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La VOCE ANNO XXI N°6

febbraio 2019

PAGINA d         - 28

Amos Oz ha scritto la storia delle nostre vite

Il commosso ricordo dell’amico e collega David Grossman che con Yehoshua fa memoria dell’uomo e dello scrittore impegnato per la soluzione del conflitto israelo-palestinese ed i limiti della loro visione del problema.



GERUSALEMME. Con l’aiuto di Roberto Zadik cerco di capire cosa ha significato per Israele Amos Oz, lo scrittore che ha raggiunto i suoi avi qualche giorno fa.

Per molti, insieme a Yehoshua e a Grossman, Amos Oz è stato un punto di riferimento della letteratura israeliana contemporanea. “Ynet” pubblica la commossa lettera che David Grossman gli dedica. Cosa lo distingueva dagli altri scrittori? -Oz ha scritto la storia delle nostre vite di Israeliani- ha detto Grossman parlando della personalità di Oz -era un uomo saggio e generoso. Chiunque avesse avuto la fortuna di incontrarlo per un caffè restava colpito dalla lucidità con cui analizzava la realtà e dalla sua profonda comprensione della politica e della natura umana-. David ha sottolineato come -ogni volta che ci si vedeva ne uscivo illuminato e arricchito. Senza dubbio è stato uno dei più grandi influenzando molti intellettuali della mia generazione e di quelle successive-.

Nel suo ricordo Grossman ha alternato la partecipazione umana alla critica letteraria e culturale. Ha evidenziato come l’amico lo abbia influenzato nel suo modo di scrivere, soprattutto con il libro “Terra di Israele” che -ha avuto un enorme impatto su di me quando stavo lavorando al mio romanzo “Il Vento Giallo” -David ricorda il suo appassionato trasporto nel leggere il libro dell’amico mentre scriveva il suo al punto che -in quasi ogni capitolo mi veniva spontaneo appoggiarlo respirando profondamente-.

C’è un libro di Oz che più rappresenta Israele? -L’opera che descrive maggiormente le difficoltà della vita qui in Israele è “Storia di Amore e di Tenebra” - afferma Grossman con sicurezza - in queste pagine vengono riassunte le ansie e le fratture della società israeliana alla nascita dello Stato attraverso l’infanzia vissuta da Amos. Priva di affetto e immersa nel processo di nazionalizzazione e statalizzazione del Paese-. C’è anche un altro aspetto caratteriale di Amos Oz che Grossman enfatizza nel suo ricordo: lo straordinario senso dello humor dell’amico scomparso e l’indole fondamentalmente sobria e schiva che lo contraddistingueva. -Non frequentava le premiazioni e disertò perfino il prestigioso Man Booker Prize-. Disertava anche le premiazioni degli amici, creando disagio in loro, ma poi, successivamente a un evento che lo coinvolse, Grossman ricorda che -ci parlammo affettuosamente in una bellissima conversazione-. Amaramente David evidenzia come -la mia generazione si appoggia sulle spalle di giganti come Oz e Yehoshua. Quando qualcuno dotato del loro spessore ci lascia, qualcosa diminuisce. Egli non sarà più lo scriba della nostra realtà e la sua morte suscita un senso di dolore e di perdita. Per questo è davvero triste-.

Una ebraicità moderna quella di Amos Oz, a lui ci si è rivolti per il grande carisma morale. Oltre alla qualità espressiva, alla talentuosa scrittura, allo spessore delle narrazioni, Oz ha espresso la capacità di trasformare le parole in emozioni e viceversa. Una coscienza non solo critica, ma etica. La formazione civile e morale di Oz, d’altro canto, è segnata da due fatti che hanno esercitato su di lui una forte incidenza. Il primo è il rapporto con i genitori: la madre, suicidatasi quando Amos era ancora adolescente, era stata una nutrice inquietante, assiduamente presente nei pensieri e assente nei fatti. Il padre era autorevole e austero rappresentante del nucleo del sionismo “revisionista”, uscito politicamente ridimensionato negli anni della formazione dello Stato ebraico. Divenne un “esiliato in patria”. Il figlio Amos rompe il rapporto con lui. Il secondo fatto risale alla formazione intellettuale e politica dello scrittore che, nato nel 1939, segue gli anni del consolidamento del giovane Stato, ma non si confronta con la generazione dei padri fondatori bensì con quella immediatamente successiva. Nasce qui la scelta di andare a vivere in un kibbutz per cercare le ragioni di un esperimento politico, culturale e sociale di Israele.

Amos Oz ha affrontato con la sua scrittura i temi di Israele in via di maturazione: il rapporto tra laicità, secolarizzazione e religiosità; il mutamento delle culture politiche. Con i suoi libri ha raccontato le traiettorie; il conflitto tra l’austerità dei primi decenni e l’edonismo consumistico subentrato negli ultimi anni, il rapporto tra identità e ibridazione, trame dell’esistenza.

Subito dopo la sua scomparsa, lo scrittore e saggista israeliano Amos Oz è stato ricordato dalla stampa di Israele con testimonianze come avvenuto in altri casi: dal cantautore Arik Einstein allo scrittore Aaron Applefeld, romeno naturalizzato israeliano, da uomini politici di calibro internazionale come Shimon Peres, amico personale di Oz, o come Rabin. Sul sito “Ynet” parla Fania Oz Salzberg, la maggiore dei suoi tre figli avuti dall’inseparabile moglie Nily: “un meraviglioso uomo di famiglia e un uomo di pace e moderazione”.

Yehoshua ha reso omaggio su “Ynet” all’amico. -Ho lasciato l’ospedale salutandolo, siamo stati amici per 60 anni, il nostro rapporto è sempre stato molto profondo e genuino. Era un grande amico e una persona onesta. Ha espresso pensieri e opinioni, non per essere contro qualcosa, ma perché aveva una sua verità-.

Oz e l’ebraismo, un rapporto complicato e stimolante. Lui si definiva laico e di sinistra e nonostante alcune sue frasi provocatorie sulla religione definita “una polvere antica”, Amos Klausner (questo il suo vero nome) aveva una sua spiritualità. La si trova nel suo saggio “Gli ebrei e le parole”. Lo scrittore “non frequentava mai la sinagoga, ma leggeva sia testi religiosi sia laici con grande interesse”. -L’ebraismo non è un contratto, ma un’eredità con cui puoi decidere come porti verso di essa, se sistemarla nella sala da pranzo, nel seminterrato o nell’attico- questo scriveva Amos Oz, legato ai testi ebraici, alla lingua ebraica e a Israele. Nel suo libro “Gli ebrei e le parole” sottolineò il rapporto particolare con la religione e l’identità ebraica: -La nostra identità non è una linea di sangue, ma una riga di testo-.

Ma Amos Oz è stato anche altro. Autorevole sostenitore della “soluzione dei due Stati” del conflitto arabo-israeliano fin dal lontano 1967 quando pubblicò “Terra dei nostri Padri” sul giornale laburista Davar. “Anche un'occupazione inevitabile è un'occupazione ingiusta”, scrisse Oz. Ma perché l’occupazione era inevitabile? Ce lo spiega In terra di Israele: “l’uomo che sta per annegare, aggrappato a questa tavola, è autorizzato, con tutte le norme di una giustizia naturale, obiettiva e universale, a farsi spazio sulla tavola, anche se così facendo deve costringere un po’ da una parte gli altri. Anche se gli altri, seduti su quell’asse, non gli lasciano altre alternative se non la forza”.

Ma non potrebbero dire lo stesso i migranti che tentano disperatamente di attraversare il mediterraneo o di varcare il confine sud degli Stati Uniti? Evidentemente no, perché come ebbe modo di dichiarare in un’intervista apparsa in Italia su ‘D la Repubblica delle Donne’ del 22 Aprile 2006 e intitolata “Colpa vostra” Oz sostiene che “Il nostro è un Paese piccolo. I due popoli ne hanno entrambi diritto. Chi potrebbe sostenere che i palestinesi non sono di casa in Palestina? Sono di casa come gli olandesi in Olanda. Chi potrebbe sostenere che gli ebrei non hanno anche loro diritto a questo Paese? È la loro sola e unica patria storica, non ne hanno mai avuta un'altra”.

Dunque la soluzione al conflitto coi palestinesi per Oz è di costruire due Stati. Anche separati da un muro, benché egli abbia sostenuto a lungo che il tracciato della Barriera di separazione sarebbe dovuto essere più o meno quello della Linea Verde, il confine esistente prima del 1967. D’altronde questa soluzione è l’unica possibile per chi, come lui, pensa che “L’OLP è uno dei movimenti nazionali più estremisti e intransigenti del nostro tempo” e che “nulla al mondo mi farebbe mai sostenere Mr. Arafat” (Poscritto dieci anni dopo, In terra di Israele) e che “Se non ci sono due stati, ce ne sarà uno. Se ci sarà un solo stato qui, sarà uno stato arabo, dal mare al fiume Giordano. Se ci sarà uno stato arabo qui, non invidio i miei figli e i miei nipoti” (editoriale del 13 marzo 2015 Haaretz).

5 Minuti di concretezza

Finalmente a un mese dalle riprese, siamo riusciti a pubblicare il nostro lavoro: un video sui rifugiati prodotto da Invictapalestina.
Quattro testimonianze forti, ognuna con 5 minuti di concretezza racconta la sua esperienza sulle le note profonde di Fabrizio De André.
20 minuti di umanità contro la barbarie dell’intolleranza.

La realtà nei campi profughi palestinesi in Libano, intervista con Abu Wassim

di Angela Corrias
Libano – “È inutile che i nostri giovani si mettano in testa di diventare medici, professori o avvocati, devono solo imparare un mestiere manuale il prima possibile e pensare a sopravvivere.” In qualsiasi situazione, queste parole suonerebbero estreme e ingiuste, ma quando Abu Wassim, amministratore e abitante del campo profughi di Bourj el-Shamali a Tiro, nel sud del Libano, le pronuncia, in modo pacato e lento come suo solito, nessuno ha il coraggio di ribattere. Perché amministrare uno dei campi profughi palestinesi più poveri del Libano non è cosa facile, e nei 70 anni che sono passati dalla Nakba a oggi, Abu Wassim e i suoi connazionali hanno avuto tutto il tempo di smettere di sognare.

Con una popolazione di circa 22mila abitanti, Bourj el-Shamali è stato costruito dal 1948 al 1955 come soluzione “di emergenza” per accogliere i profughi che dal nord della Palestina, interamente epurata, si sono riversati in Libano dopo la creazione dello stato di Israele e la pulizia etnica avvenuta con la sistematica espulsione dei nativi dalla loro terra, come stabilito dall’originario “Piano D” messo a punto nel 1947 nella Red House di Tel Aviv, allora quartier generale della Hagana, milizia sionista. In sei mesi le forze di occupazione hanno portato a termine la missione originale: più di metà della popolazione palestinese (circa 800mila persone) è stata sradicata dalle loro origini, 531 villaggi distrutti, undici centri abitati svuotati.

Oggi il campo di Bourj el-Shamali, da prima emergenza è diventato luogo di residenza permanente per una popolazione che continua a ereditare da più di sessant’anni l’assurda identità di profughi, vittime dell’impotenza e dell’inettitudine dell’Onu e dell’intera comunità internazionale nel far fronte a un’emergenza umanitaria e nel mettere un freno all’arroganza e alle continue aggressioni dell’entità sionista. “Dopo l’espulsione ci hanno fatto aspettare al confine,” racconta Abu Wassim, “e l’Onu ci aveva promesso che saremmo potuti tornare in Palestina. Ma poco dopo ci hanno smistati in tutto il Libano.”

Nel campo circa 400 case sono fatiscenti e in condizioni non adatte per viverci, con tetto in zinco che le rende troppo calde d’estate e fredde e umide d’inverno. In un chilometro quadrato vivono più di 20mila persone, di cui il 70 per cento lavora stagionalmente in campo agricolo, dopo aver ottenuto un permesso speciale, per 12 dollari al giorno, la disoccupazione è del 65 per cento tra gli uomini e 90 per cento tra le donne, e la maggior parte degli abitanti vive sotto la soglia di povertà.

La vita sociale è difficile, i ragazzi passano troppo tempo nelle strade, non hanno lavoro e dopo che hanno superato l’età scolare non sanno più cosa fare e dove andare. Il sistema educativo è regolato dalle Nazioni Unite, ma il liceo non li prepara in modo adeguato e la maggior parte non supera l’esame per accedere all’università. Anche il sistema sanitario è regolato dall’Onu, “ma una clinica aperta dalle 8 del mattino alle 3 del pomeriggio con un solo medico non è abbastanza,” si lamenta Abu Wassim, che amministra anche la Ong Beit Aftal Assumoud con l’obiettivo di fornire assistenza finanziaria e sanitaria a 68 famiglie e 155 bambini attraverso attività ricreative per ragazzi e una clinica nella loro sede. Con 14 impiegati e volontari dal Libano e da altri Paesi, Beit Aftal Assumoud si affida a donazioni che arrivano dall’Onu o da privati.

Dopo 64 anni, gli abitanti di Bourj el-Shamali e degli altri campi profughi di Libano, Siria e Giordania, hanno smesso di sperare e di credere che qualcuno ha davvero l’intenzione e la buona volontà di aiutarli. “Non c’è nessuna comunità internazionale,” mi dice Abu Wassim. “Quante risoluzioni sono state emesse dall’Onu dal ’48 ad oggi? Non è successo niente, non hanno prodotto nessun risultato, le Nazioni Unite non hanno la capacità di aiutare i Palestinesi. Ogni giorno qualcuno viene qui nella sede di Beit Aftal Assumoud a dirmi che ha bisogno di un’operazione chirurgica. Proprio ieri è venuta una ragazza di 16 anni per essere operata, il costo dell’intervento è di 4000 dollari, e l’Onu ha dato 500 dollari. Come andrà a finire? Che la ragazza non si sottoporrà all’intervento”.

“Abbiamo ben poco in cui sperare,” continua Abu Wassim. “La comunità internazionale ha fallito nel garantire i diritti umani fondamentali alla popolazione palestinese”. https://www.youtube.com/



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