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La VOCE ANNO XX N°1

settembre 2017

PAGINA a         - 29

Siria, che ipotesi si possono fare per il dopo ISIS?

di Mario Villani

A conclusione del mio precedente articolo ho espresso il timore che la fine dell’ISIS non avrebbe comportato automaticamente la fine del conflitto in corso ormai da sei anni, ma solo il suo passaggio ad una fase differente. Qualche amico mi ha accusato di eccessivo pessimismo (e spero che abbia ragione) e mi ha comunque chiesto di spiegare sulla base di quali elementi ho formulato una simile previsione.
Vedrò di spiegarmi meglio.

In primo luogo devo però fornire alcuni aggiornamenti sulla situazione sui campi di battaglia.
L’offensiva lanciata sul Qalamoun da parte degli eserciti siriano e libanese, ma, soprattutto, dagli Hezbollah si è conclusa con la vittoria di questi ultimi e la completa disfatta degli islamisti che hanno dovuto abbandonare le loro posizioni attorno ad Arsal ed accettare di arrendersi pur di poter raggiungere incolumi la provincia di Idleb. Contemporaneamente è continuata, da due direzioni, la marcia di avvicinamento dell’esercito siriano alla città assediata di Der Ezzor. Quest’importante centro sull’Eufrate era stato scelto dall’ISIS (ma soprattutto dai suoi ispiratori) come capitale di uno stato wahabita che avrebbe dovuto nascere dalla disintegrazione della Siria. Per questa ragione, da tre anni, l’ISIS ha impegnato su questo fronte i suoi reparti migliori e più determinati lanciando centinaia di attacchi che però non sono riusciti a vincere la resistenza delle truppe siriane trincerate in alcuni quartieri della città ed intorno al suo aeroporto.
Quando su questo fronte tutto sarà finito bisognerà che qualcuno faccia conoscere al mondo come poche migliaia di paracadutisti, appoggiati da qualche volontario locale siano riusciti siano riusciti a tenere le loro posizioni, malgrado la scarsità dei rifornimenti, contro un nemico molto più numeroso e tanto determinato da lanciare centinaia di kamikaze contro le loro linee.

Perchè quindi, malgrado questi sviluppi positivi, continuo a non vedere vicina la fine del conflitto in Siria? Perchè, secondo me ci sono dei nodi che sono ben lontani dall’essere sciolti.
Vediamo quali sono.

Il primo: i Curdi. Di fatto il nord della Siria è in buona parte sotto il controllo di milizie curde che si comportano come se ormai fossero una nazione indipendente, addirittura arrivando a praticare una forma di pulizia etnica soft ai danni della popolazione araba. Se l’enclave curda situata a nord di Aleppo potrebbe forse accettare ancora l’autorità, almeno formale, di Damasco pur di essere difesa dalla minaccia dei Turchi, la più grande enclave situata a nord est è guidata da milizie che, sentendosi appoggiate dagli USA ed essendo protagoniste della presa di Raqqa, puntano senza mezzi termini ad una completa indipendenza che però il governo siriano non è disposto a concedere.

Secondo nodo: i Turchi. Ankara ha oggi in Siria due obbiettivi primari: impedire con ogni mezzo la nascita di uno stato curdo (a meno che non sia governato da sue marionette) e non uscire a mani vuote dal conflitto. Se le milizie che appoggia e finanzia non riusciranno a conseguirle questi due obbiettivi non è escluso che la Turchia decida di intervenire direttamente in maniera molto più massiccia di come ha fatto fin’ora.

Terzo nodo: Israele. Tel Aviv vede con preoccupazione il ritorno dell’esercito siriano (e di Hezbollah) sulle sue frontiere e preferisce di gran lunga che vi siano dei piccoli stati cuscinetto indipendentemente da chi governati. Qualcosa del genere fece, anni addietro, in Libano promuovendo, nelle regioni meridionali, la costituzione di una milizia denominata Esercito del Libano Sud che però si sciolse come neve al sole di fronte all’offensiva di Hezbollah.

Quarto nodo: la provincia di Idleb e regioni confinanti. In questa provincia sono ormai concentrate decine di migliaia di islamisti, fuggiti da altre aree del paese riconquistate dall’esercito siriano. Queste bande hanno i loro protettori internazionali che attualmente sono però in rotta tra di loro. Una eventuale offensiva siriana su Idleb potrebbe però ricompattare Arabia Saudita, Turchia e Qatar e spingerle a riprendere l’aiuto ai loro alleati sul campo.

Ultimo nodo: gli USA. Da anni perseguono in Medio Oriente quella che può essere definita una vera e propria strategia del caos. Non vi sono segni che questa strategia sia stata affossata. Sembrerebbe che Trump non la condivida, ma quanto comanda realmente Trump oggi? E soprattutto per quanto resterà ancora Presidente degli Stati Uniti? Di fatto la presenza (illegale) di truppe americane in Siria non solo non è diminuita, ma anzi negli ultimi mesi si è rafforzata.

A fianco di queste problematiche vi sono quelle che riguardano invece il campo opposto, quello dei sostenitori del Governo di Damasco.

Ne accenno solo a due.

1) Il regime Baatista non è compatto, ma è da sempre diviso in due anime. Una laicista, socialisteggiante, militarista, caratterizzata in passato per l’ammirazione verso l’Unione Sovietica. L’altra moderata, liberista, favorevole a caute riforme sia in campo economico che politico. Se Afez Assad era stato un’esponente della prima anima, Bashar Assad sembrerebbe protendere più verso la seconda. Queste due anime, a fronte del pericolo mortale corso dalla Siria, si sono ricompattate, ma le differenze rimangono ed anzi temo che qualcuno, in particolare nelle Forze Armate che oggi hanno acquisito un enorme prestigio e che hanno una tradizione di “interventi” in politica, mediti già una resa dei conti interna al partito Baath.

2) Per fronteggiare la minaccia delle bande islamiste in molte città e villaggi sono nate e si sono organizzate molte milizie locali. Alcune hanno svolto un’azione efficace e preziosa (basti pensare alle milizie cristiane di Maalula e Qamishli). Altre si sono dedicate più che altro a taglieggiare i
propri concittadini suscitando malcontento e rancori. Non sarà facile, al termine del conflitto, far rientrare nei ranghi e convincere a riprendere una vita normale questi miliziani che da anni, di fatto, vivono di violenza.

Ovviamente mi auguro che questi miei timori si rivelino privi di fondamento e che per la Siria il giorno della Resurrezione sia vicino. Per questo ribadisco ci si debba affidare in egual misura a San Marone (che era siriano) ed alle capacità diplomatiche del Ministro degli Affari Esteri della Russia, Lavrov.

Mario Villani
PS
Il 31 luglio la Chiesa Maronita ha celebrato la Giornata dei Martiri delle Chiese d’Oriente. Qualcuno ha sentito qualcosa sui media mainstream?

In Venezuela come in Cile, Libia e Ucraina: l’imperialismo non cambia il copione

da Pátria Latina
resistencia.cc

Traduzione di Marx21.it


La scalata delle aggressioni diplomatiche, economiche e mediatiche contro la Rivoluzione Bolivariana è la stessa promossa contro la Libia, l’Ucraina e negli anni 70 contro il Cile.

La guerra narrativa guidata dalle transnazionali mediatiche, negli esempi citati e ora contro il paese caraibico, è stata costruita in base alla tesi dello Stato fallito e reietto come scusa per legittimare un intervento armato e il cambiamento del governo.

Finanziate e pianificate all’estero, le azioni di destabilizzazione in ogni paese sono state messe in pratica da partiti politici, settori accademici ed ecclesiastici filo-imperialisti, oppositori dei governi locali.

La richiesta di Richard Nixon al suo segretario di Stato, Henry Kissinger, di “far urlare l’economia cilena”, per stroncare il governo socialista di Salvador Allende, sembra ripetersi anche oggi.

Il presidente Donald Trump ha minacciato in questi giorni di applicare “misure economiche forti e rapide” contro il Venezuela se sarà realizzata l’Assemblea Nazionale Costituente.

Secondo la versione mediatica della “Rivoluzione Arancione” in Ucraina, sarebbe stata la pressione dei “giovani universitari e studenti delle secondarie” a rovesciare il presidente Viktor Janukovich per la sua opposizione all’Accordo di Associazione e Libero Commercio con l’Unione Europea. I governi più influenti avevano accusato Kiev di attaccare i manifestanti.

Documenti dell’epoca avevano affermato che “nelle manifestazioni si osservava l’uso sempre più generalizzato di mezzi di protezione come caschi, giubbotti e persino scudi”. Nelle ultime settimane tutte le proteste erano sfociate in scontri.

In Venezuela, il cosiddetto “esercito templare” si è formato nell’immaginario costruito nelle reti sociali, soprattutto da parte di giovani che lotterebbero contro la “dittatura” che li opprime. Gli assedi a installazioni militari e i crimini di odio sono giustificati e spacciati come “autodifesa”.

I simboli e l’applicazione del manuale del “golpe morbido” di Gene Sharp, in Ucraina e in Venezuela, sono scandalosamente simili.

Il punto di svolta del conflitto in Libia, che si è concluso con l’assassinio di Muammar Gheddafi, è rappresentato dalla creazione del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) formato da politici dell’opposizione servili verso Washington ed ex funzionari di alto livello del governo rovesciato. Prima di allora, la crisi era stata acutizzata da una rivolta violenta di diversi giorni a Bengasi, zona in mano all’opposizione, e dalla denuncia che le forze armate avevano attaccato i manifestanti pacifici.

La coalizione antichavista riunita nella “Tavola di Unità Democratica (MUD)” ha annunciato la formazione di un governo parallelo dopo avere organizzato una consultazione interna tipo plebiscito, in cui simbolicamente il “popolo” avrebbe tolto legittimità al governo democratico di Nocolas Maduro e alle sue istituzioni.

Freddy Guevara, vice presidente dell’Assemblea Nazionale (AN) e coordinatore del partito Volontà Popolare il 18 luglio su twitter ha sostenuto di non rappresentare uno Stato parallelo, ma che “siamo lo Stato Costituzionale”.

Lo stesso presidente dell’Assemblea Nazionale, Julio Borges, aveva già annunciato l’appello a “giurare” ai nuovi membri del Tribunale Supremo di Giustizia e del Consiglio Nazionale Elettorale.

L’opposizione venezuelana non ha ancora deciso quale nome dare al “nuovo governo” parallelo che sta cercando di installare. Fino ad ora i suoi portavoce hanno fatto riferimento a un governo di unità nazionale o a un governo di transizione.

Il presidente Maduro ha avvertito che “l’imperialismo si è proposto di provocare un’ondata di emozione e di sfruttarla per rovesciare il governo legittimo e imporre una giunta di transizione”.

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