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La VOCE 1910

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La VOCE ANNO XXII N°2

ottobre 2019

PAGINA 5

piketty: il capitalismo non è più in grado di giustificare le sue disuguaglianze. di fabrizio tonello - (19 settembre 2019). thomas piketty non è certo uno sconosciuto tra gli economisti: prima di compiere 30 anni aveva già scritto una massiccia analisi della formazione e distribuzione della ricchezza in francia (le haut revenus en france au xx siècle, 2001). un decennio di lavoro l’aveva poi portato a pubblicare nel 2013 il capitale nel xxi secolo, 696 pagine fitte di grafici e tabelle, che non solo fu un bestseller in francia e negli stati uniti ma fu tradotto in 40 lingue e fino ad oggi ha venduto oltre due milioni e mezzo di copie. ora il “giovane” economista francese (48 anni) ci riprova con capital et idéologie, che ha ben 1088 pagine e da qualche giorno è in libreria a parigi (l’edizione inglese uscirà nel 2020, mentre quella italiana non è ancora stata annunciata). nel caso del capitale nel xxi secolo le astuzie della storia si sono fatte beffe degli esperti del mercato editoriale e hanno fatto del libro la bibbia di movimenti come occupy wall street, influenzando poi partiti come il labour di jeremy corbyn e, ora, perfino il fondo monetario e la banca mondiale. capiremo presto se un analogo successo arriderà al nuovo libro, dove piketty si avventura su un terreno non strettamente suo: quello dell’analisi delle ideologie e della storia economica. ma di cosa parla capital et idéologie? parla del fatto che, “la disuguaglianza non è economica o tecnologica: è ideologica e politica”. questa la conclusione più ovvia dell'ambiziosissima indagine storica presentata dall’autore, che parte dall’antichità e arriva ai giorni nostri. piketty spiega: “il mercato e la concorrenza, profitti e salari, capitale e debito, lavoratori qualificati e non qualificati, lavoratori locali e stranieri, i paradisi fiscali e la competitività non esistono in quanto tali. queste sono costruzioni sociali e storiche, che dipendono interamente dal sistema giuridico, fiscale, educativo e politico prescelto e dalle categorie [di pensiero] che decidiamo di adottare. da quando esiste l’agricoltura e non siamo più cacciatori-raccoglitori, ogni società umana, secondo piketty, “deve giustificare le sue disuguaglianze: bisogna trovarne le ragioni, altrimenti l'intero edificio politico e sociale rischia di crollare”. ogni epoca produce quindi discorsi e ideologie (più o meno contraddittorie) che legittimano la disuguaglianza esistente descrivendo come naturali le regole economiche, sociali e politiche che strutturano l'insieme. nelle società contemporanee, la narrazione dominante è quella “meritocratica” già analizzata da michael young negli anni cinquanta in un libro capito a rovescio (meritocracy era una satira, recentemente è stato preso come un manuale per far carriera). piketty riassume così lo storytelling del neoliberismo: “la disuguaglianza moderna è giusta, perché deriva da un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà, e dove tutti beneficiano spontaneamente dell'accumulazione dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili [alla società]”. l’economista francese sottolinea che questa visione in teoria si colloca all’estremo opposto rispetto ai meccanismi della disuguaglianza nelle società premoderne, che si basavano su rigide, arbitrarie e spesso dispotiche disparità di status. il problema, afferma il libro, “è che questa grande narrazione proprietaria e meritocratica, che ha avuto la sua prima ora di gloria nell'ottocento, dopo il crollo delle società dell'ancien régime, e una riformulazione radicale di ambizioni mondiali dopo la caduta del comunismo sovietico e il trionfo dell’ipercapitalismo, appare oggi sempre più fragile”. capital et idéologie affronta in prospettiva storica il problema della distribuzione della ricchezza all’interno delle società più diverse, dalla svezia al brasile, dagli stati uniti all’india, arrivando a due conclusioni: primo, la diseguaglianza è fortemente aumentata negli ultimi anni, essenzialmente per scelte politiche dei governi e, senza interventi correttivi, essa è destinata ad aumentare ancora: “c'è ovunque un abisso tra i proclami ufficiali ‘meritocratici’ e la realtà che le classi svantaggiate devono affrontare in termini di accesso all'istruzione e alla ricchezza. il discorso meritocratico e imprenditoriale appare molto spesso un modo conveniente per chi trae vantaggi dal funzionamento dell'attuale sistema economico per giustificare qualsiasi livello di disuguaglianza, senza nemmeno doverlo esaminare, e per stigmatizzare i perdenti per la loro mancanza di meriti, virtù e diligenza”. una critica non nuova del neoliberismo, con la differenza che piketty offre al lettore una mole di dati impressionante (decine e decine di tabelle sempre originali) che integrano i 17 capitoli del volume, mettendo anche in guardia dal pericolo di regimi autoritari: “se l’attuale sistema economico non si trasforma profondamente per renderlo meno disuguale, più equo e più sostenibile, sia tra i paesi che al loro interno, allora il populismo xenofobo e i suoi possibili futuri successi elettorali potrebbero ben presto avviare il movimento per distruggere la globalizzazione ipercapitalista e digitale degli anni 1990-2020”. dall’ungheria al brasile, passando per gli stati uniti e l’italia, il pericolo dei movimenti autoritari e xenofobi rende urgente affrontare con radicalità il tema della disuguaglianza: se non lo fa la sinistra lo faranno i nuovi demagoghi al potere. su questo punto, piketty introduce un’interessante analisi di come i partiti dei lavoratori (comunisti, socialdemocratici, laburisti) siano diventati almeno dal 1990 i “partiti dei diplomati e laureati”. nei principali paesi europei e negli stati uniti, “la somiglianza delle traiettorie del voto invita allo scetticismo su sulle ipotesi che si tratti di fenomeni strettamente nazionali”. al contrario, occorre analizzare su scala globale “le ragioni che hanno portato una parte crescente dei gruppi sociali svantaggiati a sentirsi scarsamente rappresentati (o addirittura abbandonati) dalla sinistra che si presenta alle elezioni”. piketty insiste sul fatto che esistono ragioni materiali ben precedenti alla crisi economica del 2008 per questo allontanamento della parte più povera della popolazione dalla sinistra: le politiche fiscali e scolastiche in primo luogo (la riduzione delle tasse sugli alti redditi, per esempio, si è tradotta in un aumento delle tasse indirette, che colpiscono i consumatori, quindi penalizzano la parte economicamente più debole della popolazione). per scongiurare il rischio di regimi autoritari, scrive piketty “la conoscenza e la storia rimangono le nostre migliori risorse”, auspicando un “nuovo socialismo partecipativo per il xxi secolo”. l’autore francese rimane ottimista: le disuguaglianze sono esistite nell’arco di tutta la storia umana ma, nel passato, “le rotture e i processi rivoluzionari e politici che hanno permesso di ridurre e trasformare le disuguaglianze del passato sono stati un grande successo, e sono all'origine delle nostre istituzioni più preziose: quelle che hanno reso possibile che l'idea di progresso umano diventasse realtà (suffragio universale, istruzione gratuita e obbligatoria, assicurazione sanitaria universale, tassazione progressiva). una necessaria boccata d’ossigeno nei momenti di pessimismo, quando non di disperazione, che ci colgono guardando a un panorama politico mondiale dominato da leader fascistoidi come trump, erdogan, bolsonaro e salvini. renato fioretti - a volte ritornano. " width="50" style="float:left;margin: 8px;">(5 settembre 2019). allorquando, nell’ottobre del 2007, presso la fieramilano, i 2.858 delegati alla prima riunione dell’assemblea costituente nazionale del partito democratico elessero romano prodi (già fondatore dell’ulivo) primo presidente della stessa e formalizzarono l’elezione di walter veltroni a primo segretario nazionale del pd, tra gli “addetti ai lavori” si scatenò una vera e propria gara per cercare di sintetizzare il senso politico dell’operazione appena realizzatasi. fu così che, per la prima volta in politica - con evidente riferimento alla storia e alla diversa natura dei due “soci di maggioranza[1]” della nuova formazione - si parlò di “fusione a freddo”.
con tale definizione, in effetti, s’intendeva rappresentare la sostanziale incompatibilità e, quindi, l’assoluta impossibilità di militare nello stesso partito, tra soggetti le cui prospettive politiche - caratterizzate anche da decenni di forti contrapposizioni - apparivano difficilmente mediabili; se non, addirittura inconciliabili! il nuovo soggetto politico rischiava, quindi, anche secondo il parere di alcuni autorevoli commentatori, di apparire “male assortito” e come l’ultima versione - peraltro, inverosimile - dell’ennesimo “cartello elettorale”; destinato a una breve e, prevedibilmente, travagliata esistenza. personalmente, non condividevo tanto scetticismo. ho sempre sostenuto, invece, ogni volta che ne ho avuta la possibilità di scriverne, che, nel lontano 2007, si realizzava il disegno perseguito, nel corso degli ultimi trent’anni, da parte dell’intero gruppo dirigente dell’ex pci. in sostanza, con buona pace di milioni di iscritti, simpatizzanti e votanti che avevano sempre creduto nella possibilità del realizzarsi del “sol dell’avvenire”, si trattava di prendere atto che, di là delle chiacchiere e delle dichiarazioni di principio - da parte dell’uno o dell’altro alto dirigente - il pci berlingueriano non aveva mai avuto l’obiettivo di realizzare, nel nostro paese, una reale alternativa di sinistra. a tale riguardo, ci sono resoconti documentali, relativi, in particolare, a una riunione del comitato centrale del partito - a un mese circa dalle elezioni politiche del 1979, nelle quali, rispetto al grande exploit del 1976, il pci aveva perso quattro punti percentuali (dal 34,37 al 30,38 per cento) e un milione e mezzo di voti (11.139.231 contro 12.615670) - che riferiscono le interessanti dichiarazioni[2] di riccardo terzi, all’epoca segretario della federazione di milano. in sostanza, il giovane “pupillo” di berlinguer, contestava, allo stesso, quella che riteneva fosse, ormai, la linea del partito; cioè la visione della democrazia cristiana quale punto di riferimento essenziale e talora esclusivo. in modo più specifico ed inusuale - per la critica esplicita e diretta alla relazione introduttiva del segretario generale - terzi si chiedeva “che senso abbia continuare a trattare con fastidio, con insofferenza e diffidenza il tema dell’alternativa e dell’unità della sinistra”. la risposta, nella replica di berlinguer, fu altrettanto chiara e, direi, lapidaria: “come si vede, nelle concrete condizioni italiane, una linea che punti all’alternativa di sinistra, a parte la sua improbabilità effettiva, non porterebbe il movimento operaio, le sue lotte, i suoi orientamenti su un terreno più avanzato”. e ancora:” se decidessimo di puntare su tale soluzione (l’alternativa di sinistra) e facessimo una precisa proposta al psi in tal senso, la conseguenza immediata e sicura sarebbe una serie di richieste incalzanti da parte dei socialisti nei nostri confronti per farci spostare, passo dietro passo, dalle nostre posizioni politiche e ideali e finire su un terreno - diciamolo pure - socialdemocratico”! abbastanza facile, quindi, comprendere come l’idea di unire le forze dell’ex pci ed ex pds a ciò che, ormai, nel 2007, restava della vecchia dc, rappresentasse - per i gruppi dirigenti dei ds dell’epoca - un punto di approdo e la conclusione di un disegno perseguito con encomiabile perseveranza! occorreva, dunque, prendere atto che la realtà confermava ciò che, da sinistra, avevamo da tempo realizzato: l’ex pci, l’ex pds e l’ex ds non avevano mai avuto la benché minima intenzione di perseguire, nel nostro paese, una reale alternativa di sinistra! piuttosto, attraverso la costituzione del pd, il gruppo dirigente (ex pci, ex pds ed ex ds) avviava l’ultima tappa di un percorso politico che - ignorato dalla stragrande maggioranza degli iscritti e dei simpatizzanti - si sarebbe concluso con la sostanziale conquista del voto “centrista”; tale da consentire un comodo approdo tra i “moderati”. obiettivo finale, quello che, personalmente, amo definire “la dc del terzo millennio”. in questo senso, allora, perché meravigliarsi difronte alla progressiva ma costante involuzione del neonato pd? come dimenticare che la stessa storia del vecchio pci non è mai stata così laica[3] come, invece, alcuni pretenderebbero di poter sostenere? quanti ricordano, ad esempio, le difficoltà che caratterizzarono il dibattito interno al pci rispetto al referendum sul divorzio, quando il gruppo dirigente nazionale fu costretto a fare appello alla disciplina di partito per votare no alla sua abrogazione? quello stesso pci nel 1984 votò a favore della revisione del concordato che confermò l’insegnamento della religione cattolica in tutte le scuole di ogni ordine e grado e ribadì la validità dell’annullamento cattolico del matrimonio; confermando la posizione di privilegio della religione cattolica nelle istituzioni pubbliche italiane. difficile non rilevare, inoltre, che, negli ultimi dieci/quindici anni la penetrazione della parte più retriva e invadente delle sette ultracattoliche nel pd è rintracciabile in mille rivoli: miche emiliano, presidente della regione puglia, nel 2016 nomina assessore alla sanità un uomo di comunione e liberazione, proveniente dal veneto da una struttura con -salde fondamenta religiose-, stefania saccardi, assessora alla salute della regione toscana, è con il presidente rossi (pd, naturalmente) nel finanziare con 195 mila euro un movimento pro vita per farlo entrare tra i consultori familiari, beatrice lorenzin (strenua sostenitrice dei pro vita), ministra della salute nei governi letta e renzi, che, durante il governo renzi, eliminò le ultime due pillole anticoncezionali ancora rimborsabili dal servizio pubblico nazionale, sollevò le farmacie dall’ obbligo di tenere in magazzino la c.d. “pillola del giorno dopo” ed elevò la multa per aborto clandestino da 50 a 10 mila euro? ultimo, ma l’elenco sarebbe ancora lungo, zingaretti - da qualcuno definito “l’ala ipocrita del pd” - che ha fatto finta, da presidente della regione lazio, di avere bandito un concorso riservato ai non obiettori, mentre invece ha semplicemente sanato due non obiettori in precariato da sedici anni. lo stesso che finanzia con un mare di soldi la sanità romana religiosa e, mentre la sanità pubblica è abbandonata al degrado, dà il via alla costruzione del nuovo pronto soccorso del campus bio medico dell’opus dei! perché, allora, sorprendersi per la lunga serie di scelte politiche del pd che - a partire dal sostegno al governo monti e alla famigerata legge fornero (segreteria bersani) per finire alle nefandezze operate dal governo renzi, attraverso il jobs-act, il contratto a tutele crescenti e la sostanziale cancellazione dell’art. 18 dello statuto - nulla (o quasi) avevano da invidiare al più moderato tra i partiti di centrodestra? qualcuno ha, forse, già dimenticato che il governo renzi ha operato - in nome di una non meglio identificata politica “di sinistra” - quella profonda contro-riforma della legislazione del lavoro che, appena pochi anni prima, era stata impedita a berlusconi e soci? in questo senso, siamo stati, addirittura, costretti a prendere atto che, rispetto al tema del lavoro, quello che di maio definì “decreto dignità”, effettivamente apportò qualche modifica in positivo[4] rispetto alla deregolamentazione succedutasi negli ultimi anni. nulla di sorprendente, allora, nel rilevare che gli atti prodotti dal governo renzi rappresentavano, in sostanza, la definitiva deriva di un pd ormai irrimediabilmente perso rispetto a qualsiasi ipotesi “di sinistra”. sono stati, però, sufficienti appena 14 mesi perché gli italiani si rendessero conto che, in politica, è sempre presente il rovinoso rischio di “cadere dalla padella alla brace”! in questo senso, la prova del governo fascio/leghista/pentastellato, ha rappresentato, per alcuni versi, un’esperienza addirittura allucinante. un ministro dell’interno meritevole di essere accusato di crimini contro l’umanità. un premier capace di far quasi rimpiangere un suo predecessore “barzellettiere ed evasore fiscale”, per poi essere definito - in europa - un “burattino” nelle mani di salvini e di maio. un ministro del lavoro e capo del partito di maggioranza relativa capace solo di mostrare silente disponibilità alle peggiori pratiche populistiche dell’alleato. ..segue ./.

Piketty: il capitalismo non è più in grado di giustificare le sue disuguaglianze



di Fabrizio Tonello - (19 settembre 2019)

Thomas Piketty non è certo uno sconosciuto tra gli economisti: prima di compiere 30 anni aveva già scritto una massiccia analisi della formazione e distribuzione della ricchezza in Francia (Le haut revenus en France au XX siècle, 2001). Un decennio di lavoro l’aveva poi portato a pubblicare nel 2013 Il capitale nel XXI secolo, 696 pagine fitte di grafici e tabelle, che non solo fu un bestseller in Francia e negli Stati Uniti ma fu tradotto in 40 lingue e fino ad oggi ha venduto oltre due milioni e mezzo di copie. Ora il “giovane” economista francese (48 anni) ci riprova con Capital et idéologie, che ha ben 1088 pagine e da qualche giorno è in libreria a Parigi (l’edizione inglese uscirà nel 2020, mentre quella italiana non è ancora stata annunciata).

Nel caso del Capitale nel XXI secolo le astuzie della Storia si sono fatte beffe degli esperti del mercato editoriale e hanno fatto del libro la bibbia di movimenti come Occupy Wall Street, influenzando poi partiti come il Labour di Jeremy Corbyn e, ora, perfino il Fondo Monetario e la Banca Mondiale. Capiremo presto se un analogo successo arriderà al nuovo libro, dove Piketty si avventura su un terreno non strettamente suo: quello dell’analisi delle ideologie e della storia economica.

Ma di cosa parla Capital et idéologie? Parla del fatto che, “La disuguaglianza non è economica o tecnologica: è ideologica e politica”. Questa la conclusione più ovvia dell'ambiziosissima indagine storica presentata dall’autore, che parte dall’antichità e arriva ai giorni nostri. Piketty spiega: “Il mercato e la concorrenza, profitti e salari, capitale e debito, lavoratori qualificati e non qualificati, lavoratori locali e stranieri, i paradisi fiscali e la competitività non esistono in quanto tali. Queste sono costruzioni sociali e storiche, che dipendono interamente dal sistema giuridico, fiscale, educativo e politico prescelto e dalle categorie [di pensiero] che decidiamo di adottare.

Da quando esiste l’agricoltura e non siamo più cacciatori-raccoglitori, ogni società umana, secondo Piketty, “deve giustificare le sue disuguaglianze: bisogna trovarne le ragioni, altrimenti l'intero edificio politico e sociale rischia di crollare”. Ogni epoca produce quindi discorsi e ideologie (più o meno contraddittorie) che legittimano la disuguaglianza esistente descrivendo come naturali le regole economiche, sociali e politiche che strutturano l'insieme.

Nelle società contemporanee, la narrazione dominante è quella “meritocratica” già analizzata da Michael Young negli anni Cinquanta in un libro capito a rovescio (Meritocracy era una satira, recentemente è stato preso come un manuale per far carriera). Piketty riassume così lo storytelling del neoliberismo: “La disuguaglianza moderna è giusta, perché deriva da un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà, e dove tutti beneficiano spontaneamente dell'accumulazione dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili [alla società]”.

L’economista francese sottolinea che questa visione in teoria si colloca all’estremo opposto rispetto ai meccanismi della disuguaglianza nelle società premoderne, che si basavano su rigide, arbitrarie e spesso dispotiche disparità di status. Il problema, afferma il libro, “è che questa grande narrazione proprietaria e meritocratica, che ha avuto la sua prima ora di gloria nell'Ottocento, dopo il crollo delle società dell'Ancien Régime, e una riformulazione radicale di ambizioni mondiali dopo la caduta del comunismo sovietico e il trionfo dell’ipercapitalismo, appare oggi sempre più fragile”.

Capital et idéologie affronta in prospettiva storica il problema della distribuzione della ricchezza all’interno delle società più diverse, dalla Svezia al Brasile, dagli Stati Uniti all’India, arrivando a due conclusioni: primo, la diseguaglianza è fortemente aumentata negli ultimi anni, essenzialmente per scelte politiche dei governi e, senza interventi correttivi, essa è destinata ad aumentare ancora: “C'è ovunque un abisso tra i proclami ufficiali ‘meritocratici’ e la realtà che le classi svantaggiate devono affrontare in termini di accesso all'istruzione e alla ricchezza. Il discorso meritocratico e imprenditoriale appare molto spesso un modo conveniente per chi trae vantaggi dal funzionamento dell'attuale sistema economico per giustificare qualsiasi livello di disuguaglianza, senza nemmeno doverlo esaminare, e per stigmatizzare i perdenti per la loro mancanza di meriti, virtù e diligenza”.

Una critica non nuova del neoliberismo, con la differenza che Piketty offre al lettore una mole di dati impressionante (decine e decine di tabelle sempre originali) che integrano i 17 capitoli del volume, mettendo anche in guardia dal pericolo di regimi autoritari: “Se l’attuale sistema economico non si trasforma profondamente per renderlo meno disuguale, più equo e più sostenibile, sia tra i paesi che al loro interno, allora il populismo xenofobo e i suoi possibili futuri successi elettorali potrebbero ben presto avviare il movimento per distruggere la globalizzazione ipercapitalista e digitale degli anni 1990-2020”.

Dall’Ungheria al Brasile, passando per gli Stati Uniti e l’Italia, il pericolo dei movimenti autoritari e xenofobi rende urgente affrontare con radicalità il tema della disuguaglianza: se non lo fa la sinistra lo faranno i nuovi demagoghi al potere. Su questo punto, Piketty introduce un’interessante analisi di come i partiti dei lavoratori (comunisti, socialdemocratici, laburisti) siano diventati almeno dal 1990 i “partiti dei diplomati e laureati”. Nei principali paesi europei e negli Stati Uniti, “la somiglianza delle traiettorie del voto invita allo scetticismo su sulle ipotesi che si tratti di fenomeni strettamente nazionali”. Al contrario, occorre analizzare su scala globale “le ragioni che hanno portato una parte crescente dei gruppi sociali svantaggiati a sentirsi scarsamente rappresentati (o addirittura abbandonati) dalla sinistra che si presenta alle elezioni”.

Piketty insiste sul fatto che esistono ragioni materiali ben precedenti alla crisi economica del 2008 per questo allontanamento della parte più povera della popolazione dalla sinistra: le politiche fiscali e scolastiche in primo luogo (la riduzione delle tasse sugli alti redditi, per esempio, si è tradotta in un aumento delle tasse indirette, che colpiscono i consumatori, quindi penalizzano la parte economicamente più debole della popolazione).

Per scongiurare il rischio di regimi autoritari, scrive Piketty “la conoscenza e la storia rimangono le nostre migliori risorse”, auspicando un “nuovo socialismo partecipativo per il XXI secolo”. L’autore francese rimane ottimista: le disuguaglianze sono esistite nell’arco di tutta la storia umana ma, nel passato, “le rotture e i processi rivoluzionari e politici che hanno permesso di ridurre e trasformare le disuguaglianze del passato sono stati un grande successo, e sono all'origine delle nostre istituzioni più preziose: quelle che hanno reso possibile che l'idea di progresso umano diventasse realtà (suffragio universale, istruzione gratuita e obbligatoria, assicurazione sanitaria universale, tassazione progressiva).

Una necessaria boccata d’ossigeno nei momenti di pessimismo, quando non di disperazione, che ci colgono guardando a un panorama politico mondiale dominato da leader fascistoidi come Trump, Erdogan, Bolsonaro e Salvini.

RENATO FIORETTI - A volte ritornano


Allorquando, nell’ottobre del 2007, presso la Fieramilano, i 2.858 delegati alla prima riunione dell’Assemblea Costituente Nazionale del Partito Democratico elessero Romano Prodi (già fondatore dell’Ulivo) primo Presidente della stessa e formalizzarono l’elezione di Walter Veltroni a primo Segretario Nazionale del Pd, tra gli “addetti ai lavori” si scatenò una vera e propria gara per cercare di sintetizzare il senso politico dell’operazione appena realizzatasi.

Fu così che, per la prima volta in politica - con evidente riferimento alla storia e alla diversa natura dei due “soci di maggioranza[1]” della nuova formazione - si parlò di “Fusione a freddo”.

Con tale definizione, in effetti, s’intendeva rappresentare la sostanziale incompatibilità e, quindi, l’assoluta impossibilità di militare nello stesso partito, tra soggetti le cui prospettive politiche - caratterizzate anche da decenni di forti contrapposizioni - apparivano difficilmente mediabili; se non, addirittura inconciliabili!

Il nuovo soggetto politico rischiava, quindi, anche secondo il parere di alcuni autorevoli commentatori, di apparire “male assortito” e come l’ultima versione - peraltro, inverosimile - dell’ennesimo “cartello elettorale”; destinato a una breve e, prevedibilmente, travagliata esistenza.

Personalmente, non condividevo tanto scetticismo.

Ho sempre sostenuto, invece, ogni volta che ne ho avuta la possibilità di scriverne, che, nel lontano 2007, si realizzava il disegno perseguito, nel corso degli ultimi trent’anni, da parte dell’intero gruppo dirigente dell’ex Pci.

In sostanza, con buona pace di milioni di iscritti, simpatizzanti e votanti che avevano sempre creduto nella possibilità del realizzarsi del “Sol dell’avvenire”, si trattava di prendere atto che, di là delle chiacchiere e delle dichiarazioni di principio - da parte dell’uno o dell’altro alto dirigente - il Pci berlingueriano non aveva mai avuto l’obiettivo di realizzare, nel nostro paese, una reale alternativa di sinistra.

A tale riguardo, ci sono resoconti documentali, relativi, in particolare, a una riunione del Comitato centrale del partito - a un mese circa dalle elezioni politiche del 1979, nelle quali, rispetto al grande exploit del 1976, il Pci aveva perso quattro punti percentuali (dal 34,37 al 30,38 per cento) e un milione e mezzo di voti (11.139.231 contro 12.615670) - che riferiscono le interessanti dichiarazioni[2] di Riccardo Terzi, all’epoca segretario della federazione di Milano.

In sostanza, il giovane “pupillo” di Berlinguer, contestava, allo stesso, quella che riteneva fosse, ormai, la linea del partito; cioè la visione della Democrazia cristiana quale punto di riferimento essenziale e talora esclusivo.

In modo più specifico ed inusuale - per la critica esplicita e diretta alla relazione introduttiva del Segretario generale - Terzi si chiedeva “che senso abbia continuare a trattare con fastidio, con insofferenza e diffidenza il tema dell’alternativa e dell’unità della sinistra”.

La risposta, nella replica di Berlinguer, fu altrettanto chiara e, direi, lapidaria: “Come si vede, nelle concrete condizioni italiane, una linea che punti all’alternativa di sinistra, a parte la sua improbabilità effettiva, non porterebbe il movimento operaio, le sue lotte, i suoi orientamenti su un terreno più avanzato”.

E ancora:” Se decidessimo di puntare su tale soluzione (l’alternativa di sinistra) e facessimo una precisa proposta al Psi in tal senso, la conseguenza immediata e sicura sarebbe una serie di richieste incalzanti da parte dei socialisti nei nostri confronti per farci spostare, passo dietro passo, dalle nostre posizioni politiche e ideali e finire su un terreno - diciamolo pure - socialdemocratico”!

Abbastanza facile, quindi, comprendere come l’idea di unire le forze dell’ex Pci ed ex Pds a ciò che, ormai, nel 2007, restava della vecchia Dc, rappresentasse - per i gruppi dirigenti dei Ds dell’epoca - un punto di approdo e la conclusione di un disegno perseguito con encomiabile perseveranza!

Occorreva, dunque, prendere atto che la realtà confermava ciò che, da sinistra, avevamo da tempo realizzato: l’ex Pci, l’ex Pds e l’ex Ds non avevano mai avuto la benché minima intenzione di perseguire, nel nostro paese, una reale alternativa di sinistra!

Piuttosto, attraverso la costituzione del Pd, il gruppo dirigente (ex Pci, ex Pds ed ex Ds) avviava l’ultima tappa di un percorso politico che - ignorato dalla stragrande maggioranza degli iscritti e dei simpatizzanti - si sarebbe concluso con la sostanziale conquista del voto “centrista”; tale da consentire un comodo approdo tra i “moderati”.

Obiettivo finale, quello che, personalmente, amo definire “La Dc del terzo millennio”.

In questo senso, allora, perché meravigliarsi difronte alla progressiva ma costante involuzione del neonato Pd?

Come dimenticare che la stessa storia del vecchio Pci non è mai stata così laica[3] come, invece, alcuni pretenderebbero di poter sostenere?

Quanti ricordano, ad esempio, le difficoltà che caratterizzarono il dibattito interno al Pci rispetto al referendum sul divorzio, quando il gruppo dirigente nazionale fu costretto a fare appello alla disciplina di partito per votare No alla sua abrogazione?

Quello stesso Pci nel 1984 votò a favore della revisione del Concordato che confermò l’insegnamento della religione cattolica in tutte le scuole di ogni ordine e grado e ribadì la validità dell’annullamento cattolico del matrimonio; confermando la posizione di privilegio della religione cattolica nelle istituzioni pubbliche italiane.

Difficile non rilevare, inoltre, che, negli ultimi dieci/quindici anni la penetrazione della parte più retriva e invadente delle sette ultracattoliche nel Pd è rintracciabile in mille rivoli:
  1. Miche Emiliano, Presidente della Regione Puglia, nel 2016 nomina assessore alla sanità un uomo di Comunione e Liberazione, proveniente dal Veneto da una struttura con -salde fondamenta religiose-,
  2. Stefania Saccardi, assessora alla salute della Regione Toscana, è con il Presidente Rossi (Pd, naturalmente) nel finanziare con 195 mila euro un movimento pro vita per farlo entrare tra i consultori familiari,
  3. Beatrice Lorenzin (strenua sostenitrice dei pro vita), ministra della Salute nei governi Letta e Renzi, che, durante il governo Renzi, eliminò le ultime due pillole anticoncezionali ancora rimborsabili dal Servizio pubblico nazionale, sollevò le farmacie dall’ obbligo di tenere in magazzino la c.d. “pillola del giorno dopo” ed elevò la multa per aborto clandestino da 50 a 10 mila euro?
Ultimo, ma l’elenco sarebbe ancora lungo, Zingaretti - da qualcuno definito “l’ala ipocrita del Pd” - che ha fatto finta, da Presidente della Regione Lazio, di avere bandito un concorso riservato ai non obiettori, mentre invece ha semplicemente sanato due non obiettori in precariato da sedici anni. Lo stesso che finanzia con un mare di soldi la sanità romana religiosa e, mentre la sanità pubblica è abbandonata al degrado, dà il via alla costruzione del nuovo Pronto soccorso del Campus Bio Medico dell’Opus dei!

Perché, allora, sorprendersi per la lunga serie di scelte politiche del Pd che - a partire dal sostegno al governo Monti e alla famigerata legge Fornero (segreteria Bersani) per finire alle nefandezze operate dal governo Renzi, attraverso il Jobs-act, il contratto a tutele crescenti e la sostanziale cancellazione dell’art. 18 dello Statuto - nulla (o quasi) avevano da invidiare al più moderato tra i partiti di centrodestra?

Qualcuno ha, forse, già dimenticato che il governo Renzi ha operato - in nome di una non meglio identificata politica “di sinistra” - quella profonda contro-riforma della Legislazione del lavoro che, appena pochi anni prima, era stata impedita a Berlusconi e soci?

In questo senso, siamo stati, addirittura, costretti a prendere atto che, rispetto al tema del lavoro, quello che Di Maio definì “decreto dignità”, effettivamente apportò qualche modifica in positivo[4] rispetto alla deregolamentazione succedutasi negli ultimi anni.

Nulla di sorprendente, allora, nel rilevare che gli atti prodotti dal governo Renzi rappresentavano, in sostanza, la definitiva deriva di un Pd ormai irrimediabilmente perso rispetto a qualsiasi ipotesi “di sinistra”.

Sono stati, però, sufficienti appena 14 mesi perché gli italiani si rendessero conto che, in politica, è sempre presente il rovinoso rischio di “cadere dalla padella alla brace”!

In questo senso, la prova del governo fascio/leghista/pentastellato, ha rappresentato, per alcuni versi, un’esperienza addirittura allucinante.
  1. Un ministro dell’Interno meritevole di essere accusato di crimini contro l’umanità.
  2. Un Premier capace di far quasi rimpiangere un suo predecessore “barzellettiere ed evasore fiscale”, per poi essere definito - in Europa - un “burattino” nelle mani di Salvini e Di Maio.
  3. Un ministro del Lavoro e capo del partito di maggioranza relativa capace solo di mostrare silente disponibilità alle peggiori pratiche populistiche dell’alleato.
..segue ./.

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La VOCE 1809

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