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La VOCE 1903

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La VOCE ANNO XXI N°7

marzo 2019

PAGINA 6

Segue da Pag.5: Perché la sinistra non sceglie la laicità?

A Ginevra è stata di recente confermata con un referendum la legge sulla laicità che vieta ai funzionari pubblici di esibire simboli religiosi nell’esercizio delle loro funzioni. Una norma di buon senso eppure fortemente contrastata dalle forze politiche di sinistra che, annebbiate da un malinteso multiculturalismo, hanno perso completamente la barra della laicità e dei diritti.

di Matteo Gemolo

Col 55,05% dei voti favorevoli, attraverso un referendum domenica 10 febbraio Ginevra ha dato la propria benedizione alla nuova legge sulla laicità (LLE 11764), voluta e approvata nel maggio del 2018 dal Consiglio di Stato. Dopo due anni di approfondimenti e studi da parte della Commissione dei diritti dell’uomo e sotto l’impulso in particolare del magistrato e consigliere liberale Pierre Maudet, gli 11 articoli che compongono questa legge si ripromettono di aggiornare e ricontestualizzare la precedente normativa che Ginevra aveva adottato agli inizi del ‘900 e rivisto l’ultima volta nel 2012.

La legge del 2018 si staglia sul panorama multiculturale svizzero attuale con l’obiettivo chiaro e netto di osteggiare la sempre più forte diffusione di fenomeni in contrasto col convivere democratico, quali radicalismo, fanatismo, proselitismo e comunitarismo religioso.

In modo particolare, questa legge rappresenta un passo importante proprio nel processo di secolarizzazione della Svizzera stessa, la cui carta costituzionale (vale la pena ricordarlo) si apre ancora con l’originario motto risalente al 1848: “Au nom de Dieu tout-poussant”, retaggio di un passato calvinista mai realmente dimenticato. Se, da un lato, la Costituzione federale della Confederazione svizzera enuncia esplicitamente principi come la libertà di coscienza e di culto, dall’altro, quella stessa carta non impone una neutralità religiosa che altre democrazie nel continente europeo hanno ritenuto necessario implementare (prima fra tutte la Francia), lasciando di fatto aperta la possibilità ai singoli cantoni di determinare la propria religione “ufficiale”. Non stupirà dunque constatare che tra tutti i 26 cantoni svizzeri, le sole Ginevra e Neuchâtel rimarcano in Costituzione la propria natura “laica”.

Come enunciato in testa al progetto di legge, gli obiettivi dell’LLE 11764 sono i seguenti: 1) proteggere la libertà di coscienza, di credenza e non credenza; 2) preservare la pace religiosa; 3) definire la cornice appropriata alle relazioni tre le autorità e le organizzazioni religiose.

Gli articoli 2 e 3 definiscono la “neutralità religiosa dello Stato” e rimarcano il seguente principio: “Lo Stato è laico. Esso osserva una neutralità religiosa. Non finanzia né sponsorizza alcuna organizzazione religiosa.” Sulla falsariga di questi primi tre articoli, i restanti 8 precisano come questa laicità “teorica” si possa e debba concretamente esplicitare.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non tutte queste norme hanno entusiasmato i sedicenti progressisti seduti nel ramo sinistro del parlamento ginevrino.

Alcune di esse, in particolare l’articolo 6 e 7, hanno dato aria all’ennesima tromba “islamofobica”, suonata in perfetta sincronia dai soliti rappresentati delle comunità religiose e, come da copione un po’ più stonati, anche dai membri del Partito Socialista, dei Verdi e di Ensemble à gauche. Ad essere contestate sono le misure che impongono una rinnovata neutralità religiosa, obbligando i funzionari in contatto col pubblico e gli eletti dei consigli cantonali e municipali a non ostentare alcun simbolo religioso durante l’esercizio delle proprie funzioni. Dunque: via le grosse croci appese al collo, via kippah e via pure i veli… ma mentre per quel che riguarda i primi due casi, la sinistra ginevrina non sembra aver lamentato alcun attentato alla libertà religiosa (con buona pace dei vari cattolici ed ebrei ortodossi in città), un gran baccano si è creato intorno alla tanto vessata questione del velo islamico. Tra le varie voci, il socialista Cyril Mizrahi ha rimarcato sprezzante quanto questa nuova legge sulla laicità, al contrario della precedente del 2012, tenda ad “imporre la laicità a tutti”, rappresentando una “negazione del fenomeno religioso” tout court. Come se “negare il fenomeno religioso” ed “imporre la laicità” in quello stesso spazio pubblico in cui cittadini si recano per ricevere dei servizi da parte dello Stato (comuni, scuole ecc.), rappresentasse un fatto antidemocratico e liberticida. La socialista Carole-Anne Kast ha rincarato la dose con queste preoccupanti parole: “Se passerà la legge, sarò costretta a separarmi da cinque donne che indossano il velo. (…) Queste donne aiutano i bambini a scuola o si prendono cura di loro dopo la scuola. Cosa dirò ai genitori?”

Tra le fila di una certa sinistra dal laicismo a giorni alterni si dà ormai per scontato che quelle donne non potranno che scegliere di tenersi il velo; si dà ormai per consumato lo scontro tra laicità e comunitarismo e nel farlo la si dà vinta di fatto a quell’idea razzista, bigotta e coloniale che vuole rappresentare le donne musulmane come appartenenti ad una comunità religiosa incapace di trasformarsi, evolvere e mettersi in discussione.

Quello che sembra non venire colto da coloro i quali continuano a confondere i diritti degli individui con i diritti delle comunità è che, al contrario di alcune pratiche comunitariste sul corpo delle donne realmente violente, l’esercizio della laicità richiesto ai rappresentati pubblici in questa nuova legge non ha un carattere invasivo, non amputa e non recide, non lede in alcun modo la persona, né tanto meno priva l’individuo della libertà di professare il proprio culto. La rimozione di un velo o di un kippah dalla testa di chi rappresenta lo Stato è meramente temporanea e segue questo basilare principio: vi è il diritto del cittadino a vedersi garantita una neutralità religiosa nello spazio pubblico che precede ed è prioritario rispetto al diritto dei singoli funzionari pubblici e rappresentati delle istituzioni di vestirsi come diavolo gli pare.

Una questione seria ed incredibilmente attuale si apre dunque di fronte a noi: perché lasciare ai soli fedeli religiosi la possibilità di ostentare i propri simboli mentre quella stessa libertà non viene concessa, per esempio, ai tifosi di una squadra di calcio o ai membri di un club di poker? Perché i crocefissi sui muri delle scuole sì e gli educatori con le magliette da hooligan o i berretti con visiera di protezione no? All’interno di un contesto laico, perché la religione continua ad avere dei canali preferenziali rispetto ad altri accorpamenti tra individui di natura culturale, sportiva o artistica?

Stupisce che la nuova e rinnovata neutralità che questa legge sulla laicità chiede ai funzionari pubblici e agli eletti di rispettare sia interpretata da più voci sedicenti laiche e progressiste come un'offesa e un attacco nei confronti delle congregazioni religiose ed in modo particolare di quella musulmana. A coloro che in nome del multiculturalismo si dichiarano indignati di fronte ad un presunto torto fatto a una minoranza religiosa (senza rendersi conto che questa restrizione vale anche per gli appartenenti ai culti di maggioranza) ricordo che non vi sarebbe alcun torto se un privilegio ingiustificato non fosse stato precedentemente concesso.

Sabine Tiguemounine, deputata municipale dei Verdi, l’unica politica fino a questo momento ad indossare lo hijab in consiglio a Meyrin ha dichiarato al quotidiano svizzero Le Libre: “La gente mi conosce come quella lì!”, facendo riferimento al proprio copricapo. Ora che la nuova legge sulla laicità è definitivamente passata, sarebbe interessante capire se l’agenda politica che ha portato Sabine Tiguemounine a sedere tra i banchi dei Verdi sia o meno prioritaria e/o in contraddizione rispetto alla propria personale rivendicazione d’appartenenza ad una comunità religiosa. Delle due l’una: si può sposare la laicità senza indugio, mettendo da parte anche la propria fede e i dettami che essa impone per spirito di servizio, o si può fare come fanno i sindaci leghisti in Italia che, i nvocando una fantomatica libertà di coscienza, decidono di contravvenire alla legge, non celebrando per esempio le unioni di fatto, perché in contrasto con i propri “valori religiosi”.

(21 febbraio 2019)

Venezuela: panoramica delle
sanzioni statunitensi

Quali sono, quante sono, a cosa servono e chi ha deciso le sanzioni statunitensi nei confronti del Venezuela bolivariano?
di0 Alessandro Bartoloni 09/02/2019


Credits: https://www.telesurtv.net/index.html

Le sanzioni economiche contro il Venezuela sono, come nel caso di Cuba, stabilite unilateralmente dai governi degli Stati Uniti d’America senza nessuna legittimità internazionale (nessun voto in seno al consiglio di sicurezza dell’Onu). A vararle sono state sia i repubblicani (governi Bush Jr. e Trump) sia i democratici (governi Obama) che, prendendo a pretesto il narcotraffico, il terrorismo, la tratta di persone, le azioni antidemocratiche e di violazione dei diritti umani, la corruzione quando in realtà intendono colpire un sistema socio-economico e politico che non solo non si allinea ai diktat della potenza egemone ma addirittura mira a superare il modo di produzione capitalistico tout court.

Le sanzioni non sono rivolte esclusivamente contro le imprese e i cittadini venezuelani. Esse colpiscono anche i cittadini e le imprese statunitensi o di altri paesi (che devono sottostarvi se non vogliono veder compromessi i propri interessi economici negli Usa) che intrattengono affari con la repubblica bolivariana. Ma risparmiano, nei settori colpiti, le persone fisiche e giuridiche che servono gli interessi degli Stati Uniti o che, se venissero colpiti, genererebbero un danno all’economia a stelle e strisce troppo elevato. Tra i primi ci sono le persone e le imprese impegnate nella carovana di pseudo aiuti umanitari che doveva entrare in Venezuela venerdì sera, le cui attività sono state escluse dal regime sanzionatorio per volere di Donald Trump; tra i secondi si trovano quelle le imprese e banche (in primis Goldman Sachs) che fanno affari con la compagnia petrolifera statale venezuelana PDVSA e la sua controllata Citgo, una impresa di diritto nordamericano che gestisce tre raffinerie di petrolio, tre oleodotti e numerosi terminali di prodotti petroliferi sul suolo nordamericano.

George W. Bush Jr.: sanzioni legate al narcotraffico e al terrorismo

Il raffreddamento della cooperazione tra Usa e Venezuela in tema di narcotraffico risale al 2005, quando la repubblica bolivariana ha cacciato i funzionari dell’amministrazione statunitense preposta alla lotta al narcotraffico (la Drug Enforcement Administration, DEA). Per gli Stati Uniti, invece, la pietra dello scandalo sarebbe la mancata firma di Chávez all’addendum al Memorandum of Understanding bilaterale del 1978 di lotta al narcotraffico. Un addendum che fornendo fondi per progetti congiunti di lotta al narcotraffico e istituendo programmi di formazione anti-riciclaggio renderebbe maggiormente permeabile la struttura di governo bolivariana (non certo immune dalla piaga della corruzione) ai voleri di Washington. La mancata firma, inoltre, si inserisce nella contestuale espulsione dei funzionari della Dea che erano dediti alle attività di spionaggio, sabotaggio, traffico di droga, infiltrazioni e violazioni della legge per screditare il Venezuela nella lotta al narcotraffico. Accuse confermate da ex esponenti della Dea.

Ciononostante, secondo il governo Bush, il Venezuela avrebbe mancato di adempiere ai propri obblighi derivanti dagli accordi internazionali sui narcotici malgrado i due paesi abbiano continuato ad esercitare un accordo bilaterale marittimo del 1991 che consente a ciascun paese di arrembare, in acque internazionali e col reciproco consenso, navi battenti bandiera opposta qualora siano sospettate di traffico illecito di stupefacenti. Trump, nel rinnovare a settembre 2018 le sanzioni ha però rinunciato a rinnovare le restrizioni che colpivano l'assistenza straniera ai programmi che sostengono la promozione della democrazia in Venezuela, con l’ovvio intento di utilizzare questi aiuti come cavallo di Troia per finanziare il cambio di regime.

Oggi si contano almeno 22 individui e 27 aziende, tutti designati come trafficanti di narcotici ai sensi della legge statunitense. Tra gli individui designati vi sono alcuni funzionari (o ex-funzionari) venezuelani: nel 2008 (governo Bush) sono stati colpiti il generale Hugo Armando Carvajal Barrios (ex capo dell'intelligence militare), il generale Henry de Jesús Rangel Silva (ex ministro della difesa e governatore dello Stato di Trujillo) e Ramón Emilio Rodríguez Chacín (ex-ministro dell'interno ed ex-governatore di Guárico).

Sotto il governo Obama nel 2011 sono stati colpiti, Freddy Alirio Bernal Rosales e Amilicar Jesús Figueroa Salazar (esponente del Partito socialista unito del Venezuela), il generale maggiore Cliver Antonio Alcalá Cordones e Ramón Isidro Madriz Moreno (un ufficiale dei servizi segreti venezuelani). Donald Trump, dal canto suo, per gli stessi motivi ha esteso, nel 2017, le sanzioni economiche all'allora vicepresidente Tareck Zaidan El Aissami Maddah e nel maggio 2018 a Pedro Luis Martin Olivares (ex-funzionario senior dell'intelligence) e due persone a lui associate. Tra gli altri designati figurano Walid Makled, accusato di traffico di droga, tre cittadini libanesi-venezuelani e diversi (presunti) trafficanti di droga colombiani con attività in Venezuela.

Le sanzioni legate al terrorismo vengono istituite nel 2006 con il pretesto delle relazioni bilaterali che il Venezuela intratteneva (e intrattiene) con Cuba e l’Iran, noti stati-canaglia, e per non meglio specificate preoccupazioni riguardanti la mancanza di cooperazione negli sforzi anti-terrorismo degli Stati Uniti. Da allora gli Usa hanno stabilito che la repubblica bolivariana non sta “cooperando pienamente con gli sforzi anti-terrorismo degli Stati Uniti”. Ovviamente ai sensi della legge statunitense. Tale decisione è stata reiterata tutti gli anni e la principale conseguenza consiste nel divieto di vendita e trasferimento di armi commerciali da parte di imprese domiciliate negli Usa. Due anni dopo, nel 2008, il governo Bush ha imposto sanzioni (congelamento dei beni e divieti sulle transazioni) a due individui e due agenzie di viaggio in Venezuela perché forniscono sostegno finanziario ad Hezbollah. L'azione è stata intrapresa ai sensi dell'ordine esecutivo (E.O.) 13224 finalizzato a impedire il finanziamento del terrorismo.

Barack Obama: sanzioni contro la tratta di persone, le azioni antidemocratiche, le violazioni dei diritti umani e la corruzione

Dal giugno 2014, a sostegno delle azioni dei guarimberos che da febbraio mettevano a ferro e fuoco le città venezuelane nella speranza di far cadere il governo Maduro, nella sua relazione annuale sul traffico di persone il Dipartimento di Stato ha posto la repubblica bolivariana tra i paesi di livello 3, quelli con i governi che non rispettano pienamente gli standard minimi della legge, ovviamente statunitense, sulla protezione delle vittime di tratta e che non stanno compiendo sforzi significativi per farlo. I paesi di livello 3 sono soggetti a una serie di restrizioni degli aiuti provenienti dagli Stati Uniti, sebbene, anche in questo ambito, il presidente possa fermare le sanzioni per motivi di interesse nazionale. Ed infatti, a settembre 2017, Trump ha rimosso le sanzioni che colpivano l'assistenza sanitaria e la promozione della democrazia in Venezuela al fine di utilizzare queste attività come cavallo di Troia per provocare la caduta di Maduro.

A fine 2014, il congresso Usa promulga la “Legge sulla difesa dei diritti dell'uomo e della società civile in Venezuela” (Venezuela Defense of Human Rights and Civil Society Act). Tra le varie disposizioni, la legge impone sanzioni (blocco delle attività negli Usa e restrizioni sui visti) contro coloro che il presidente statunitense giudica responsabili di atti di violenza significativi o gravi violazioni dei diritti umani o, più in generale, contro chiunque ha diretto o ordinato l'arresto o il perseguimento di una persona principalmente a causa dell’esercizio della libertà di espressione o di riunione. A luglio 2016, il Congresso ha esteso l'atto del 2014 fino al 2019.

A partire da questa legge, a marzo 2015 Obama emette l’ordine esecutivo 13692 con cui vengono colpiti sei membri delle forze di sicurezza e un pubblico ministero che avevano contribuito a fermare la guerriglia l’anno prima. Ma la cosa più importante è che da allora il Venezuela “costituisce una minaccia insolita e straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti” e per tanto Obama dichiara “l'emergenza nazionale per far fronte a tale minaccia”. Ad oggi, risultano colpiti 65 venezuelani, per lo più membri di partito e funzionari statali, giudicati coinvolti in azioni o politiche che indeboliscono i processi o le istituzioni democratiche; in atti di violenza o di condotta che costituiscono un grave abuso dei diritti umani; in azioni che proibiscono, limitano o penalizzano l'esercizio della libertà di espressione o riunione pacifica.

Ai sette cittadini sanzionati dal governo Obama se ne sono aggiunti altri 58 colpiti da Trump: nel maggio 2017, 8 membri della Corte Suprema; a luglio 2017, il presidente Nicolás Maduro in persona e 13 funzionari governativi, tra cui il presidente del Consiglio nazionale elettorale (CNE) Tibisay Lucena Ramírez; il Difensore civico per i diritti umani (nonché poeta) Tarek William Saab Halabi; il Ministro dell'Interno, della Giustizia e della Pace, Néstor Luis Reverol Torres; e i capi dell'esercito venezuelano, della guardia nazionale e della polizia nazionale; nell'agosto 2017, 8 funzionari, molti del CNE; nel novembre 2017, 10 funzionari governativi, tra cui diversi membri del CNE e dell'Assemblea nazionale costituente (ANC); nel gennaio 2018, 4 alti funzionari governativi e militari; tra marzo e maggio 2018, 8 funzionari, tra cui il primo vicepresidente del PSUV Diosdado Cabello Rondón, il fratello, la moglie e il suo portavoce; e nel settembre 2018, 4 membri molto vicini al presidente Maduro, tra cui la moglie Cilia Adela Gavidia Flores, il vicepresidente esecutivo Delcy Eloína Rodríguez Gómez e altri due collaboratori di Diosdado Cabello.

Donald Trump: sanzioni economiche

Oltre a rinnovare ed estendere le sanzioni varate dai governi precedenti, con la scusa dell’emergenza nazionale dichiarata da Obama, Trump ha imposto al Venezuela sanzioni economiche più ampie e più dure.

A causa degli immancabili “abusi dei diritti umani e delle libertà fondamentali; della responsabilità [del governo venezuelano] per l'approfondimento della crisi umanitaria; dell'istituzione di un'assemblea costituente illegittima, che ha usurpato il potere dell'Assemblea nazionale democraticamente eletta e di altri rami del governo del
..segue ./.

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