutturale alla realizzazione di pari diritti e status per le minoranze razziali.

La discriminazione razziale è diventata un grave problema sociale per gli Stati Uniti, ed è ora un punto critico per i conflitti sociali, afferma l'articolo.

Lo stato delle relazioni razziali negli Stati Uniti è determinato dalla struttura politica, dalle tradizioni storiche e dall'ideologia del paese, afferma l'articolo, aggiungendo che senza una riforma di questi, non ci può essere modo di superare l'impasse nella discriminazione razziale e porre fine al conseguente circolo vizioso nelle relazioni razziali e la corretta protezione dei diritti umani delle minoranze razziali non può avvenire.

Lo Xinjiang, gli Uiguri e la storica polemica sui Diritti Umani

La visita del Presidente cinese Xi Jinping in Europa ha sollevato nuove polemiche sui diritti umani in Cina e nello Xinjiang in particolare. Ma, a guardar bene, quanto c'è di realistico nelle loro argomentazioni?

Di Maria Morigi - 15 Luglio 2019

Per la recente visita in Europa del Presidente Xi Jingping (come se non fossero bastate le parole di Tajani, il disappunto dell’Europa sugli svantaggi dell’apertura verso le “opportunità cinesi” e le dichiarazioni di coloro che sono diffidenti per “vocazione genetica”…), ecco che puntuali si son fatti sentire anche i “mistici” difensori dei Diritti Umani e Civili assoluti, quei diritti che a loro dire sarebbero negati dal “regime” cinese. European grassroots antiracist movement e altre associazioni (tra cui si distinguono l’ormai storica e nota Associazione Free Tibet, la setta religiosa del Falun Gong e una svariata serie di realtà fin troppo tolleranti verso i gruppi terroristi che hanno insanguinato le terre degli Uiguri) hanno lanciato un appello alla comunità internazionale, con la partecipazione sentita dei Radicali italiani.

Repubblica del 22 marzo 2019 nell’articolo intitolato “Libertà per gli uiguri in Cina: l’appello internazionale nel giorno di Xi a Roma”” ci informa che: “Oltre undici milioni di persone di lingua turca e prevalentemente di religione islamica vivono nella regione dello Xinjiang, nella Cina nord-occidentale. I loro rapporti con il governo centrale cinese, che nega loro l’autonomia richiesta [richiesta da chi? N.d.r], sono da tempo caratterizzati da tensioni e discriminazioni. Secondo le Nazioni Unite, oltre un milione di uiguri e di persone appartenenti ad altre minoranze turcofone sono detenute arbitrariamente nei centri dello Xinjiang… Le “persecuzioni” nei confronti degli uiguri sono “senza precedenti in conseguenza del rafforzamento del regime di Xi Jinping, che sta dispiegando il suo progetto totalitario a livello nazionale e internazionale, usando la crescente brutalità contro gli individui e le comunità che si oppongono al suo potere, come i tibetani o membri del Falun Gong”.

Con grande soddisfazione poi vediamo che il Foglio.it del 14 Luglio 2019 pubblica l’articolo “L’Italia condanna la Cina sui diritti umani, guai in vista sulla Via della Seta. Guerra di propaganda al Consiglio per i Diritti umani dell’Onu appena concluso. Una lettera dell’occidente compatto (senza l’America) contro le detenzioni di massa nello Xinjiang”. Nessun rilievo viene dato, però, al fatto che non solo c’è una risposta di Pechino, ma anche una lettera di replica (non inserita ufficialmente tra gli atti della riunione plenaria, perché non tutti i paesi sono membri del Consiglio per i diritti umani) firmata dagli ambasciatori di 37 paesi dall’Asia (tra cui Russia, Corea del Nord e i paesi confinanti con la Cina) che, attenti alla loro sicurezza e alle misure antiterrorismo, lodano le attività cinesi nello Xinjiang e il “contributo della Cina alla causa internazionale dei diritti umani”.

Da tutta questa storia emerge un solo dato significativo: la totale ignoranza dei fatti e della legislazione cinese. Perché lo Xinjiang-Uyghur gode di status di Regione Autonoma dal 1° ottobre 1955 dopo essere stato parte integrante della Cina fin dal 1884 come Provincia Amministrativa, inoltre le prerogative concesse alle regioni autonome sono contenute nella Carta Costituzionale (approvata dal Congresso Nazionale del Popolo il 4 dicembre 1982 e ufficialmente aggiornata da revisioni) esattamente al Capitolo 3, sezione “Organi dell’autogoverno nelle regioni autonome nazionali”.

Stiamo parlando di una regione dove particolarmente accesi furono gli interessi sovietici (vedansi le due Repubbliche del Turkestan Orientale 1933-34 e 1944-49). Insanguinato da terrorismo e attentati, pretese indipendentiste e ideologie pan-turche o pan-islamiche, lo Xinjiang è ancora sorvegliato da forze di polizia e controlli che riescono a garantire vita normale ai comuni cittadini, servizi, attività economiche e turismo in forte espansione. Va poi aggiunto che nel solo Xinjiang è riconosciuta (e ben tutelata) la presenza di ben 47 gruppi etnici, di cui 13 sono quelli principali per numeri demografici. Inoltre sono praticate politiche di “discriminazione positiva” nell’istruzione (per le minoranze etniche: borse di studio e accesso all’università con voti di ammissione più bassi) e l’Islam è in piena fioritura con ingrandimenti di moschee e attività culturali, sostenuto dall’Associazione Islamica di Cina (AIC).

E poi non dovremmo nemmeno dimenticare che molte delle varie organizzazioni pan-islamiche o pan-turche operative in Xinjiang e colluse con Al Qaeda e Isis (Eastern Turkestan Islamic Movement, Eastern Turkestan Liberation Organization, United Revolutionary Front of East Turkestan, Uyghur Liberation Organization,Turkestan Islamic Party) non hanno avuto difficoltà a farsi riconoscere come colpevoli dei più gravi attentati dagli Anni ’90 in poi. Il Partito Islamico del Turkestan, solo per fare un esempio, è stato infatti designato “organizzazione terroristica” da Unione Europea, Kirghizistan, Kazakistan, Pakistan, Russia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, USA e messo fuori legge dalla Repubblica Popolare Cinese.

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