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La VOCE ANNO XIX N°6

febbraio 2017

PAGINA 3

Democrazia, se il popolo non conta più nulla

di Angelo Cannatà
Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo.

Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i Movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il Paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?

A questo siamo. La Repubblica fondata sul lavoro non consente ai cittadini di pronunciarsi sulla legge che nega i diritti del lavoro. Perché? Perché la Consulta fa politica con le sentenze. Bisogna dirlo, gridarlo dai tetti. Una seconda sconfitta – questa volta sull’articolo 18 – avrebbe demolito definitivamente ogni pretesa di Renzi alla guida del Paese. Il referendum andava fermato o depotenziato: chi doveva capire ha capito e votato – nell’organismo “impolitico” – secondo i desideri della politica: della maggioranza governativa, s’intende. E i cittadini? I cahier de doléances? Proteste, referendum vinti, mobilitazioni, referendum richiesti (con milioni di voti) non contano nulla. Il popolo – teoricamente sovrano – è ignorato. E impoverito: la disoccupazione cresce (vedi dati Istat), “l’occupazione crolla sotto i 50 anni e salgono i voucher”. Camusso ha ragione: “Non c’è libertà nel lavoro senza diritti”. Di più: non c’è democrazia reale senza attenzione ai bisogni primari dei cittadini: le persone non sono numeri.

È una sentenza ingiusta, quella della Consulta, arrivata mentre il popolo è offeso anche su altri versanti: le banche, a cominciare da Montepaschi, sono state spolpate da imprenditori rapaci (che hanno abusato di Orazio: “Fai quattrini, onestamente, se puoi, e se no, come ti capita”). C’è da stupirsi se qualcuno s’incazza? Mi meraviglio piuttosto della capacità di sopportazione degli italiani. Decisivi i 5Stelle: altro che Movimento anti sistema! Contengono la protesta nei binari della legalità. La sinistra renziana, ormai, è aliena rispetto al mondo operaio: può dirsi di sinistra un partito che salva Montepaschi ma non riesce a tutelare i diritti dei lavoratori né dalle truffe bancarie né dagli illegittimi licenziamenti del Capitale?

È il nodo politico dei nostri giorni: la sinistra di governo – com’è stata ridotta – non rappresenta più l’universo del lavoro. Il M5S è percepito come il nuovo (diritti, partecipazione, democrazia diretta) ma deve evitare errori grossolani in politica estera: le giravolte dal gruppo anti all’iper europeista. Non presti il fianco a chi parla di “Setta dell’Altrove”. Non è così. Il Movimento è affidabile e combatte in Italia battaglie di civiltà, ma lo scivolone di Bruxelles c’è stato. Bisogna riconoscerlo e ripartire: con la consapevolezza che le vere “sette” nel nostro Paese hanno spolpato Montepaschi (vogliamo la lista dei grandi debitori); influenzato la Consulta sul Jobs act; costruito governi anomali; demonizzato il popolo: il M5S ha il consenso necessario per spazzare via tutto questo.

Non disperda le sue energie con scivoloni assurdi e cerchi alleanze nella società civile: ha bisogno di una classe dirigente preparata. Basta con la richiesta di denaro ai transfughi (ci sono sempre stati in tutti i partiti), il Movimento si pensi, adesso, come forza di governo. Nulla fa più paura, alla varie massonerie che ammorbano il Paese, della normalità politica conquistata/conquistabile dai pentastellati. “La moderazione – a un certo punto – diventa la tattica preferibile”.

(16 gennaio 2017)

Torneremo a essere una Repubblica fondata sul lavoro?

di Alessandro Somma

Alla fine è successo quello che più o meno timidamente in molti avevano preannunciato. La Corte costituzionale ha bocciato il referendum sull’art. 18, proposto dalla Cgil per ripristinare le tutele previste prima del Jobs Act e della legge Fornero: quando il lavoratore ingiustamente licenziato doveva essere riassunto, e il datore di lavoro non poteva cavarsela pagando un indennizzo più o meno contenuto.

Da più parti si è detto che si è trattato di una sentenza politica ma non è questo il punto. Valutare se una legge è compatibile con i principi costituzionali è un atto squisitamente politico, e tale sarebbe stato anche ove si fosse ammesso il referendum. Il punto è capire quale politica esprimono ora i valori costituzionali e i loro interpreti più autorevoli, dal momento che la Carta fondamentale, che pure è stata appena salvata dallo sfregio rappresentato dalla riforma voluta da Renzi, non è più quella dei Padri costituenti: non è più la più bella del mondo.

Con l’introduzione del principio per cui il bilancio dello Stato deve tendere verso il pareggio, infatti, si sono di fatto vietate le politiche redistributive incentrate sulla spesa pubblica: le politiche che nel tempo hanno consentito di attuare i diritti sociali. La libera circolazione dei capitali, voluta da Bruxelles esattamente come il pareggio di bilancio, ha fatto il resto: se i capitali circolano senza ostacoli, vanno solo là dove sono bassi i salari e le tasse. Neppure la leva fiscale può dunque essere utilizzata per redistribuire ricchezza dall’alto verso il basso e perseguire così l’uguaglianza e la giustizia sociale. Resta possibile la sola redistribuzione dal basso verso l’alto, quella che riguarda le somme utili a salvare le banche vicine al potere politico, da ultimo i 20 miliardi necessari a risanare Monte dei Paschi.

Insomma, dopo anni di liberismo imposto dall’appartenenza europea, o con la scusa dell’appartenenza europea, siamo a finalmente giunti a vanificare il primo articolo della Costituzione: quello per cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, che dunque deve esserci, ma anche e soprattutto essere assistito da diritti e da salari. Solo così il lavoro è veicolo di cittadinanza, capace di assicurare a sé e alla famiglia, come dice la Costituzione, un’esistenza libera e dignitosa.

Indubbiamente la sentenza della Corte costituzionale sull’art. 18 contribuisce non poco ad affossare i valori fondativi della Carta fondamentale. Certo, ci sono appigli di ordine tecnico per dire che è fondata, che non si tratta di un mostro giuridico, ma la stessa cosa si poteva a maggior ragione dire se il referendum fosse stato ammesso. Ci muoviamo del resto nel campo della politica, dove tutte le opzioni sono aperte e legittime dal punto di vista formale, ma solo una emerge per effetto dei rapporti di forze e del conflitto cui esse hanno dato vita: le democrazie di questo vivono, e non certo del mantra liberista per cui non ci sono alternative allo stato di cose.

Da questo punto di vista, però, la Corte costituzionale non ha portato solo brutte notizie. Ha ammesso gli altri referendum proposti dalla Cgil: quello per abolire i cosiddetti voucher o buoni lavoro, e quello per ripristinare la responsabilità solidale delle società appaltatrice e appaltante nei confronti dei lavoratori. Si tratta di referendum su temi privi della forza simbolica tradizionalmente attribuita all’art. 18 e alla sua difesa, il cui significato non è però meno sentito. In particolare i voucher sono divenuti l’incarnazione del lavoro ridotto a variabile dipendente dalle caratteristiche e necessità del processo produttivo: i lavoratori retribuiti con i voucher sono lavoratori alla spina, da assumere quando servono e licenziare subito dopo, a cui non riconoscere dignità e diritti, a cui destinare salari da fame.

Una campagna sui referendum sopravvissuti può insomma assumere significati simbolici che vanno oltre gli specifici quesiti. Può far parlare di lavoro, ma anche di Stato sociale, sempre più privatizzato attraverso forme di assistenza e previdenza integrative, magari combinate con alchimie come il welfare aziendale. Può rimettere in discussione il primato dell’economia sulla politica, o il primato di una politica che scimmiotta l’economia. E può farci finalmente uscire dalle sterili disquisizioni seguite all’esito del referendum costituzionale circa le alternative al renzismo: le possibili alleanze future, il DNA politico dei Cinque stelle, le prospettive dei partitini alla sinistra del Pd, il futuro della minoranza Pd, il ruolo della società civile e altre amenità.

Insomma, abbiamo di fronte a noi una campagna referendaria sul tema dei temi: il lavoro. E l’occasione per selezionare i compagni di strada per una sinistra che voglia ripartire dal lavoro, senza ambiguità, prime fra tutte quelle che affliggono anche il sindacato che ha raccolto le firme sui quesiti referendari.

(12 gennaio 2017)

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