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La VOCE 1906

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La VOCE ANNO XXI N°10

giugno 2019

PAGINA G         - 39

non è populismo, si chiama altra politica (una terza via tra establishment e demagoghi). partendo dalla battaglia semantica per il recupero della parola “populismo”, un libro di pierfranco pellizzetti analizza le storture del sistema vigente – dominato dalla finanza globale – fornendo alcune strade per l'alternativa: bisogna riorganizzare il frammentato mondo del lavoro e ripartire dai beni comuni. rilanciando l'idea del conflitto, anche aspro, inteso come motore del cambiamento e della democrazia radicale; la città sarebbe il luogo ideale per esercitare questo (necessario) antagonismo. di giacomo russo spena [@giakrussospena] - (3 maggio 2019) . la battaglia è, innanzitutto, semantica. la tesi di pierfranco pellizzetti, saggista ed autore del libro “il conflitto populista” (138pp, ombre corte), parte dallo stravolgimento di significato del lemma "populismo", etichetta ormai utilizzata per espellere dal discorso pubblico le posizioni di chiunque osi criticare i diktat delle oligarchie economico-finanziarie. peggio ancora, si definiscono "populisti" leader come trump, putin, salvini, le pen, orban e grillo. mentre, per pellizzetti, tali personaggi non sarebbero altro che abili demagoghi sotto mentite spoglie. "il populismo di destra - si legge nel libro - è soltanto una trappola semantica per dirottare l'energia dei più a vantaggio dei pochi, a favore di interessi e obiettivi anti-popolari". come? "con le politiche della paura e con la mutazione del concetto stesso di sicurezza, da security (il proprio ruolo sociale) a safety (incolumità fisica)". una volta puntualizzato come i demagoghi rappresentino l'altra faccia della tecnocrazia e un cambiamento fittizio - più nominale che reale - il populismo, spogliato dalle storture mainstream, rimarebbe termine nobile per individuare gli outsiders, il 99 per cento, in contrapposizione all'elite dominante, l'1 per cento. il "populismo" sarebbe parola da rivalutare e far coincidere con l'altra politica. o, più semplicemente, una mera tecnica per costruire quell'alternativa ad oggi mancante. i punti salienti si possono sintetizzare con la costruzione di un “noi” identitario (basso) contro un "loro" (alto), l’ostilità all’establishment, la personalizzazione della politica, la mobilitazione mediatica, la semplificazione del messaggio e, ovviamente, l’appello al popolo. prendendo in prestito le tesi dei noti mentori del "populismo di sinistra" ernesto laclau e chantal mouffe, il popolo non è definito come referente politico ma è fondamentale la “costruzione di una volontà collettiva capace di determinare una nuova formazione egemonica che ristabilisca l’articolazione tra liberalismo e democrazia”. a differenza di quanto si dica, l'obiettivo è restaurare la democrazia, per rafforzarla ed estenderla, in un'era in cui il sistema appare sempre più autoritario e dominato dalla finanza globale. il libro, nei primi capitoli, registra in tal senso un prezioso excursus storico per spiegare come si è giunti all'odierno ancien regime. dalla fine degli anni settanta – dopo i gloriosi trenta che avevano visto la crescita dell'europa con politiche keynesiane, di sviluppo e di giustizia sociale – inizia una controffensiva neoliberista con la cessazione del gold standard e la stagflazione. una controffensiva capeggiata da ronald reagan e margaret thatcher che ha portato ad un pensiero unico egemone nella società. il dogma dell'austerity. vengono messi al bando principi come la solidarietà, l'eguaglianza e la redistribuzione delle ricchezze. lo slogan dominante è stato “tina-there is no alternative”. ciò ha portato alla fine delle socialdemocrazie europee che, negli anni, hanno via via abbandonato le ragioni della sinistra - sposando le larghe intese seguendo la logica dell'estremismo di centro - assumendo come proprio il paradigma della "terza via" di tony blair. quella dei socialdemocratici è stata una mutazione genetica dovuta sia a errori soggettivi che alla insufficiente analisi e comprensione nel "mare in subbuglio di quel capitalismo in via di mutazione", per parafrasare lo storico eric hobsbawm, finendo per screditare – a livello nominale – il termine "sinistra". eppure le conseguenze di queste politiche erano lapalissiane. non soltanto la fine del sogno europeista - l'ue ha imboccato un vicolo cieco ed è ad un passo dall'implosione - ma anche lo svuotamento della democrazia, con annessa perdita della sovranità popolare, e l'aumento esponenziale delle diseguaglianze. e poi hanno prodotto la crisi delle imprese, la disoccupazione crescente, il peggioramento delle condizioni degli occupati residuali e la riduzione delle protezioni sociali. un sistema al collasso dove il lavoro è stato assassinato a vantaggio esclusivo del capitale: il lavoro ha totalmente perso la sua centralità in una logica di guerra di classe dall'alto verso il basso, come ammesso dallo stesso miliardario warren buffett. ma se l'irradiamento economico, politico, culturale e mediatico del mondo anglossassone, epicentro del novecento, è entrato in declino, la riorganizzazione capitalistica - pellizzetti menziona gli studi di giovanni arrighi sulla fine dell'egemonia americana e sui nuovi cicli di accumulazione capitalistica - avrebbe così conscientemente provveduto a cancellare dalla scena le sue storiche controparti, a cominciare dal lavoro organizzato. oltre a ridefinire il concetto di populismo, l'autore fornisce spunti di riflessioni per costruire l'alternativa al sistema dominante. per contrastare la deriva post democratica che affligge le nostre società sarebbe necessario riscoprire la natura agonistica della democrazia stessa. per questo, come dice, l'economista thomas piketty: “se si vuole riprendere davvero il controllo del capitalismo, non esiste altra scelta se non quella di scommettere fino in fondo sulla democrazia”. quest'ultima è indissociabile dal conflitto, anche aspro, tra alternative politiche chiaramente distinguibili, in assenza delle quali essa risulta fatalmente svuotata. nel libro vengono riportate le parole di albert otto hirschman: “sono i conflitti a produrre quei preziosi legami che mantengono unite le società democratiche moderne […] l'idea che il conflitto possa svolgere un ruolo costruttivo nei rapporti sociali ha una lunga storia”. il conflitto sociale inteso come sale della democrazia. dall'autore viene definito anche il luogo ideale per esercitarlo: la città. gli spazi urbani sono sempre più terreno fertile per le scorribande dell’establishment e hanno, strada facendo, l’idea di bene comune e di coacervo di diritti di cittadinanza. oggi, infatti, le città sono obiettivo prioritario degli investimenti finanziari di carattere speculativo, che generano dinamiche di gentrificazione molto difficili da contenere per i poteri dei governi locali. negli anni sessanta henri lefebvre ha coniato il termine di “diritto alla città” per esprimere il fatto che debba tornare alla gente nonostante la sua trasformazione in spazio di speculazione finanziaria e di generazione di profitti. lefebvre propugna che siano i cittadini i protagonisti di una città che loro stessi hanno costruito. allora ecco il bisogno di ridisegnare le periferie urbane creando condizioni indispensabili di inclusione sociale, intervenendo sul verde, sui servizi e sulla vivibilità. le città intese come elemento di rottura e discontinuità, possono sperimentare con nuovi strumenti di co-partecipazione e co-gestione anche nuove forme di accoglienza per i migranti. agorà dove il cittadino è parte attiva e non singolarità passiva di fronte a scelte calate dall’alto. l’errore più grande sarebbe quello di considerare il territorio urbano come un semplice distretto elettorale e non come il motore del cambiamento. la città definita, da pellizzetti, come luogo ideale per il conflitto. nel libro si fa l'esempio di ada colau, l'alcaldessa di barcellona che ha costruito una (nuova) sinistra senza nominarla. si rispolverano, inoltre, il concetto di egemonia - di gramsciana memoria - ma anche figure di riferimento come gaetano salvemini e luigi einaudi perché, scrive pellizzetti, dall'attuale status quo se ne può uscire soltanto "riconoscendo al conflitto populista il ruolo positivo di battistrada nel lungo cammino che ancora ci attende, per evitare lo scivolamento nella barriere dell'oscurantismo autoritario grazie alla riaffermazione dell'ideale democratico".
liliana segre: “la storia è l'antidoto alla barbarie”. a ottant’anni dalle leggi razziste antisemite dell’italia fascista il giornale di storia pubblica un numero monografico con contributi che spaziano dalla ricerca all’analisi storiografica. anticipiamo qui l’intervista alla senatrice a vita liliana segre, che avverte: “se il fascismo è l’autobiografia della nazione, l’indifferenza è la chiave di lettura per interpretarlo”. di veronica granata - (30 aprile 2019) . liliana segre è stata nominata senatrice a vita dal presidente della repubblica sergio mattarella il 19 gennaio 2018. nata a milano nel 1930, è stata deportata all’età di 13 anni nel campo di sterminio di auschwitz, dove hanno trovato la morte il padre e i nonni paterni. testimone della shoah, è impegnata da trent’anni nella trasmissione della memoria di quegli eventi. le sue attività in questo ambito si rivolgono in particolare agli studenti delle scuole e delle università. ricopre attualmente l’incarico di presidente del comitato per le pietre d'inciampo. nominata commendatore dell'ordine al merito della repubblica italiana nel 2004 ha ugualmente ricevuto una prima laurea honoris causa in giurisprudenza dall'università di trieste nel 2008, e una seconda in scienze pedagogiche dall'università di verona nel 2010. gentile senatrice segre, a distanza di 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali, è ancora fortemente presente nello spazio pubblico un discorso che tende a definire il regime fascista italiano come una dittatura “dal volto umano”, artefice di una politica sostanzialmente positiva (“ha fatto molte cose buone” è la frase più ricorrente), almeno fino all’esito disastroso della guerra. cosa si sente di rispondere a simili affermazioni? ci vuole del talento a definire il ventennio fascista un regime dal volto umano. basta intendersi sui termini. cosa c’è di umano nel cancellare/sospendere le libertà personali, civili e politiche; nella soppressione dello spazio pubblico; nella distruzione della sfera politica? quale tipo di sentimento si sia celato dietro l’attacco frontale ad un impianto che, bene o male funzionava da mezzo secolo è tristemente noto. le leggi razziste sono il frutto avvelenato di una stagione di pensiero che ha una data d’origine: 10 giugno 1924, il delitto matteotti. lo squadrismo fascista ha avuto modo di “allenarsi”. recentemente il senato ha ricordato con un bel convegno vittorio foa (antifascista, costituente, sindacalista e senatore); una delle frasi più ricorrenti del mio illustre collega (a proposito di questi anni terribili) suonava più o meno così: «quando governavate voi quelli come noi stavano in galera, ora che governiamo noi quelli come voi siedono in parlamento». il fascismo è stato brutale ed assassino; come spesso ripeto, l’inchiostro della firma delle leggi razziste è un filo nero che da san rossore conduceva direttamente ad auschwitz. le testimonianze sulla shoah si accumulano da settant’anni. esse costituiscono una fonte importantissima per lo storico di oggi e di domani. in anni recenti si sono intensificati gli studi non solo su quanto riportato dai testimoni, ma anche sulla “storia delle testimonianze”, ovvero su come esse sono cambiate nel corso del tempo. in cosa secondo lei la testimonianza di chi ha raccontato la propria esperienza negli anni cinquanta o sessanta puó differire da quella degli ultimi detentori del ricordo di quegli eventi ancora in vita oggi? per un’analisi storica del significato della testimonianza, temo, si dovrà attendere ancora un po'. come spesso ripeto il “dopo di noi” potrebbe tradursi in poche righe sui libri di storia. sotto il cielo plumbeo del secolo scorso la differenza vera è stata prodotta dal mezzo, tra chi ha parlato e chi ha scritto. qui in italia, un silenzio assordante ha accompagnato il dopoguerra. per contro (in una sorta di patto non scritto) il più brillante tra noi, primo levi, ha rotto il silenzio con l’inchiostro, siamo stati rappresentati da una mente raffinatissima che ha saputo fotografare, ad alta definizione, quel mondo su carta. nessuno più di lui era titolato a parlare delle vite offese. della frattura scomposta della storia che è stato il genocidio. se posso parlare della mia ormai trentennale esperienza di testimone, dico che non è cambiato nulla. il racconto è fedele, oggi come allora. il compleanno delle leggi razziste ha, molto civilmente, acceso un faro su quella indicibile evasione dalla realtà. si sono moltiplicate le platee, riempite le agende ma il senso della testimonianza, resta lo stesso. si è solo abbassato il tono delle voci, per problemi anagrafici. gli storici sono spesso costretti a constatare, forse non sempre volentieri, che la finzione letteraria o cinematografica possiede un potere notevole di evocare il passato e di farlo entrare nel presente delle generazioni attuali, un potere che le pubblicazioni scientifiche hanno raramente. esiste un film, noto o meno noto, nel quale lei abbia ritrovato almeno in parte ciò che ha vissuto? alla memoria dei senza nome è consacrata la ricerca storica, diceva walter benjamin; il cinema fa altro, perché è la macchina della finzione, anche quando l’oggetto dell’indagine è drammaticamente reale. il cinema italiano, per esempio, ha saputo superare se stesso raccontando sapientemente lembi di società, il neorealismo é stato un “testimone oculare” nel dopoguerra. una narrazione corale, autentica. un’esperienza sensoriale. immensa. la shoah non è replicabile perché é l’indicibile. il cinema non può scavare l’abisso perché la relazione genetica che unisce il nazismo alla follia dello sterminio non è “filmabile”. i testimoni della shoah, gli insegnanti e i membri di associazioni che si dedicano alla trasmissione della memoria dei genocidi o all’educazione alla cittadinanza stanno assistendo con disappunto, se non con frustrazione e dolore, ad un atteggiamento sempre più diffuso nelle giovani generazioni di indifferenza e talvolta anche di rifiuto rispetto alla cultura e alla pedagogia della memoria. l’obbligo morale che almeno due generazioni hanno sentito di non far dimenticare certi eventi sembra percepito oggi da molti giovani e giovanissimi come un’imposizione, volta a dettare loro cosa devono ricordare del passato e in che modo. come si esce da questa impasse? la parola chiave è indifferenza, il non-sentimento che ha accompagnato un intero paese negli anni più bui della dittatura. se il fascismo è l’autobiografia della nazione, l’indifferenza è la chiave di lettura per interpretarlo. è la mia ossessione e la mia battaglia personale. il binario 21, a milano, ha una scritta che campeggia sullo sfondo, indifferenza, appunto. come si combatte? la cura più efficace è la prevenzione. con una buona manutenzione della memoria che è la ricucitura (imperfetta) di un percorso di guarigione civile, percorso che serve a mantenere in buona salute la democrazia. è lo studio della storia l’antidoto alla barbarie, una disciplina molto speciale che ci insegna a non ricadere nell’errore. vorremmo infine chiederle se vi sia un personaggio o un periodo della storia italiana che la appassiona particolarmente. il periodo storico più interessante, a mio modestissimo parere é il risorgimento. le ragioni si intuiscono, il grado di separazione tra quello spicchio di tempo e l’oggi è uno. l’interregno, enorme e delicato lo abbiamo chiuso con l’entrata in vigore della carta costituzionale, base della legalità repubblicana. la figura storica che trovo interessante è una “collettiva” una foto di gruppo, il gruppo 21, le madri costituenti.

Non è populismo, si chiama altra politica (una terza via tra establishment e demagoghi)



Partendo dalla battaglia semantica per il recupero della parola “populismo”, un libro di Pierfranco Pellizzetti analizza le storture del Sistema vigente – dominato dalla finanza globale – fornendo alcune strade per l'alternativa: bisogna riorganizzare il frammentato mondo del lavoro e ripartire dai beni comuni. Rilanciando l'idea del conflitto, anche aspro, inteso come motore del cambiamento e della democrazia radicale; la città sarebbe il luogo ideale per esercitare questo (necessario) antagonismo.

di Giacomo Russo Spena [@giakrussospena] - (3 maggio 2019)

La battaglia è, innanzitutto, semantica. La tesi di Pierfranco Pellizzetti, saggista ed autore del libro “Il conflitto populista” (138pp, Ombre corte), parte dallo stravolgimento di significato del lemma "populismo", etichetta ormai utilizzata per espellere dal discorso pubblico le posizioni di chiunque osi criticare i diktat delle oligarchie economico-finanziarie. Peggio ancora, si definiscono "populisti" leader come Trump, Putin, Salvini, Le Pen, Orban e Grillo. Mentre, per Pellizzetti, tali personaggi non sarebbero altro che abili demagoghi sotto mentite spoglie. "Il populismo di destra - si legge nel libro - è soltanto una trappola semantica per dirottare l'energia dei più a vantaggio dei pochi, a favore di interessi e obiettivi anti-popolari". Come? "Con le politiche della paura e con la mutazione del concetto stesso di sicurezza, da security (il proprio ruolo sociale) a safety (incolumità fisica)".

Una volta puntualizzato come i demagoghi rappresentino l'altra faccia della tecnocrazia e un cambiamento fittizio - più nominale che reale - il populismo, spogliato dalle storture mainstream, rimarebbe termine nobile per individuare gli outsiders, il 99 per cento, in contrapposizione all'elite dominante, l'1 per cento. Il "populismo" sarebbe parola da rivalutare e far coincidere con l'Altra Politica. O, più semplicemente, una mera tecnica per costruire quell'alternativa ad oggi mancante.

I punti salienti si possono sintetizzare con la costruzione di un “noi” identitario (basso) contro un "loro" (alto), l’ostilità all’establishment, la personalizzazione della politica, la mobilitazione mediatica, la semplificazione del messaggio e, ovviamente, l’appello al popolo. Prendendo in prestito le tesi dei noti mentori del "populismo di sinistra" Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, il popolo non è definito come referente politico ma è fondamentale la “costruzione di una volontà collettiva capace di determinare una nuova formazione egemonica che ristabilisca l’articolazione tra liberalismo e democrazia”. A differenza di quanto si dica, l'obiettivo è restaurare la democrazia, per rafforzarla ed estenderla, in un'era in cui il Sistema appare sempre più autoritario e dominato dalla finanza globale.

Il libro, nei primi capitoli, registra in tal senso un prezioso excursus storico per spiegare come si è giunti all'odierno Ancien Regime. Dalla fine degli anni Settanta – dopo i Gloriosi Trenta che avevano visto la crescita dell'Europa con politiche keynesiane, di sviluppo e di giustizia sociale – inizia una controffensiva neoliberista con la cessazione del gold standard e la stagflazione. Una controffensiva capeggiata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher che ha portato ad un pensiero unico egemone nella società. Il dogma dell'austerity. Vengono messi al bando principi come la solidarietà, l'eguaglianza e la redistribuzione delle ricchezze.

Lo slogan dominante è stato “Tina-There is no alternative”. Ciò ha portato alla fine delle socialdemocrazie europee che, negli anni, hanno via via abbandonato le ragioni della sinistra - sposando le larghe intese seguendo la logica dell'estremismo di centro - assumendo come proprio il paradigma della "terza via" di Tony Blair. Quella dei socialdemocratici è stata una mutazione genetica dovuta sia a errori soggettivi che alla insufficiente analisi e comprensione nel "mare in subbuglio di quel capitalismo in via di mutazione", per parafrasare lo storico Eric Hobsbawm, finendo per screditare – a livello nominale – il termine "sinistra".

Eppure le conseguenze di queste politiche erano lapalissiane. Non soltanto la fine del sogno europeista - l'UE ha imboccato un vicolo cieco ed è ad un passo dall'implosione - ma anche lo svuotamento della democrazia, con annessa perdita della sovranità popolare, e l'aumento esponenziale delle diseguaglianze. E poi hanno prodotto la crisi delle imprese, la disoccupazione crescente, il peggioramento delle condizioni degli occupati residuali e la riduzione delle protezioni sociali. Un Sistema al collasso dove il lavoro è stato assassinato a vantaggio esclusivo del capitale: il lavoro ha totalmente perso la sua centralità in una logica di guerra di classe dall'alto verso il basso, come ammesso dallo stesso miliardario Warren Buffett.

Ma se l'irradiamento economico, politico, culturale e mediatico del mondo anglossassone, epicentro del Novecento, è entrato in declino, la riorganizzazione capitalistica - Pellizzetti menziona gli studi di Giovanni Arrighi sulla fine dell'egemonia americana e sui nuovi cicli di accumulazione capitalistica - avrebbe così conscientemente provveduto a cancellare dalla scena le sue storiche controparti, a cominciare dal lavoro organizzato.

Oltre a ridefinire il concetto di populismo, l'autore fornisce spunti di riflessioni per costruire l'alternativa al Sistema dominante. Per contrastare la deriva post democratica che affligge le nostre società sarebbe necessario riscoprire la natura agonistica della democrazia stessa. Per questo, come dice, l'economista Thomas Piketty: “Se si vuole riprendere davvero il controllo del capitalismo, non esiste altra scelta se non quella di scommettere fino in fondo sulla democrazia”. Quest'ultima è indissociabile dal conflitto, anche aspro, tra alternative politiche chiaramente distinguibili, in assenza delle quali essa risulta fatalmente svuotata. Nel libro vengono riportate le parole di Albert Otto Hirschman: “Sono i conflitti a produrre quei preziosi legami che mantengono unite le società democratiche moderne […] L'idea che il conflitto possa svolgere un ruolo costruttivo nei rapporti sociali ha una lunga storia”. Il conflitto sociale inteso come sale della democrazia. Dall'autore viene definito anche il luogo ideale per esercitarlo: la città.

Gli spazi urbani sono sempre più terreno fertile per le scorribande dell’establishment e hanno, strada facendo, l’idea di bene comune e di coacervo di diritti di cittadinanza. Oggi, infatti, le città sono obiettivo prioritario degli investimenti finanziari di carattere speculativo, che generano dinamiche di gentrificazione molto difficili da contenere per i poteri dei governi locali.

Negli anni Sessanta Henri Lefebvre ha coniato il termine di “diritto alla città” per esprimere il fatto che debba tornare alla gente nonostante la sua trasformazione in spazio di speculazione finanziaria e di generazione di profitti. Lefebvre propugna che siano i cittadini i protagonisti di una città che loro stessi hanno costruito. Allora ecco il bisogno di ridisegnare le periferie urbane creando condizioni indispensabili di inclusione sociale, intervenendo sul verde, sui servizi e sulla vivibilità. Le città intese come elemento di rottura e discontinuità, possono sperimentare con nuovi strumenti di co-partecipazione e co-gestione anche nuove forme di accoglienza per i migranti. Agorà dove il cittadino è parte attiva e non singolarità passiva di fronte a scelte calate dall’alto. L’errore più grande sarebbe quello di considerare il territorio urbano come un semplice distretto elettorale e non come il motore del cambiamento. La città definita, da Pellizzetti, come luogo ideale per il conflitto.

Nel libro si fa l'esempio di Ada Colau, l'alcaldessa di Barcellona che ha costruito una (nuova) sinistra senza nominarla. Si rispolverano, inoltre, il concetto di egemonia - di gramsciana memoria - ma anche figure di riferimento come Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi perché, scrive Pellizzetti, dall'attuale status quo se ne può uscire soltanto "riconoscendo al conflitto populista il ruolo positivo di battistrada nel lungo cammino che ancora ci attende, per evitare lo scivolamento nella barriere dell'oscurantismo autoritario grazie alla riaffermazione dell'ideale democratico".

Liliana Segre:
“La Storia è l'antidoto alla barbarie”



A ottant’anni dalle leggi razziste antisemite dell’Italia fascista il Giornale di Storia pubblica un numero monografico con contributi che spaziano dalla ricerca all’analisi storiografica. Anticipiamo qui l’intervista alla senatrice a vita Liliana Segre, che avverte: “Se il fascismo è l’autobiografia della nazione, l’indifferenza è la chiave di lettura per interpretarlo”.

di Veronica Granata - (30 aprile 2019)

Liliana Segre è stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 19 gennaio 2018. Nata a Milano nel 1930, è stata deportata all’età di 13 anni nel campo di sterminio di Auschwitz, dove hanno trovato la morte il padre e i nonni paterni. Testimone della Shoah, è impegnata da trent’anni nella trasmissione della memoria di quegli eventi. Le sue attività in questo ambito si rivolgono in particolare agli studenti delle scuole e delle università. Ricopre attualmente l’incarico di Presidente del Comitato per le Pietre d'inciampo. Nominata commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica italiana nel 2004 ha ugualmente ricevuto una prima laurea honoris causa in Giurisprudenza dall'Università di Trieste nel 2008, e una seconda in Scienze pedagogiche dall'Università di Verona nel 2010.

Gentile Senatrice Segre, a distanza di 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali, è ancora fortemente presente nello spazio pubblico un discorso che tende a definire il regime fascista italiano come una dittatura “dal volto umano”, artefice di una politica sostanzialmente positiva (“ha fatto molte cose buone” è la frase più ricorrente), almeno fino all’esito disastroso della guerra. Cosa si sente di rispondere a simili affermazioni?

Ci vuole del talento a definire il ventennio fascista un regime dal volto umano. Basta intendersi sui termini. Cosa c’è di umano nel cancellare/sospendere le libertà personali, civili e politiche; nella soppressione dello spazio pubblico; nella distruzione della sfera politica? Quale tipo di sentimento si sia celato dietro l’attacco frontale ad un impianto che, bene o male funzionava da mezzo secolo è tristemente noto. Le leggi razziste sono il frutto avvelenato di una stagione di pensiero che ha una data d’origine: 10 giugno 1924, il delitto Matteotti. Lo squadrismo fascista ha avuto modo di “allenarsi”. Recentemente il Senato ha ricordato con un bel convegno Vittorio Foa (antifascista, costituente, sindacalista e Senatore); una delle frasi più ricorrenti del mio illustre collega (a proposito di questi anni terribili) suonava più o meno così: «Quando governavate voi quelli come noi stavano in galera, ora che governiamo noi quelli come voi siedono in Parlamento». Il fascismo è stato brutale ed assassino; come spesso ripeto, l’inchiostro della firma delle leggi razziste è un filo nero che da San Rossore conduceva direttamente ad Auschwitz.

Le testimonianze sulla Shoah si accumulano da settant’anni. Esse costituiscono una fonte importantissima per lo storico di oggi e di domani. In anni recenti si sono intensificati gli studi non solo su quanto riportato dai testimoni, ma anche sulla “storia delle testimonianze”, ovvero su come esse sono cambiate nel corso del tempo. In cosa secondo lei la testimonianza di chi ha raccontato la propria esperienza negli anni Cinquanta o Sessanta puó differire da quella degli ultimi detentori del ricordo di quegli eventi ancora in vita oggi?

Per un’analisi storica del significato della testimonianza, temo, si dovrà attendere ancora un po'. Come spesso ripeto il “dopo di noi” potrebbe tradursi in poche righe sui libri di storia.
Sotto il cielo plumbeo del secolo scorso la differenza vera è stata prodotta dal mezzo, tra chi ha parlato e chi ha scritto. Qui in Italia, un silenzio assordante ha accompagnato il dopoguerra. Per contro (in una sorta di patto non scritto) il più brillante tra noi, Primo Levi, ha rotto il silenzio con l’inchiostro, siamo stati rappresentati da una mente raffinatissima che ha saputo fotografare, ad alta definizione, quel mondo su carta. Nessuno più di lui era titolato a parlare delle vite offese. Della frattura scomposta della storia che è stato il genocidio.
Se posso parlare della mia ormai trentennale esperienza di testimone, dico che non è cambiato nulla. Il racconto è fedele, oggi come allora. Il compleanno delle leggi razziste ha, molto civilmente, acceso un faro su quella indicibile evasione dalla realtà. Si sono moltiplicate le platee, riempite le agende ma il senso della testimonianza, resta lo stesso. Si è solo abbassato il tono delle voci, per problemi anagrafici.

Gli storici sono spesso costretti a constatare, forse non sempre volentieri, che la finzione letteraria o cinematografica possiede un potere notevole di evocare il passato e di farlo entrare nel presente delle generazioni attuali, un potere che le pubblicazioni scientifiche hanno raramente. Esiste un film, noto o meno noto, nel quale lei abbia ritrovato almeno in parte ciò che ha vissuto?

Alla memoria dei senza nome è consacrata la ricerca storica, diceva Walter Benjamin; il cinema fa altro, perché è la macchina della finzione, anche quando l’oggetto dell’indagine è drammaticamente reale. Il cinema italiano, per esempio, ha saputo superare se stesso raccontando sapientemente lembi di società, il neorealismo é stato un “testimone oculare” nel dopoguerra. Una narrazione corale, autentica. Un’esperienza sensoriale. Immensa. La Shoah non è replicabile perché é l’indicibile. Il cinema non può scavare l’abisso perché la relazione genetica che unisce il nazismo alla follia dello sterminio non è “filmabile”.

I testimoni della Shoah, gli insegnanti e i membri di associazioni che si dedicano alla trasmissione della memoria dei genocidi o all’educazione alla cittadinanza stanno assistendo con disappunto, se non con frustrazione e dolore, ad un atteggiamento sempre più diffuso nelle giovani generazioni di indifferenza e talvolta anche di rifiuto rispetto alla cultura e alla pedagogia della memoria. L’obbligo morale che almeno due generazioni hanno sentito di non far dimenticare certi eventi sembra percepito oggi da molti giovani e giovanissimi come un’imposizione, volta a dettare loro cosa devono ricordare del passato e in che modo. Come si esce da questa impasse?

La parola chiave è indifferenza, il non-sentimento che ha accompagnato un intero Paese negli anni più bui della dittatura. Se il fascismo è l’autobiografia della Nazione, l’indifferenza è la chiave di lettura per interpretarlo. È la mia ossessione e la mia battaglia personale. Il binario 21, a Milano, ha una scritta che campeggia sullo sfondo, indifferenza, appunto. Come si combatte? La cura più efficace è la prevenzione. Con una buona manutenzione della memoria che è la ricucitura (imperfetta) di un percorso di guarigione civile, percorso che serve a mantenere in buona salute la democrazia. È lo studio della Storia l’antidoto alla barbarie, una disciplina molto speciale che ci insegna a non ricadere nell’errore.

Vorremmo infine chiederle se vi sia un personaggio o un periodo della storia italiana che la appassiona particolarmente.

Il periodo storico più interessante, a mio modestissimo parere é il Risorgimento. Le ragioni si intuiscono, il grado di separazione tra quello spicchio di tempo e l’oggi è uno. L’interregno, enorme e delicato lo abbiamo chiuso con l’entrata in vigore della carta costituzionale, base della legalità repubblicana. La figura storica che trovo interessante è una “collettiva” una foto di gruppo, il gruppo 21, le madri costituenti.

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